Buona primavera, dottoressa Gelmini
La primavera inizia con una giornata dedicata alla poesia. Genere bistrattato, abusato, incompreso, travolto da un modo bulimico e isterico di vivere e assumere la cultura. La poesia ha i suoi tempi e i suoi ritmi, in genere, in sintonia con quelli della natura. Vorrei proporvi qui, due poesie sulla natura di un tale Salvatore Quasimodo, autore che grazie ai programmi avallati e approvati dal nostro, mai rimpianto, ex ministro Gelmini, sarebbe superfluo o secondario.
Sull’argomento, interessante l’articolo firmato da Roberto Russo sul Corriere della sera di stamattina:
Nella giornata della poesia, io italiano del Nord, sono grato a un maestro del Sud.
Le gemme
Ed ecco sul tronco
si rompono gemme:
un verde più nuovo dell’erba
che il cuore riposa…
E tutto mi sa di miracolo.
Un’antichissima primavera
Già sulle rive del fiume ritornano i cavalli,
gli uccelli di plude scendono dal cielo,
dalle cime dei monti
si libera azzurra fredda l’acqua e la vite
fiorisce e la verde canna spunta.
Già nelle valli risuonano
canti di primavera.
Argeta Brozi, un fenomeno, incontrata per caso nel web
Imperversa nella rete, su Facebook è seguitissima, sul web è un piccolo fenomeno editoriale. Argeta Brozi è giovane e graziosa, due qualità di per sé ideali per catturare migliaia di fans sul web. Argeta Brozi, però, non è una blogger qualsiasi, non impazza nella rete con il metodo più facile per una bella ragazza. Ha successo, invece, con la cultura: come scrittrice e come editrice. A soli 26 anni. Non conosco i suoi libri, ora con pazienza mi metterò a leggerne almeno uno: m’incuriosisce moltissimo il suo “Prendimi l’anima”, già alla sesta ristampa. Il web è pieno di recensioni di suoi libri. Qualcuno ha letto i suoi racconti? Lettori naviganti nella rete, fermatevi nella tana del topo e parlateci dei libri questa ragazza. La sua è la storia di una scrittrice che ha deciso di fare da sé, si è rimboccata le maniche e ha avverato i suoi sogni con le proprie forze e i propri mezzi, senza starsene ad aspettare mecenati o altre illusioni. Argeta, italiana di origini albanesi, viene da Correggio (Re) e ha accettato di raccontarci qualcosa di sé.
Argeta Brozi, sei più editrice o scrittrice?
«Sono più un’amante dei libri. Mi piace scrivere, mi piace leggere, non potrei fare a meno di nessuno dei due!»
Come nasce una casa editrice? E, soprattutto, come una giovane autrice (molto giovane) riesce a realizzare un simile progetto in Italia… (allora, anche da noi si può!)
«Tutto nasce dalla passione, da un’idea, un progetto: un sogno! Poi c’è un aspetto più tecnico. Ho fatto tanti anni di gavetta gratuita prima di buttarmi in un progetto tutto mio. Molte cose, poi, s’imparano durante il percorso, altre si inventano. Anche perché bisogna sempre sperimentare nuovi modi per colpire il pubblico. Certo, in Italia tutto è molto più difficile: pochissimi lettori, tanti scrittori, poche vendite, tante tasse… uff! Una sfida difficile insomma, un lavoro concorrenziale e non ad armi pari… Ma quando si tiene tanto a un progetto, quando si crede in qualcosa, non c’è niente che possa fermarlo!
Ti va di parlarci un po’ di te? Ho letto dalla tua biografia che sei nata in Albania… Dove abiti ora?
«Dal 1991 abito a Correggio, in provincia di Reggio Emilia. È una città piccola, tranquilla, forse troppo! Ma un buon posto per scrivere. Che cosa dire di me stessa? Sono un mix di forza e dolcezza, timida e caparbia. Ho la passione per la lettura da quando avevo 8 anni e scrivo da quando ne avevo 9. Sono follemente innamorata dell’America e dei sogni ad occhi aperti, ma poi finisce che razionalizzo tutto e resto con i piedi per terra. Amo aiutare il prossimo e stare con i bambini, soprattutto con il mio nipotino Jonathan, non è perché sono di parte, ma è proprio un amore! Anche a lui piacciono molto i libri della Butterfly Edizioni: ci gira sempre intorno! E soprattutto gli piace stare davanti al pc con me, mentre lavoro».
Pubblicare a pagamento: una piaga per la buona narrativa, oppure un’alternativa per emergere nel mare di proposte letterarie?
«Una soluzione tutta italiana, ma il discorso sarebbe piuttosto lungo! Gli scrittori non si contano, quelli che si credono tali pure: gli editori sanno che, se vogliono sopravvivere, devono usare ogni mezzo: a volte, purtroppo, anche con mezzi sbagliati, magari chiedendo cifre assurde. Secondo me, invece, anche per gli editori più piccoli basterebbe avere il lavoro pagato. Se sei un “piccolo”, è comprensibile che non si voglia rischiare di fare il passo più lungo della gamba, con una perdita enorme. Sono, tuttavia, convinta anche che sono solo 2, le tipologie di libri pubblicabili: quelli belli e commerciabili e quelli belli anche se poco commerciabili. Significa che se una storia, a leggerla non piace, non va pubblicata, anche se l’autore in questione pensa di essere il nuovo Stephen King. Pubblicare a pagamento, a certe condizioni, sì, è un’alternativa per emergere, per pubblicare libri che meritano: proposte magari di nicchia e quindi più difficili da vendere».
Un autore/editore è un’anomalia, un po’ come il “topo di campagna” (il protagonista del mio blog) che fa nascere un blog e non lo vuole tenere solo per sé… In genere gli scrittori sono spesso e volentieri “autoreferenziali” quando dicono o fanno qualcosa…Come si riesce, invece, a superare questo limite? Quando una scrittrice si fa da parte e diventa editrice per altri?
«È difficile scindere le due cose: io ragiono sempre sia come editrice, sia come scrittrice… Mi sforzo di andare incontro agli autori, cercando di fare quello che io, come scrittrice, ho sempre desiderato ricevere. Certo, nel ruolo di editore devo far quadrare i conti, anche perché, se non quadrassero, chiuderei in un attimo e addio libri, autori, e sogni. Più che essere autoreferenziale e quindi dire “ho scritto un libro bellissimo”, a me piace andare oltre. Cerco di dimostrare che un certo libro sia effettivamente bellissimo e apprezzabile dal pubblico. Fino a oggi le recensioni ricevute per i libri pubblicati da Butterfly Edizioni sono state positive e molto incoraggianti. Il consenso dei lettori è la soddisfazione più bella».
L’Italia è un Paese di calciatori, cantautori e/o scrittori noir (se sei adulto) o fantasy (se sei giovane): perché, secondo te, ci sono sempre meno scrittori del proprio tempo? Perché è più difficile o perché la crisi (più culturale che economica) porta gli autori a rifugiarsi in “isole” proprie e immaginarie?
«Di scrittori, in realtà, ce ne sono sempre di più: la gente sente il bisogno di esprimersi, indagarsi, farsi conoscere… Penso che sia un po’ colpa della nostra società e del modo di comunicare, la tivù e internet hanno molta influenza. Prima di internet, si parlava tra amici, mentre ora per sentirsi qualcuno, bisogna fare cose “grandi” agli occhi degli altri: come andare in tv, o avere un blog, o un profilo su Facebook. La gente ha paura di essere dimenticata, non si sente compresa a sufficienza, ha bisogno di sentirsi al centro dell’attenzione. O meglio, cerca amici virtuali che comprendano le proprie emozioni, i propri problemi. Ecco perché tanti blog sono in realtà scritti da adolescenti che hanno voglia di raccontarsi. Poi c’è qualcuno che preferisce esprimersi in modo diverso, per esempio tramite storie di fantasia. C’è bisogno di evasione e, si sa, i libri e le storie ti portano lontano senza il bisogno di muoversi o spendere tanti soldi!»
Un autore che non può mancare nella libreria di un buon scrittore…
«Come si fa a dare una risposta? Ce ne sono così tanti: un buon scrittore deve essere prima di tutto un divoratore di libri. Per venire incontro alla tua domanda ne cito uno su tutti: Il conte di Montecristo»
Secondo te, qual è lo scrittore (in Italia) più sottovalutato e quale quello più sopravvalutato?
«Di sopravvalutati, come di sottovalutati, ce ne sono parecchi. Secondo me il lettore medio sopravvalutata gli autori che passano più facilmente sui media. Si sottovalutano, invece, tanti autori emergenti. Vorrei sfidarvi a leggere gli emergenti meritevoli e confrontarli con i big delle classifiche di vendita. Come? Sarebbe bello poter leggere libri in forma anonima e concentrarsi solo sull’opera, senza farsi condizonare né dal nome dell’autore, né dalla casa editrice».
Bella sfida, Argeta: intanto, sei la benvenuta nella tana del topo. Ora, la parola passa ai tuoi libri: scritti di persona o soltanto pubblicati. Mi hai davvero incuriosito…
Ah, dimenticavo! Cari amici lettori, per sapere qualcosa di più su Argeta, basta digitare il suo nome su Google o su Facebook. Argeta tiene più di
un blog, tra i tanti indirizzi vi consiglio questo, che dal titolo è tutto un programma: http://divoratricedisogni.blogspot.com/
La pendolare modenese e il suo blog “terapia”
Le invidio la freschezza, quella che ti fa cogliere spunti narrativi e persino poetici del viaggiare in treno. Ma io “topo di campagna” non viaggio come lei, nella dolce pianura emiliana: la “mia” Milano-Domodossola logora le menti più illuminate, il viaggiare in treno è un’esperienza letteraria solo in certi momenti.
Katia Pendolante modenese, invece, condivide in modo più costante la sua sensibilità su un blog che è davvero una terapia per pendolari stressati. Un’altra Italia, forse, che la rete web rende così vicina anche ai topi di campagna che da e per Milano.
Un’idea diventata realtà da pochi mesi…
«Da sette anni, per lavoro, percorro una breve tratta tra le province emiliane: casa/lavoro in un’ora sola e sul treno non ci salgo mica subito, prima c’è l’automobile, poi, una volta scesa, divento ciclista, sperimentando così diversi mezzi di trasporto. Ho iniziato a scrivere il mio blog da pochi mesi perché ero stanca di prendere appunti su biglietti volanti, liste della spesa, taccuini, rubriche e quant’altro. E di appunti ce n’è sempre da prendere perché la gente m’interessa e, ad osservarla, si possono cogliere segni di originalità degni di nota, o scoprire una serena e tranquillizzante normalità, o un’inquietante ed allarmante banalità. E c’è da dire che noi pendolari, come oggetto di studio, offriamo il vantaggio di restare fermi nello stesso posto abbastanza a lungo per essere osservati».
C’è anche un retroscena tenero, nel blog di Katia…
«Le vicende di pendolari, poi, si trasformano nelle avventure di una viaggiatrice per la mia bambina di 5 anni che, a gran voce, quando torno a casa, mi chiede di quella volta che le porte del treno mi si sono chiuse sul naso, o quando il controllore mi ha risparmiato la multa sull’abbonamento scaduto… ammetto che qualche volta, per lei, invento».
Viaggiare in treno, osservare, riflettere e condividere. Katiasi è trasformata in blogger, anche a scapito di un’altra sua passione, la lettura in treno:
«L’appuntamento col blog ha trasformato un hobby in un impegno, così l’attività di osservatrice va a scapito di quella di lettrice, anche se di libri, in treno, ne ho letti molti. Potrei dire che il miglior libro da treno è quello che pesa poco, o che non produce sonore risate o copiose lacrime, ma fuori di battuta, se ne devo indicarne uno solo, mi sono entusiasmata per e con il protagonista tredicenne di Ci sono bambini a zigzag di David Grossman, che del treno fa un luogo d’incontro di personaggi meravigliosi e del viaggio una metafora di scoperta».
Dai miei “deliri umoristici”, dal mio viaggiare, osservare e scrivere in treno, è nato Dove finisce Milano, una raccolta di racconti che sono semplici bozzetti, caricature, esperimenti narrativi, messi su carta per valutarne l’effetto sul pubblico. Katia, con la sua penna fresca e, a volte, anche tenera, non è tentata da un libro?
«Ammetto di aver pensato a una raccolta dei miei post su Pendolante, magari da ciclostilare in cantina, ma ho scoperto diverse iniziative editoriali di altri che mi hanno preceduto. Ho iniziato a leggerle (e le proporrò) col timore di essere influenzata, ma ho scoperto che se gli episodi possono essere simili, è lo sguardo di chi scrive che è diverso. Così, non mi scoraggio e continuo a postare ciò che vedo. In futuro si vedrà».
Katia osserva, riflette, scrive: e la sera tutto diventerà una fiaba per la sua piccola. Mi piace immaginarmi quel momento dolce, quando i treni entrano in mondi dove tutto è possibile, perché il viaggio è sempre un’avventura che andrebbe raccontata.
Mi raccomando seguite il suo blog:
Il mio racconto “ristretto”: a voi la sfida
Tugnìn gettava le reti, quando Angera viveva di lago. Oggi parla ai cormorani: «È tutto vostro, che aspettate?» Dalla riva, pregusta il loro tuffo infallibile.
Amo il racconto breve, ma questo è un racconto “ristretto”: il mio primo racconto ristretto. Venticinque parole. C’è, però, chi si è divertito a restringere ancora di più: “Vendesi: scarpe da bambino. Mai usate.” Questo lo scrisse, forse per scommessa, un certo Ernest Hemingway.
Ci ho provato anch’io, ovviamente per gioco. E ora sfido voi, lettori: vi invito a un simpatico concorso, ideato da Massimo del Caffè la Cupola di Varese. Per chi vuole partecipare: tenete il racconto nei vostri pensieri, andate al Caffè la Cupola (in piazza San Giovanni, davanti alla chiesa della Brunella) e scrivetelo sulla scheda di partecipazione, rigorosamente a penna. Unica regola: il racconto deve avere un massimo di 25 parole. I migliori racconti verranno valutati, in forma del tutto anonima, da una giuria qualificata. Inoltre, verranno letti in una serata “ad hoc”, organizzata dall’associazione “La curiosità letteraria”. Al vincitore, spetterà in premio una preziosa penna stilografica (informatevi a questo indirizzo: caffelacupola@ngi.it)
Chi, invece, non è nella condizione di poter partecipare al concorso (soprattutto per ragioni geografiche), può scrivere il proprio racconto “ristretto” qui, nei commenti a questo post. Non vincerà un bel niente, ma potrà condividere un pizzico della propria creatività con i tanti amici della Tana del topo. Forza, accettate questa sfida!
(In questo blog, verranno pubblicati solo i racconti “ristretti” firmati dagli autori, che dovranno indicare anche la località di provenienza)
A proposito di poesia
Già, a proposito di poesia. Un piccolo pensiero per Antonia Pozzi, un personaggio che raramente finisce sui libri di scuola, ma che ha scritto pagine di rara sensibilità poetica. Giovane milanese, morta suicida, autrice poco compresa, ma da comprendere. Per questo, mi permetto un consigliarvi un incontro molto importante: mercoledì 7 marzo, alle ore 18, presso la biblioteca civica di via Sacco a Varese, si terrà un incontro dal titolo “In riva alla vita”, appuntamento nel centenario della nascita di Antonia Pozzi (1912 -1938). All’incontro parteciperanno Alessandra Cenni e Silvio Raffo, curatori dell’opera omnia della poetessa per l’Editore Betti
Leggenda (1935)
Mi portò il mio cavallo
tra le foglie
con soffice volo.
Calda vita nel vento
il suo respiro,
i molli occhi
fra colori d’autunno:
era oro nel sole il suo mantello.
Le pietre si scostavano
sui monti
al tocco degli zoccoli d’argento…
Lucio Dalla vive, sono i poeti che non “cantano” più
L’Italia piange la scomparsa di Lucio Dalla, ma intanto la sua opera irrompe nelle case degli italiani, irrompe ovunque, più potente e viva che mai: l’immortalità è il privilegio degli artisti veri. E a Bologna, per le strade del centro hanno capito il senso di queste parole, mentre nell’aria della città si diffondevano le note delle canzoni del suo celebre cittadino (diffuse a tutto volume dalla sua abitazione di via D’Azeglio). Poesia, tanta poesia. Evocata in un pomeriggio soleggiato del 1° marzo 2012.
Anticamente i poeti componevano e “cantavano”, nella nostra epoca sembra che non lo facciano più. Provate a chiedere a chiunque passi per la strada di citare un verso qualsiasi di un poeta attuale. E per ogni editore, la poesia è da tempo un genere in perdita, anche se gli autori in Italia sono parecchi e molto prolifici. Non vendono, non compongono e non “cantano”, ma riflettono e scrivono. I poeti si sono sempre più allontanati dalla musicalità più comprensibile al popolo (ma forse è stato il popolo ad allontanarsi da loro). Hanno preso una strada impervia e tortuosa, spesso intima o astratta, sempre più distante dal volgo. E così, il comporre e il cantare sono diventati soprattutto esercizi esclusivi dei cantautori che, oggi, sono qualcosa di molto diverso dai menestrelli e dai cantastorie di un tempo.
Il mondo è cambiato, la radio, la televisione, il giradischi, i cd hanno fatto il resto: le canzoni e i loro autori hanno preso il sopravvento, non sempre con merito reale, ma molto spesso sulla spinta del favore del pubblico. Mentre i poeti moderni si sono spinti a esplorare le nuove dimensioni della parola, i cantautori hanno continuato a lavorare per il volgo, per il popolo. E fanno poesia.
Poesia intesa come arte universale, arte che, nella sua essenza, arriva a toccare tutti. Vabbè, la mia riflessione rischia di annoiarvi, si aprono ampi spazi per discussioni e opinioni discutibili, come la mia: il valore dell’arte si misura nella sua forza universale. La musica, la poesia, la letteratura, la pittura, la scultura, se necessitano di un compendio per essere comprese nella loro essenza, sono arte monca. L’emozione è roba da “istruzioni per l’uso”?
La musica leggera (non tutta, certo) ha riaccostato la gente alla poesia, come ci è riuscito anche il cinema: questi sono fatti indiscutibili. Tuttavia, sono in tanti a storcere il naso, quando si fanno rientrare i grandi autori della canzone italiana nella cerchia dei poeti.
La morte di Lucio Dalla, come in passato avvenne dopo la scomparsa di Fabrizio De Andrè, ripropone questo dibattito: perché, più forte della notizia che fa certamente scalpore, c’è la sua opera, la sua poesia che si spande nell’aria e nei pensieri di tutti noi.
In cuor mio, avrei voluto che fosse avvenuta la stessa cosa lo scorso mese di ottobre, dopo la morte di Andrea Zanzotto. Ma non è andata così: non critico, ma osservo e rifletto.
Il cielo,
si perde il pensiero quando guardo il cielo
Memoria e territorio: e se facessimo un ecomuseo?
Perdere la memoria è un po’ come ritrovarsi immersi nella nebbia in un luogo sconosciuto: si distinguono a malapena i contorni di ciò che ci circonda e ci si muove con grande incertezza. Disorientamento. Quello che si manifesta davanti ai nostri occhi, viene interpretato in modo approssimativo. In parole semplici: si va avanti per tentativi. Questo vale, in un certo senso, anche per coloro che scrivono per mestiere o per il piacere personale. Allo stesso modo, per una società e un territorio che cambiano rapidamente: come sta avvenendo nei nostri paesi, nella provincia lombarda e nelle città. In riva ai laghi, oppure nelle valli varesine. Immaginiamoci un padre di famiglia che lavora e accumula risparmi per una vita intera, frutto del suo lavoro, risparmi per la propria vecchiaia per il futuro dei propri figli: ma, a un certo punto, quando questo padre ha bisogno di quei risparmi, si accorge di aver dimenticato dove li ha conservati. Questo esempio applichiamolo a un territorio che cresce, si evolve nel tempo: chi vive in questo territorio, come persone immerse nella nebbia, non si accorge nemmeno che la fisionomia dei propri paesi sta cambiando. Il nuovo dovrebbe essere sinonimo di progresso, ma a ben vedere non è esattamente così. Ci si accorge, insomma, che quel territorio non si è arricchito rispetto al passato. Perché? Perché ha smarrito e dimenticato il capitale accumulato dalle generazioni precedenti. Il capitale della memoria.
Perché rifletto su tutto questo? Per esortare scrittori e lettori a recuperare la memoria, prima che questa si spenga definitivamente: memoria di un territorio, intendo, che è qualcosa di più profondo e intimo rispetto alla storia fatta di date e avvenimenti, battaglie e politica. La memoria di un territorio ha le radici nella sua identità, che è un valore in continua evoluzione: è un capitale prezioso e non via di fuga da tutto ciò che è nuovo. L’identità di un territorio è un tesoro per tutti e di tutti, non soltanto per chi, a volte in modo becero e strumentale, sbandiera certi slogan nelle piazze della propaganda di partito. Il recupero della memoria di un territorio, ovvero, la riscoperta della propria identità, comincia dalla finestra di casa, dal modo di porci davanti a ciò che ci circonda, dal modo con cui consideriamo le persone più anziane. Ogni pietra, ogni albero, tutto ciò che ci circonda porta con sé un bagaglio di memoria del territorio: bisognerebbe, però, imparare a fermarsi e a osservare di più e meglio. Ma non ci si può dimenticare degli uomini, come invece spesso avviene: i nostri vecchi sono la nostra memoria, portano dentro di sé la testimonianza di una vita vissuta, di un mondo e di una generazione che, è la natura, prima o poi si spegnerà. La loro testimonianza è il nostro capitale più prezioso.
Dove vi voglio condurre, in questa mia riflessione che fluttua sui concetti di memoria e identità del territorio? All’ecomuseo. Cosa sarà mai, un ecomuseo? Un nuovo mostro burocratico/istituzionale? Un invenzione di qualche ambientalista? Niente di tutto questo. E cosa mai servirà l’ecomuseo a uno scrittore? A tutelare le proprie fonti, perché le fonti principali di ogni scrittore sono la memoria e il territorio. In provincia di Varese, c’è un ecomuseo che sta muovendo i primi passi: piccoli, ma per niente incerti. A dare inizio a questa iniziativa è stato Gianfranco Realini, ostinato, chiacchierone, infaticabile, entusiasta in modo quasi esagerato: entusiasta come un bambino, anche se la sua età non è esattamente quella dell’infanzia. Grazie a Dio, ci sono ancora persone così: persone che, anche a costo di passare per rompiscatole, non si fermano davanti a niente e nessuno. Burocrazia e costi non sono un problema e nemmeno l’inerzia che, ahimé, incrosta la vita dei piccoli paesi di provincia (la colpa è di tutti noi, non di un sindaco o di un partito politico). Non è un don Chisciotte, Gianfranco Realini: l’ostinazione e l’entusiasmo lo stanno portando lontano. L’Ecomuseo dei laghi varesini ha già coinvolto parecchi comuni (tra questi Angera, Besozzo, Brebbia, Cadrezzate, Cittiglio, Laveno Mombello, Leggiuno, Mercallo, Monvalle, Osmate e Sangiano). Ora l’ecomuseo è alla ricerca di volontari che si uniscano a Gianfranco Realini. Nella tana del topo, i difensori della memoria saranno sempre i benvenuti. E chi volesse dar man forte a Realini lo può contattare a questo indirizzo: gianfranco.realini@fastwebnet.it. Ah già, ma cos’è un ecomuseo? Avremo modo di parlarne spesso, in futuro, ma intanto Realini mi ha passato la definizione di Georges Henry Riviére, uno studioso francese: “È uno specchio in cui la popolazione si guarda, per riconoscersi, dove essa ricerca la spiegazione del territorio in cui vive, insieme con quella delle popolazioni che l’hanno preceduta, nella discontinuità e continuità delle generazioni. Uno specchio che questa popolazione offre ai suoi ospiti, per farsi meglio comprendere, nel rispetto del proprio lavoro, dei suoi comportamenti, della sua intimità”.
Racconti contro la povertà
«Adesso ti spiego…», sembrava dire quel faccione sul grande manifesto. Sotto, lapidaria, la frase: “Le elezioni sono il cuore della democrazia”. Sarga rilesse un paio di volte: «Il cuore della democrazia… Pensa te. La volta scorsa ci han detto che, se li avessimo votati, ci avrebbero regalato dolci e vestiti. Adesso questo tizio mi spiega che è addirittura una questione di cuore».
Si sistemò la borsa sulla spalla e spinse la bici verso la strada. In circa tre ore sarebbe arrivata a destinazione. Un viaggio assolutamente alla sua portata, nulla di cui preoccuparsi, a parte quel rumore che aveva cominciato a sentire. Beninteso: la sua bici era un concerto di cigolii, ma quello era qualcosa di nuovo, era profondo e diffuso, non si capiva bene da dove arrivasse.
Sarga vive e pedala in India: per sapere come va a finire questo racconto, frutto della fantasia e dell’esperienza di Daniele Scaglione, si può acquistare il suo libro, oppure (prima di acquistarlo) si può partecipare a uno dei due incontri che sono in programma giovedì 23, a Varese oppure a Ispra.
“La bicicletta che salverà il mondo” è il titolo di un libro che unisce la passione dell’autore (quella per la bicicletta) e la sua esperienza di vita accanto agli ultimi, ai poveri del mondo. Ne è uscita una raccolta di racconti molto piacevoli, intelligenti e scritti con passione. L’obiettivo è quello di catturare il lettore e condurlo dentro a realtà attuali, storie di povertà e di fame, attraverso i continenti.
E l’elemento costante è la bicicletta, mezzo e strumento di libertà, emblema di un mondo a misura d’uomo: la bicicletta invita a scoprire il mondo, invita a viaggiare slow, la bicicletta è tolleranza concreta, è ecologia quotidiana, è una scelta compatibile con il mondo che ha bisogno di cambiare.
Daniele Scaglione lavora per Action Aid un’associazione internazionale e indipendente che da trent’anni si batte contro la povertà e l’esclusione sociale. Ha scritto i suoi racconti con grande sensibilità: e benché il suo libro sia tutto sommato minuscolo, ha sia una prefazione (firmata da Francesco Moser) e una postfazione (scritta da Edoardo Maturo). I proventi dei diritti d’autore di questo libro vanno a sovvenzionare la campagna “Operazione fame” di ActionAid.
Mi piace la narrativa che fa del bene concretamente: un fine nobile, per il quale bisogna dare merito sia all’autore, sia ai lettori. Per incontrare e conoscere Daniele Scaglione vi aspetto a Varese, il 23 febbraio, alle ore 18 presso la sala Film Studio, in via De Cristoforis 5.
Dopo cena, alle 21, Daniele Scaglione presenterà il libro e incontrerà amici, lettori e simpatizzanti di Action Aid a Ispra (Va), sul lago Maggiore, presso la sala Serra del palazzo comunale.
Guarda il video: la bicicletta che salverà il mondo
Libri al sangue, no grazie
Non capisco il noir: a volte, addirittura, m’infastidisce. Non riesco a digerire il fatto che si possa fare della morte violenta uno strumento morboso per una narrativa fine a se stessa. La morte sanguinaria come passatempo per i lettori, in una società in crisi su tutti i fronti. La morte e il delitto scabroso come giochi enigmistici.
Avanti scrittori, spiegatemelo: se volete, fatelo qui, in questo spazio, nella tana del topo, a vostra disposizione.
Solo a Varese e provincia, gli scrittori thriller, i giallisti insanguinati spuntano come funghi, si contano a decine: senza delitti, malvagità e sangue, insomma, non si scrive più, o quasi.
Siamo una generazione di narratori decisamente poco sereni, ma davvero le fantasie letterarie non riescono a fare a meno del sangue gratuito e della paura?
Non è un fenomeno varesino, bensì globale: ovunque, insomma, l’assassinio, la strage, i delitti sono oggetti di esercizi di enigmistica o quasi, per libri intrisi di sangue. Una morte buttata lì sulle pagine, spiattellata come spettacolo macabro, ma senza suggerire riflessioni profonde. Sarà perché ormai siamo bombardati da fiction tv in cui la morte è essenziale? Ma non chiamiamolo realismo e nemmeno “specchio della società”: piuttosto, specchio della tv che, è bene ricordarlo, non è una finestra sulla realtà.
A volte penso a quell’esercito di scrittori che per anni insegue il sogno di pubblicare, che cerca l’occasione di proporsi a un pubblico vero di lettori: l’occasione della vita. E quando l’occasione, finalmente, si concretizza, magari pure pagando per pubblicare, il debutto letterario che cos’è? Quasi sempre una storia di morti ammazzati, una deformazione, una trasposizione su carta di fantasie oggi assorbite più dalla tv che da altro, più dagli effetti speciali e dalle fiction che da Edgar Allan Poe. Ma perché, mi chiedo, gettare alle ortiche la grande occasione? Spiegatemelo, scrittori!
Perché ai lettori piace, direte voi: perché il pubblico è assetato di delitti, di perversioni, di storie malate.
Ecco, cari lettori e scrittori, vorrei raccontarvi io una storia, non inventata in una notte insonne, ma vera: era il 13 agosto 1944, quando la piccola Maddalena venne portata in piazza, nel piccolo abitato di Borgo Ticino, non lontano dal Lago Maggiore. Maddalena fu portata in piazza a forza, obbligata da militari tedeschi: dovevano mostrarle una cosa, dovevano mostrarle lo spettacolo della morte. E la piccola Maddalena, assieme agli altri abitanti del paese, fu costretta a veder morire tredici uomini scelti a caso. Tredici prescelti dalla crudeltà nazista e fucilati in piazza: per cosa? Rappresaglia. E Maddalena vide tutto: la disperazione degli uomini davanti alla morte, la freddezza dei giustizieri, i fucili, il sangue uscire da volti sfigurati. E vide anche i corpi sbalzare da terra, quando i soldati li colpirono una seconda volta, per il colpo di grazia. E vide altro sangue. Poco prima ebbe la forza di dire: “Guarda, uccidono lo zio” e si beccò un ceffone. Era stata la nonna a rifilarglielo, forse per distrarre la bambina e farla pensare ad altro che non fosse quell’orrenda mattanza, nella quale quella nonna stava perdendo un figlio.
Ora Maddalena è una nonna, ma da quel giorno dorme sempre con la luce accesa, e prende gocce di tranquillante, per provare ad addormentarsi senza quell’incubo che, da allora, l’accompagna.
Oggi, dopo 68 anni, quella strage, una delle tante stragi di guerra di casa nostra (solo nei dintorni del lago Maggiore ce ne furno almeno altre tre, da quella di Meina, a quella di Castelletto, a quella di Fondotoce), quella strage avrà il suo processo: a Verona, infatti, il tribunale militare ha rinviato a giudizio l’unico superstite tra gli assassini, il tedesco Ernst Wadenpfuhl, che oggi ha 97 anni.
Ecco, cari scrittori, vi ho raccontato questa storia (riportata molto bene anche dal quotidiano La Stampa, nell’edizione del 15 febbraio) per invitarvi a uno sforzo: la morte non inventiamola per sfogare pruriti morbosi, con la superficialità di un telefilm. C’è chi la morte violenta l’ha vista davvero e se la porta dentro da tutta la vita: torniamo ad ascoltare i nostri vecchi, quelli che hanno vissuto certe tragedie. Facciamo presto, prima che le loro memorie spariscano, facciamo tesoro delle loro testimonianze, fidiamoci di loro: e da loro impareremo a dare il giusto peso a ogni cosa. E, magari, a versare meno sangue nelle pagine di narrativa. Chissà, forse eviteremo certe cretinate.