Bioprinting e stampanti 3D: quando gli organi si potranno “stampare”

La storia è colma di momenti in cui scienza e tecnologia permettono cambiamenti irreversibili nella qualità della vita e nel progresso della civiltà umana. La stampa 3D, dopo essere diventata il fenomeno manifatturiero e artigianale degli ultimi due anni, potrebbe segnare una conquista epocale nella medicina e contribuire a “stampare” tessuto cellulare. Se tutto ciò funzionasse, il genere umano potrebbe essere alle porte di una nuova era di progresso, paragonabile alla rivoluzione industriale, in cui si riscriverebbero i limiti di ciò che siamo in grado di fare. Elena Gammella ci spiega come questo sia realmente possibile e a che punto siamo arrivati. – ventuno

di Elena Gammella 

bioprinting

Sempre più spesso si sente parlare di stampa in 3D e di come questa tecnologia potrà contribuire effettivamente allo sviluppo di nuovi scenari nel settore del manufacturing. Grazie alla disponibilità di dispositivi sempre più economici l’utilizzo delle stampanti 3D si è ampliato rapidamente negli ultimi anni consentendo addirittura a privati disposti a sostenere cifre ragionevolmente modeste (bastano meno di 1.000 $ per una stampante entry level) di disegnare al computer sculture e oggetti tridimensionali e di realizzarli in plastica, polimeri o altri materiali artificiali.

Ma cosa pensare se al posto di plastica o bio-polimeri si usassero come inchiostro cellule umane viventi. Fantascienza? Tutt’altro, grazie a studi d’ingegneria molecolare sempre più sofisticati la tecnologia delle stampanti 3D si è oggi ampliata enormemente anche nel campo della medicina. Si parla, infatti, di bio-printing, bio-stampanti che producono tessuti e organi umani i quali costituiranno una svolta importante nel campo della medicina rigenerativa.

Di che cosa si tratta? Il bio-printing è una tecnologia che sta emergendo, ma il processo rimane quello delle comuni stampanti ink-jet. In questo caso le testine sono due e la “stampa” avviene usando come inchiostro o meglio bio-inchiostro cellule umane e un particolare idrogel bio-inerte che sostiene il futuro tessuto. L’obiettivo è proprio quello di produrre strati di cellule viventi formando una struttura predefinita e funzionale.

Il prototipo per eccellenza di bio-stampante 3D si chiama Novogen MMX Bioprinter ed è di Gabor Forgacs, uno dei fondatori di Organovo e professore all’Università del Missouri. La Novogen Bioprinter dispone di due ugelli molto precisi controllati roboticamente, uno per le cellule e l’altro per una matrice di supporto chiamato appunto idrogel. Come per un progetto di stampa 3D tradizionale, il computer ha bisogno di un disegno tridimensionale del tessuto che si vuole realizzare. Il “bio-ink” composto da cellule staminali o da materiale organico raccolto nelle biopsie viene poi dispensato dalla bio-stampante utilizzando un approccio layer-by-layer a cui si aggiunge l’idrogel bio-inerte usato come supporto.

La Novogen MMX Bioprinter è stata in grado fino ad oggi di realizzare mini porzioni 3D di muscolo scheletrico, vasi sanguigni e osso, oltre che alla recentissima realizzazione di un-mini fegato 3D dalla dimensioni di 4 millemetri di diametro e mezzo millimetro di spessore, formato grazie alla sovrapposizione di 20 strati di epatociti e cellule stellate, le principali componenti del fegato, a cui poi la stampante ha aggiunto le cellule che formano i vasi sanguigni per creare la rete di canali che fornisce alle cellule del fegato i nutrienti e l’ossigeno. Alla fine quello che si ottiene è un mini-fegato a tutti gli effetti in grado di sopravvivere per circa cinque giorni e produrre proteine, colesterolo e anche di metabolizzare alcool.

Altri studi di bio-printing condotti dal professor Yoo James all’Istituto di Medicina Rigenerativa della Wake Forest University hanno avuto come obiettivo quello di stampare pelle direttamente sulle ferite da ustione. La bio-stampante in questo caso è dotata di un laser a scansione che analizza la ferita e determina la sua zona e profondità. La scansione convertita poi in immagini digitali tridimensionali consente al dispositivo di calcolare quanti strati di cellule della pelle devono essere stampati sulla ferita per riportarla alla sua configurazione originale.

Quello che la bio-stampante di Organovo o i dispositivi della concorrenza permettono di realizzare non sono ancora organi completi che possono essere trapiantati nel corpo umano, ma consentono lo sviluppo di studi sperimentali che si avvicinano molto di più alla fisiologia del corpo umano..
Infatti, Keith Murphy, CEO di Organovo, ci spiega che “questi modelli si dimostreranno superiori per quanto riguarda la capacità di fornire dati predittivi per la scoperta e lo sviluppo di farmaci, e saranno migliori dei modelli animali o degli attuali modelli cellulari”.
“Stampare” organi e tessuti umani con bio-stampanti che usano cellule umane derivate da paziente come “bio-ink” consentirà la produzione di organi personalizzati che il corpo umano sarà in grado di riconoscere e accettare senza incorrere nel rischio di rigetto: un notevole passo avanti nel campo della trapiantologia. Una delle principali sfide da affrontare per le bio-stampanti è il collegamento tra il materiale bio-stampato e il resto del corpo, specialmente con i più grandi tessuti e con i vasi sanguigni.
Nonostante queste difficoltà, considerando i numerosi studi sia in ambito accademico sia nel contesto industriale, il bioprinting potrebbe diventare effettivamente una tecnica standard entro un paio di decenni.

Un giorno il bioprinting potrebbe mettere la parola “fine” al problema del reperimento di organi per trapianti, trattare malattie rare e molto altro, come eliminare la domanda per il mercato nero di organi e abbattere i costi di certi trattamenti. Cosa ne pensate?
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Elena Gammella, post-doc all’Università degli studi di Milano, è laureata in biotecnologie e PhD in patologia generale. Si occupa di studi di biologia molecolare e ricerca di base. Quando non è impegnata in convegni o seminari, le piace dilettarsi in esperimenti culinari e di giardinaggio.

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