Storie da treno: la leggenda di un venditore di polipropilene

Polipropilene, l’invenzione del secolo, quella che gli porta il pane. E quel senso di potere su bambini, burattinai e giocattolai: un potere da riempirsi le tasche di caramelle. Come una sorta di cleptomania da dolci. L’ultima volta aveva ceduto proprio nell’ufficio del giocattolaio, il suo miglior cliente: un attimo di distrazione generale e zac, si era già riempito mani e tasche di gommose alla frutta, tanto gli sembravano lì per lui. E per chi sennò?
Rughe seminascoste da una barba spelacchiata, come il più randagio tra i gatti, a colorare di grigio un volto che, per ogni istante in cui gli balena un pensiero folle, si colora a festa, seguito da una risata secca tipica del venditore che ha fumato parecchio. Vendere polipropilene è come vendere la rivoluzione del Novecento: “Ci fai tutto: a cominciare da palette e secchielli, formine e racchettoni, e tanto altro, tutto quanto fa giocare i bambini d’estate” e ghigna da solo, sulla carrozza di un treno che lo porta, appunto, dal cliente prediletto: l’ultimo giocattolaio, l’ultimo donatore di sogni in un’Italia che ha smesso di giocare con la fantasia più innocua.
Tra i pendolari, sghignazza e pensa a un’offerta da mettere sul tavolo: si beccherà del pirla, pirla a ripetizione, lo farà sbraitare il giocattolaio, ma alla fine il prezzo lo decide lui. O così, o la Cina: il suo polipropilene muove un’economia, ma non la strozza. Non fa comodo a nessuno, a cominciare dalla sue tasche piene di caramelle.
Sacchi, bancali di polipropilene: lui ridacchia e l’altro, il giocattolaio, mugugna e già pensa a una nuova invenzione, a qualcosa da provare sul mercato. Un mercato che dipende dai sorrisi dei più piccoli, dalle loro manine protese verso oggetti colorati, dai loro occhietti illuminati a tal punto da far cedere mamma e papà. Egli, il venditore spelacchiato, si nutre della debolezza dell’ultimo giocattolaio, di quella tenerezza che, già sa, gli farà guadagnare a monte. E lascia sfogare il suo cliente, si prende del pirla e, una volta fuori dall’ufficio festeggia, con le caramelle che strabordano dai pantaloni e una stravaganza improvvisata: una bella verticale, fatta lì sulla strada, appoggiato alla saracinesca di un negozio. Come il più folle tra i giullari: a 65 anni, gli riesce ancora bene e se ne vanta spesso, anche coi clienti che gli danno del pirla. Ma che gliene importa, ha già il contratto firmato e il biglietto di ritorno, su quel treno in cui ridono in pochi. Chissà perché si ride così poco sui treni, pensa ogni volta. Dal giocattolaio, invece, si ride eccome, anche se amaramente, mentre fa la verticale e scatena litanie di “se l’è, matt?” dalle labbra di pettegole di paese nascoste dietro le persiane.
Il contratto è firmato, il giocattolaio è ai suoi piedi, anche se gli ha dato trenta volte del pirla. Sul treno, ora, eccolo là, è risalito al suo posto, ma dentro a un vagone che non ride: e, allora, gracchiando come una cornacchia, con la rapidità di un felino, balza a testa in giù in grande equilibrio, nel corridoio della carrozza, sul treno lanciato a gran velocità. Occhi sgranati, applausi e sorrisi. Compresi quelli della procace signora, scollacciata e accaldata, seduta lì accanto: era triste e annoiata, dentro alla sua abbondanza, ora ride, sì ride proprio come sperava lui… il venditore della rivoluzione.
«Dovrebbe passare col piattino, ora, a raccogliere monete» si allarga la signora.
«No, mi basta molto meno. Lei avrebbe qualche caramella?» domanda lui, con lo sguardo che indugia non alle sue grazie, bensì alla sua borsetta.
«Certo, gommose alla frutta, ma è roba che piace ai bambini»
«Non si preoccupi, sono perfette. Sentivo che c’era del feeling, tra me e lei». Complicità di sguardi, pensieri impuri che durano un istante, ma già pregusta il vizio che, questione di un minuto, andrà a consumare.

La Trieste di Comparin: un invito alla lettura

A proposito di città e narrativa, eccovi un altro spunto. Una tana letteraria non vive di sola fantasia, ma anche di riflessioni condivise. Eccomi reduce dal Giro d’Italia… tranquilli, non in veste di corridore, bensì d’inviato. Una splendida traversata di un Paese meraviglioso e fragile. Il Giro d’Italia del giornalista di oggi è un interminabile viaggio in automobile, tra partenze e arrivi, tappa dopo tappa: attraverso la penisola, c’è molto tempo per pensare e riflettere. E torna in mente, dopo il post dedicato ad Antibes, il rapporto tra scrittura e i luoghi, in particolar modo le città: Milano, vista da Nebbia e dal pendolare, in Dove finisce Milano, è una città quasi “odiata”, una caricatura. Poi ci sono le città amate e vi suggerisco di visitare Trieste attraverso Massimiliano Comparin, uno scrittore varesino molto bravo, che ha pubblicato un romando dal titolo I cento veli (Baldini&Castoldi).
Non vi voglio fare una recensione, ma chiedo a chi l’ha letto di lasciarci un commento, di condividere una riflessione. Chi non l’ha letto, lo invito a farlo e magari essere poi attivo in questo dibattito. Mi limito a due brevissime citazioni:
«Se tu e questa città vi amerete, molto dipenderà da come è stato il vostro primo approccio.»
«È che c’è qualcosa di magico, qui. Non trovi? A trieste si possono fare degli incontri capaci di segnare una vita intera…»

Se il salone del libro “vince”

Da pochi giorni si è chiuso il salone del libro di Torino, un evento che incassa l’ennesimo grande successo di pubblico. Con rammarico, non ho potuto visitarlo, quest’anno: mi sono limitato a immaginarmelo, grazie a chi me l’ha raccontato. Quando la cultura vince, quando 318.000 persone scelgono di dedicare un giorno ai libri e agli scrittori, mi sento un po’ meno pessimista sul futuro di questo Paese: menti positive ce ne sono tante, ne continuo a incontrare. Il pensiero illuminato, insomma, non soccombe sotto la valanga di grigiume che la nostra società produce.

Il salone del libro di Torino è, per certi versi, un baluardo della resistenza odierna: resistenza che non si fa più in montagna e contro dittatori in carne e ossa. I dittatori però esistono e sono quei meccanismi che impediscono alla gente di pensare, di elaborare un proprio disegno culturale. I simboli di questa dittatura sono la televisione e tutto quanto ci sta dentro: ovvero uno strumento che consente d’imporre un pensiero su tutti gli altri.

Proprio per questo, c’è un aspetto del salone del libro (ma non solo di quello) che non mi piace: è l’atteggiamento da star che, quasi sempre, contagia gli scrittori che vi partecipano. Il modello televisivo impera. Lo show man vince. Tempi duri per gli scrittori che scelgono la discrezione, l’introspezione, l’incontro con i lettori solo attraverso la riflessione contenuta in un libro. Oggi, la gerarchia degli scrittori viene dettata dalla tv. Uno scrittore che non vada in tv (meglio se da Fabio Fazio) che non sappia intrattenere un pubblico in un talk show è perdente.

La dittatura del non pensiero, imposta tramite la tv, annebbia ancora una volta le menti, Fortunatamente, però, ci sono i libri, tanti libri. Al salone del libro, parlano i numeri, i veri protagonisti sono stati i libri, più degli scrittori. Una varietà straordinaria di storie, opinioni e idee, tutte impilate lì tra i padiglioni e prese d’assalto dai visitatori, dalla fame di cultura autentica della gente. Per questo, mi sento meno pessimista sul futuro di questo Paese.

Ricomincio da Antibes

Pablo Picasso, la joie de vivre

Riprendo il blog, dopo la preannunciata pausa, e riparto da un luogo che reputo tra i più “letterari” tra quelli che ho visitato negli ultimi anni. Antibes, la città vecchia, quasi un cammeo incastonato in una costa che, secondo me, sembra vivere in una realtà parallela, forse virtuale: tra la superficialità e la vanità sbandierate di presunti ricchi. Montecarlo, Nizza, Cannes, Juan les Pins, ovvero la Costa Azzurra cretina che vive di ostentazione di superfluo. Decisamente ridicola, se immaginata in qualsiasi fantasia, assolutamente fuori dalla realtà in questo momento non facile per l’economia europea. E poi c’è Antibes, la città vecchia, poche strade tortuose che circondano due torri e ciò che resta delle antiche mura, proprio sul mare. Un promontorio che si affaccia sul porto, pieno zeppo di yacht da ultramiliardari: eppure dentro quelle strade è diverso. Al di là della routine acchiappaturisti, ho trovato spunti ancora in grado di lasciare un’impronta. Scorci, colori e volti in grado d’ispirare.

Ho visitato il museo Picasso, qui nella città del suo atelier dell’ultimo periodo (prima di ritirarsi nell’entroterra di Mougins): ma non l’ho voluto vedere col piglio di chissà quale intellettuale, l’ho visto con mia figlia. Cinque anni e un punto di vista spesso illuminante, più di quello dei critici d’arte, che sinceramente non m’interessa. Resto fermamente convinto che la pittura, come tutte le arti, siano fonti d’ispirazione e d’insegnamento preziosissime per qualsiasi scrittore. Tutta l’arte, certo, ma vista non tanto con l’occhio dell’esperto, bensì con un approccio più “ingenuo” che colga l’essenziale, ovvero l’emozione genuina che riesce a trasmettere un’opera. Picasso, l’ammetto, non l’ho mai amato, ma qualcosa mi ha sempre affascinato del suo genio che lo ho portato a scomporre la realtà e a rappresentarla in modo spesso sconvolgente: del resto, penso (da ingenuo) che Picasso stesso non ambisse certo a trasmettere le stesse emozioni che evoca la luce di un Caravaggio. Penso che volesse ben altro: io, ingenuo in visita al museo di Antibes e che si confronta con una bimba di 5 anni, ho incontrato un Picasso che non mi è piaciuto, non mi ha estasiato, ma mi ha interrogato.

E della “sua” Antibes, Picasso ha fissato soprattutto il colore: quel colore che, in fondo, ho colto nelle stradine della “vieille ville”. Tanti locali e negozi acchiappa turisti, sì, ma anche volti, odori, suoni e colori che s’imprimono in uno sguardo attento e sensibile. Le donne sono una presenza costante e decisamente sensuale, nella città vecchia: il fascino femminile di questo angolo del sud della Provenza non sembra poi tanto diverso da quello che affascinò Picasso stesso, oltre a scrittori come Graham Green. Il mio è uno sguardo che indugia, ma con approccio del tutto platonico, esplora e studia, da marito sereno piuttosto che da scrittore in cerca di avventure. Tuttavia, è sufficiente per cogliere spunti importanti: per esempio Brigitte, che tra i vicoli di Antibes, ha deciso di aprire tutta sola un café e ristorante su misura. La sua, di misura, quella di una donna. Quattro tavoli, forse cinque, poltrone e arredamento femminile per un’impronta decisamente insolita: e tutto è cucinato come a casa, nei tempi e nei modi. Sperimentando profumi floreali e accostamenti decisamente insoliti per noi italiani. A prezzi in controtendenza, qui, ovvero alla portata di tutti. Brigitte, bella signora di mezza età, sensuale, ma non secondo i canoni sfacciati tanto in voga grazie ai modelli televisivi, sarebbe piaciuta moltissimo a Graham Green. Chissà, magari, al suo café ci avrebbe ambientato un racconto, un eterno confronto tra la femminilità francese e il fascino old style americano (che oggi soccombe di fronte al grezzo turista yankee, tutto fast food e infradito).

E da Brigitte, capita spesso d’incontrare Marie: donna apparentemente sola, ma lei dice di essere stata sposata, dallo sguardo tenero che fa colpo anche sui bambini. Vive ad Antibes da decenni e ama cantare il gospel. E al tavolo del café di Brigitte è quasi presenza fissa. Forse malinconica, sicuramente affascinante (ma non maliziosa): tanto che ha ispirato pittori, anzi soprattutto una pittrice che l’ha ritratta su una tela esposta proprio lì, nel locale di Brigitte. Sarebbe piaciuta a Picasso, Marie, ma siccome lo detesto (ma mi affascina), tanto meglio che non si siano mai incontrati: non riesco a immaginarmi quella bellezza scomposta e fatta a pezzi dall’estro del grande artista.

Antibes, una città che trovo letteraria: poche immagini appena evocate sembrano già l’inizio di un romanzo. E secondo voi, quali sono le città oggi più “letterarie”?

Musica e cartoni

Non è farina del mio sacco, ma nella rete circola questo simpatico cartoon milanese. Carino e perfettamente in tema con alcuni post di questo blog. Ve lo propongo, nel frattempo mi libero dagli impegni (parecchi) di questo periodo e ritorno a postare riflessioni “inedite”. Cliccate il link qua sotto e buon divertimento.

Milanes

Nella tana del topo: una prima serata di prova

Dal blog alla realtà, in una serata per guardarsi in faccia, per scambiare di persona battute, letture, pensieri e persino canzoni. Le “serate del topo” sono un’idea ancora in cantiere, in fase di sviluppo: un “evento di prova” è stato organizzato a Varese, al caffé La Cupola. Per vedere l’effetto che fa… e direi, bene! Si può fare: parlare di libri, confrontarsi su narrativa, poesia, cultura, vita quotidiana. Confrontarsi alla pari, tra amici, scrittori e lettori, confidenze culturali schiette e gratuite: le serate del topo possono diventare un modo nuovo per far convivere una tana virtuale con persone in carne e ossa. Voi che ne dite? Intanto grazie a chi mi ha dato una mano, a Varese: grazie in particolare a Giancarlo Buzzi, Giorgio Brovelli, Massimo Armiraglio, Francesco Baranzini, Guido Rubino, Alessandro Campi, Massimiliano Condello e a mia moglie Alessandra. Oltre, naturalmente, a tutti voi che siete intervenuti e che, in futuro, vorrete partecipare… 

La tana del topo al caffé la Cupola, una prima serata “test”

 

Cronache milanesi: seiequaranta

Binario due, seiequaranta: prendi un foglio bianco e mettici sopra decine di penne a sfera che scarabocchiano i propri itinerari e convergono tutte nel medesimo punto. Al binario due: col vento in faccia alzato da un treno che fuori puzza di gomma bruciata e dentro ti strangola con uno stagnante odore stantìo di cane bagnato.

Scene quotidiane di una stazione di provincia, per la trama di un capitolo che ognuno ha ancora da scrivere. Troppo impastati di sonno, i pendolari del seiequaranta non hanno tutto chiaro in mente già dal primo minuto, lì sulla banchina: la loro trama emerge stazione dopo stazione. E in fondo al viaggio, ecco Milano: un mito se sei adolescente, un frullatore se sei un lavoratore. A Milan gh’è al pan, ma è un pane che ha un prezzo…Un pan che al g’ha sett crust: e intanto sulle carrozze del seiequaranta Milàn si porta via i sogni di tutti, il resto è mancia.

Agnese ha una laurea in economia da far fruttare: Milano vive di pil, Agnese l’han fatta studiare nel nome del pil e per farsi una posizione. La sera, a letto, sogna di sposarsi e di avere figli, ma la mattina c’è il pil che si ruba tutta la scena: centodieci e lode alla Bocconi, la sua famiglia ha speso una fortuna per quel pezzo di carta. Dai da mangiare all’economia e lei nutrirà anche te… ma a quale prezzo? Intanto è già in prima fila, Agnese, davanti alle porte del treno: perché non c’è tempo. Per cosa? C’è da fare in fretta: perché? A Milano c’è il pil che comanda, si va di fretta e basta.

Said, invece, non sa cos’è il pil e non capirebbe perché gli economisti di gran moda vanno al governo convincendo il mondo che se dai da mangiare in continuazione a una capra, questa crescerà all’infinito. Non ha capre e nemmeno di che nutrirsi tutti i giorni, Said, ma forse oggi mangerà: perché va a fare il magùtt di nascosto, giù al cantiere accanto alla stazione. E un kebab, male che vada, lo mette sotto i denti comunque, con un paio di sacchi di cemento scaricati in nero: ma se va bene, anche qualcosa in più lo porta a casa, pure un’aranciata salta fuori. Il biglietto lui lo paga, non è mica un accattone, ci tiene a non sembrarlo: e comincia la giornata con sotto una nuvola di deodorante acquistato in un discount. Aroma mughetto, per un magutt magrebino, è un segno di distinzione. Inesorabilmente, anch’egli andrà ad alimentare la grande puzza, la somma di milioni di odori che produce una metropoli.

L’ingegner Tibiletti, seduto al suo fianco, punta tutto sul dopobarba al profumo di ginepro, roba che arriva dalla Svizzera: «Sa, perché io ho lavorato una vita, mica per andare al discount. La roba buona la compro ancora». Spera di andare in pensione, ma non gliela daranno per un bel po’… Non ci vuole pensare, lui finge di sentirsi inossidabile, ma non ne può più di far  ‘sta vita. Fa il pendolare da più di trent’anni, da quando i treni avevano gli scompartimenti e poteva capitare di trovarsi solo, a tu per tu con la donna dei sogni. Una donna di cui ci s’innamorava per tre fermate e poi ci si lasciava senza platonici rancori. Oggi,  per stare al passo con i tempi, l’ingegnere unge a colpi di ditate lo schermo di un’i-pad: «Perché l’informazione, ormai, l’è cambiada. Ormai la carta non si usa più, il futuro è questo qui»… e fissa lo sguardo su quello schermo.

Non son più i tempi dei quotidiani, l’edicolante  giù in stazione lo manda a quel paese sottovoce, ogni volta che lo vede passare e si ricorda di quando, ogni mattina, l’ingegnere si portava in treno una mazzetta di giornali alta così: e oggi, in nome della nuova informazione tecnologica, tutto finito. «Vadavialcù, ingegnere», e non dimentica di quando al mercoledì, dentro al Corriere gli metteva anche il porno, altro genere finito fuori moda nelle stazioni. Oggi tette e culi, l’ingegnere li clicca, non li sfoglia più. Ma non gli fanno più l’effetto di allora: sarà l’età, ma anche rincoglionirsi davanti a un’i-pad contribuisce alla sua impotenza. Un’università del Minnesota, presto, studierà anche questo.

Sparisce la carta, sparisce ogni dialogo in carrozza: seduti nei vagoni, i pendolari dell’ultima generazione sembrano automi radiocomandati, tutti con fili e auricolari, con la testa già bombardata da un regista occulto, che non ama chi se ne sta in silenzio a pensare… Potrebbe accadere che, nel silenzio, a qualcuno venga voglia di tornare a sfogliare quel Pratolini che odorava di muffa, ma che tra le pagine ti portava dentro tutto il treno: tutto il treno sembrava trasformato in via del Corno, nella Firenze anni Venti… Sparisce la carta, spariscon le carte, quelle delle partite a briscola che infiammavano le mattinate di viaggio, spariscono i termos pieni di caffè e le schiscette, simbolo dell’amore coniugale di provincia, quando ancora non si sapeva cosa fosse il brunch.

Lunga vita ai sacerdoti della tecnologia: “Stay hungry, stay foolish”, solo che a Milano non si sogna più ciò che si vuole, ma ciò che è imposto dal destino. Sei dentro a un frullatore: non sei più tu a decidere in quale senso far girare il mondo. Resti a tu per tu col destino, che quando apre una porta, ne chiude un’altra. Dati certi passi avanti, non è possibile tornare indietro. Filosofia non quotata in borsa, ma anche tutta roba che non capirà mai l’ultima generazione del libro elettronico, quella che trionfa con la logica del pil … vallo a spiegare a Kevin, primo anno di giurisprudenza, cosa vuol dire sfogliare Dickens, aprirlo e chiuderlo quando cacchio ti pare, tra i sobborghi di Busto Arsizio e le prime case di Legnano: immaginarsi Londra, oltre il finestrino, è un atto di libertà. Vallo a spiegare a Kevin, lì seduto che mastica un chewing gum gusto fragola, sotto una cresta scolpita da un chilo di gel. Kevin mastica e ha già in mente dove vuole arrivare, alle seiequaranta del mattino. Su Facebook lo ha già scritto: “ciao raga, oggi mi faccio il piercing, stasera ve lo taggo”.

Kevin, primo anno di giurisprudenza, alla scoperta della legge, quella che col tempo gli ammoscerà la cresta e gli farà risparmiare sul gel: e pure il piercing, prima o poi, lo getterà in una latrina. Una Milano che sforna migliaia di avvocati, non può che affogare nelle carte bollate senza senso: Kevin sogna gli ultimi assoli di chitarra, ma presto a suon di diciotto su trenta, si ritroverà a tu per tu con quel seiequaranta, sempre lo stesso, a fissare il finestrino senza guardare oltre. Incazzato col mondo. Andata e ritorno, si va e si torna, senza piercing, ma in giacca e cravatta. “Porca troia se fossi il figlio di un segretario di partito! Porca troia, sarei consigliere regionale e mi farei una donna al giorno”. Altro che codice civile, fanculo pure agli assoli di chitarra, da qualche parte si dovrà pur uscire da ‘sta vita in gregge.

La mandria sale e scende, la governa il capotreno Caruso, partito da Aci Trezza, finito a Domodossola, in una casa popolare che è più grigia del suo treno: partenza all’alba, ritorno che è già notte. Una giornata a litigare con carrozze fatiscenti, porte incastrate, impianti di riscaldamento costantemente guasti, finestrini rotti e sedili lerci. Il seiequaranta non è un treno per signori, il capotreno Caruso sa già che si prenderà insulti gratuiti dai soliti imbestialiti, gente ammassata nei vagoni sempre troppo pieni. Ma giù all’ultima carrozza sa che troverà la Tilde, di professione receptionist, con l’hobby di fare innamorare uomini sempre troppo soli, catturati tra un’andata e un ritorno. Tutti a indugiare dentro a quella scollatura infinita, che sembra una finestra sul paradiso.

Caruso, capotreno innamorato, pregusta ogni giorno quel suo viaggio dalla prima all’ultima carrozza, fin dentro la scollatura: e dove lo sguardo non arriva, prosegue con l’immaginazione, così che anche Vanzago Pogliano, da quel punto di vista, gli sembra bella più di Taormina.

L’unico a non distrarsi è Treves l’intellettuale: nemico del sapone e del sistema. Frustrato che sognava di diventare il più grande giornalista di Milano, l’uomo nuovo del reportage, la voce della verità, il cane da guardia del potere, finito a correggere bozze per i raccomandati che affollano le redazioni di quei giornali che nessuno legge più. Treves sul seiequaranta è sempre fisso accanto alla Tilde, il suo odore muschiato si confonde col parfume francais della signora. Treves la marca stretta, non per corteggiarla, bensì per sfuggire al controllo biglietti di un  Caruso preso da ben altre prospettive. Treves, l’intellettuale che sognava il premio Pulitzer, viaggia a scrocco per risparmiare: sia lodato il seno della Tilde, ma nel frattempo progetta il romanzo che gli cambierà la vita. Immagina un capitolo per ogni fermata, ma poi Milano gli offuscherà ogni idea, come un cancellino passato sulla lavagna: l’indomani, tuttavia, quella lavagna sarà pronta per una nuova storia tutta da scrivere. In fondo, è così che nascono i libri da treno.

Una proposta: le serate del topo

Dal blog a un bicchiere di vino in compagnia, per parlare di libri, di storie vere o inventate, di grandi scrittori o ciarlatani di provincia. La tana letteraria, da luogo virtuale, diventa spazio reale: giovedì 12 aprile, al caffè La Cupola di Varese, vi aspetto per una serata col topo… Per iniziare vi parlo del mio libro: è un modo facile facile per esordire con un’idea che vorrebbe diventare molto di più. Disegnare assieme un percorso narrativo: un itinerario per pensare, per arricchirci di emozioni e riflessioni che vengono dai libri.

Dai incontriamoci domani sera, da qualche parte si deve pur cominciare.

 

Anna ed io: Gesù e il drago

Cinque anni non sono affatto pochi per discutere della vita e della morte, nella tana del topo. Anna ed io ne parliamo come due filosofi nella nostra agorà, la cameretta con la sola lampada accesa, poco prima della buonanotte. È quasi Pasqua e spiegatelo voi a una bambina il grande mistero che sta dietro a questa festa cristiana: vincere la morte, il senso della religione.

«Papà, non mi parlare di come l’hanno ucciso, Gesù. All’asilo me l’hanno detto, ma non mi va di ripeterlo, poi magari faccio brutti sogni»

«Sì ma poi è risorto»

«Ah, ecco, la resuscitazione, questa non l’ho capita, ma è un po’ come una magìa»

«Resurrezione»

«Resuscitazione suona meglio, sembra di una cosa che vola»

«In cielo?»

«Sì, come è capitato a nonna, anche lei è andata in cielo, con la resuscitazione»

«Non proprio, nonna è in cielo con l’anima, Gesù è risorto tutto quanto, ha vinto la morte, anche se è complicato da spiegartelo»

«Tutto quanto è andato in cielo, ma non solo come polvere. A proposito, il nonno di Martina neanche con la polvere è andato su»

«Come mai?»

«Ti dico un segreto: quando sono andata a casa di Martina, in salotto aveva un baulino»

«Un baulino?»

«Sì, come un piccolo vaso con il coperchio che si apre, ma resta attaccato, insomma non cade. E in questo baulino, ha detto Martina, sai chi c’è?»

«Chi c’è?»

«Suo nonno. Sai papà, suo nonno può stare lì dentro, anche appoggiato alla libreria quando si guarda la televisione. Ma io non capivo una cosa: come faceva un nonno intero a star dentro una scatola così piccola?»

«E Martina ti ha risposto?»

«Sì, me l’ha detto in un orecchio. Avvicinati che te lo dico anche io nell’orecchio»

«Ecco»

«Incenerito. Trasformato in cenere. E secondo me, incenerito da un drago»

«E i draghi esistono?»

«Non mi viene in mente nessun altro capace di fare una magia come quella. Incenerito fine fine. Martina ha anche aperto il baulino, ma io non ho voluto avvicinarmi a nonno»

«E perché? Avevi paura?»

«No, sono stata alla larga perché secondo me puzzava di morto»

«Ah ecco, ma sai com’è la puzza di morto?»

«No, ma se non è andato in cielo, prima o poi puzza. Nonna, invece, è andata in cielo, vero? Peccato perché quando è morta io volevo vederla, ti ricordi? Avevo fatto anche un disegno con un vestito azzurro per lei, ma voi non me l’avete fatta vedere perché era andata in cielo»

«Sì ma solo con l’anima. Il corpo, quello che puzza quando deperisce, è al cimitero. E poi diventa anche quello polvere»

«Uff, che confusione, non si capisce niente. Ma allora, è vero, solo Gesù è resuscitato? E se ha fatto finta di morire? Sì dai, ha fatto un po’ finta»

«No, è morto davvero, poi è tornato in vita, quando era già stato messo nella sua tomba. C’è scritto in un libro che si chiama Vangelo»

«Allora Gesù è un po’ magico, come il drago»

«Sì, più o meno, solo che Gesù non incenerisce nessuno»

«Ma potrebbe fare una magia per i bimbi poveri, se glielo chiediamo magari la fa»

«Già, magari la fa»

Buon compleanno Emile

Riprendo ad aggiornare il blog, con il ricordo di un grande maestro nato 172 anni fa. Se avete un vostro contributo in memoria di Emile Zola, aggiungetelo nel commenti:

“Lungo il viale deserto, nel profondo silenzio della notte, i carri degli ortolani, diretti verso Parigi, percuotevano con l’eco dei loro monotoni scossoni, a destra e a sinistra, le facciate della case immerse nel sonno dietro i filari confusi degli olmi. Un carro di cavoli e un altro di piselli si erano riuniti sul ponte di Neully ad otto carri di rape e di carote calati da Nanterre; ed i cavalli procedevano a testa bassa, con andatura pigra e uguale rallentata dalla fatica della salita. Su in alto, sdraiati bocconi, sul carico dei legumi, sonnecchiavano i carrettieri coi loro mantelli a righe nere e grigie, le redini arrotolate al polsi”.

(da “Il ventre di Parigi” di Emile Zola)