Quando il calcio è da romanzo

«Damiano Tommasi, l’attuale presidente dell’Associazione Italiana Calciatori, è stato il primo italiano a giocare nel campionato professionistico cinese. Lo dice anche Wikipedia. Ma non è vero. Ad anticiparlo, di qualche anno tra l’altro, è stato Arnold Schwellensattl da Merano. Uno che nel gigantesco Paese asiatico ha rischiato la vita, due volte. Prima quando è finito in ospedale per una ginocchiata al fegato, poi quando i dirigenti del suo club, il Chongqing Lifan, gli hanno comunicato che non gli avrebbero più garantito l’incolumità. Volevano ingaggiare un altro straniero al suo posto. Un serbo, non Tommasi….».

Mauro Corno parla sempre volentieri dell’altro calcio, anche se è un gigante che non stonerebbe in un quintetto base di una squadra di basket: fisico da cestista per uno tra i più sensibili giornalisti di calcio italiani. No, lasciate pardere le mille tribune sportive delle tv locali e nazionali: questo cronista brianzolo non è il tipo che troverete ogni sera a sbraitare in diretta tv a proposito di calciomercato e gossip.

Mauro Corno si è invece ritagliato una spazio tutto suo, è tra gli ultimi “romantici” di uno sport che vive sempre più di vanità e aria fritta. Ha scritto un libro con dentro decine di storie di un altro calcio: e ogni storia potrebbe essere una valida trama per un romanzo. Emigranti del pallone, sconosciuti o quasi, avventurieri che sembrano di un altro pianeta, se paragonati alle primedonne del campionato italiano.

Ora vi sorprendo: come è bello il calcio quando ritorna povero ed essenziale! Ecco accontentato, dunque, chi mi credeva allergico al pallone.  Quando lo sport s’intreccia con le storie di vita, anche i calciatori possono evocare poesia.

Qual è il vostro campione da romanzo?

Ah, mi raccomando, vi consiglio il libro di Mauro:  

Mauro Corno

Ai confini dell’impero. Storie di emigrazione del calcio italiano

Sedizioni, 126 pagine, 11 euro

Bibliospionaggio a Milano: la passione di Anna

La Milano che legge offre spunti infiniti. Sugli autobus, nelle carrozze dei treni, in tram, sulle panchine dei parchi, sulle banchine del metrò. Anna Albano, nella vita, legge e scrive e, soprattutto, lavora per chi legge e per chi scrive. E quando può, osserva i milanesi nascosti dietro ai libri, li spia e riflette: una specie di voyeur letterario che, attraverso un blog molto interessante, inquadra la cultura dal basso, nel cuore pulsante di Milano. Dentro il più autentico e credibile salotto letterario di una città.

Qual è il lettore e qual è la lettura che hai scovato negli ultimi tempi e che ti hanno maggiormente colpito? Perché?
«Mi capita sempre più spesso di incontrare persone che leggono sul Kindle o su altri e-reader, la qual cosa mette in profonda crisi la mia attività di bibliospionaggio sui mezzi pubblici milanesi. Perché è decisamente difficile riuscire a capire cosa stiano leggendo, in mancanza di una copertina di carta, e ancora più difficile scattare una foto con il cellulare collocandosi alle spalle di chi legge, nel tentativo di cogliere almeno una schermata. Certo, potrei chiedere a qualcuno cosa stia leggendo, ma sarebbe un’altra storia. Una delle ultime persone che mi hanno interessata è una signora che leggeva “Tra moglie e marito – Quaranta brevi storie di vita familiare”, di Stefano Guarinelli, un prete-psicologo che fa il consulente familiare. Era come se nel libro cercasse una risposta, il che ci conferma che al libro vengono attribuiti i poteri e le facoltà più diversi – intrattenere, istruire, guidare –, e che sempre vale la pena di indagare i motivi per cui la gente legge. E che i lettori comuni sono interessantissimi per la varietà delle loro ragioni. Sì, suona banale, ma così è».

Nella Milano “ai tempi della crisi” cosa si legge sui tram e nei metrò? Noir o romanticismo? Più Littizzetto o Parodi? In quale genere si rifugiano, oggi, i milanesi che viaggiano?
«Sui tram milanesi, come presumo nel resto d’Italia e del mondo, c’è stato un lungo tempo dei vampiri. Quelle storie di creature assetate di sangue erano nelle mani di tutti, anche di insospettabili signore di mezza età che un tempo avrebbero letto la posta di Susanna Agnelli su “Oggi”. Il noir va sempre fortissimo ed è un genere trasversale, nel senso che lo vedi nelle mani di persone diversissime. Vanno anche i romanzi d’amore filippini, credo, almeno a giudicare dalle copertine dallo stile un po’ cheap, addirittura proto-Harmony, che vedo nelle mani di sagge casalinghe asiatiche. Vedo poca Littizzetto e moltissima Parodi, e la cosa mi rallegra. Perché Littizzetto produce sempre secondo i medesimi schemi, perché la satira ideologizzante nasce e muore con una battuta alla televisione, perché basta con le provocazioni fasulle. Parodi, invece (della quale sono una fan perché mi insegna cose che sinora erano per me sconosciute, e la mia giovane figlia ringrazia), è utile, rilassante, rassicurante. Ed è consonante con il viaggio in metropolitana o in tram, con esso ti culla, ti astrae, ti induce a immaginare che la tua fermata non arriverà mai più, perché con quel libro si sta al caldo e si sta bene lì».

Anna arricchisce ogni giorno il suo blog con riflessioni e spunti interessanti, curiosi e, a volte, poetici. Ve lo consiglio: http://cosedalibri.blogspot.com/search/label/lettori

Anna è la benvenuta nella tana del topo. E, come fanno gli ospiti in visita, non si è presentata a mani vuote e ha portato un dono. Un brano inedito, per sorridere in rima.

Ode al lettore itinerante milanese
Lettore che ti aggiri per Milano,
un libro eternamente nella mano,
dai mezzi sali e scendi imperturbato,
cuore leggero e spirto deliziato.
Ti rechi in ogni dove, qui e poi là;
misuri col tuo libro la città.
Per continuare a leggere un romanzo
talvolta tu rinunci pure al pranzo;
ti vedo in primavera, dentro al parco
tra i jogger ti ritagli sempre un varco.
Tu punti alla panchina, benedetto;
la ripulisci con un fazzoletto
e poi ti siedi, apri il libro e lo degusti
se sei lettor tra quelli più robusti.
Sarà per la gran messe di editori:
Milano è piena zeppa di lettori.
Però tra parchi e bar, che cosa strana,
la scelta va alla metropolitana
e al tram, trenino avito d’atmosfera
dove tu leggeresti mane e sera,
o lettore.
Viandanti temporanei
dai gusti variegati
ricercano in un rosa l’evasione,
tremano con le storie di vampiri
o leggono serissimi elzeviri.

Se Dickens rinascesse a Varese

Uno stenografo, dopo lunga gavetta, si ritrovò scrittore. “Se diventerò l’eroe della mia vita, o se questa condizione spetterà a qualcun altro, lo diranno queste pagine”.

Duecento anni fa, nasceva Charles Dickens, scrittore amato da molti e, forse, detestato da molti di più.

Io sono tra coloro che lo amano: chissà, forse perché tutto cominciò da uno Scrooge con le sembianze di zio Paperone, da un canto di Natale letto da bambino sulle pagine di Topolino. Dickens ha questa particolarità: di ricordare l’infanzia a molti. Eppure scrisse in un’epoca ormai lontana, raccontò storie tipicamente inglesi… Non so come ci sia riuscito, ma mi ha conquistato: con i suoi personaggi e le sue descrizioni minuziose, con la sua capacità di prendere per mano il lettore e portarlo con sé, dentro a un sobborgo di Londra.

“Quando Dickens descrive una cosa una volta, la si vede per tutta la vita”: questo lo disse un altro grande autore, George Orwell che, pure, non fu mai molto tenero nei suoi giudizi su di lui. Amo Dickens soprattutto perché sapeva parlare ai “semplici”, perché sapeva essere universale, perché è stato capace di trasmettere a tutti la sua letteratura. Lo amo soprattutto perché pubblicava a puntate sui giornali e perché i cattedratici lo stroncavano.

C’è chi confina Dickens dentro la sua epoca, dentro quell’atmosfera londinese di metà Ottocento. Eppure io lo trovo ancora molto attuale: lo vorrei vedere all’opera in questo tempo difficile e decadente, m’immagino come descriverebbe un treno carico di pendolari, per esempio. Vorrei vederlo all’opera nel descrivere la periferia di Milano, o magari una pasticceria di Varese piena zeppa di signore impellicciate, tutte infervorate per i saldi, mentre fuori c’è un popolo che sta perdendo il lavoro.

Se Dickens vivesse oggi, tra Varese e Milano, cosa scriverebbe? Chissà, magari ci scriverà il romanzo di un sindaco leghista invaghitosi per una povera rumena, o chissà, magari proverà a raccontare di un imprenditore che, per non vendere la propria barca ormeggiata a Portofino, si trova costretto a licenziare alcuni dipendenti, a caso… E secondo voi?

La Rica e la sua Angera

Tumtutum, tumtutum. E si è fermato. Erano le 18 di una settimana fa, quando il cuore della Rica ha smesso di battere, chissà, forse dando retta a un cervello che, spegnendosi giorno dopo giorno, gli chiedeva di fermarsi. Aveva sempre avuto una paura terribile della morte, ma negli ultimi tempi non sembrava più così. Erano le 18 di un venerdì umido di fine gennaio e il tramonto aveva appena spento l’ultima fiamma arancione, dietro il Sancarlone: i tramonti di gennaio, sul lago, hanno tinte così forti che le colline del Vergante sembrano davvero investite da un incendio indomabile e quel rosso si riflette nel lago che, quasi sempre, in questa stagione, è uno specchio immobile con dentro un battello che tira l’unica riga sull’acqua.

Tumtutum: dentro la via di mezzo soffiava un silenzio gelido. La Rica apparteneva a un’altra Angera: quella delle cento botteghe, quella del Siro che appendeva i quarti di bue sulla porte della macelleria, quella del lattaio cieco, quella del Lipin e i suoi salami appena fatti, perché gennaio era il mese del purscel, quella di Piola lattoniere e della sua bottega di tutto un po’, quella della Egle e della sua cartoleria profumata, quella del Dorando e le sue arance di prima scelta, quella del Faccin riparatutto, dentro la sua bottega di elettrodomestici, la più polverosa del mondo, quella della Bianca e i suoi sali e tabacchi, comprese le cicche alla fragola a dieci lire l’una, quella del Graziano, o del Mobiglia, ovvero i “figaro angeresi”, quella della Gianina giurnalata, nell’edicola più piccola del mondo, quella dell’Antonio ferramenta e le sue mille viti tranne quella, porca miseria, che serviva a me, quella del Gemelìn che faceva le scarpe a tutti.

L’altra Angera, quella della Rica, aveva il cuore in un’osteria, fumo, briscola e scopa d’assi e quel vino che faceva cantare il paese dei vecchi e dei sognatori, dei barcaioli e pescatori dalle mani cotte dal lago e dal freddo, degli operai della magnesia e dei loro polmoni scossi da potenti colpi di tosse, che li sentivi già in fondo alla via. “Non ti potrò scordare, piemontesina bella” e la spuma nera annacquava la bonarda alla bisogna, per quelli che l’alcol lo reggevano meno o temevano le parolacce delle mogli non appena si fossero accorte della sbornia, dagli aliti pestiferi e da quel russare inconfondibile, che faceva tremare le pareti.

Via alla Rocca e la sua osteria, tinte forti e caricature, mille personaggi come in un quadro di Bruegel: dentro quella strada di Angera, oggi deserta, non si respira più l’odore del fieno delle stalle, i cortili sembrano svuotati. C’erano contadini e furfanti, squattrinati e cantastorie, artisti incompresi e amanti traditi, puttane e donne sante, chierichetti e malandrini, furbacchioni e fessacchiotti, generazione di affamati che, con il suo brulicare, vociare e  cantar stonato, dava ritmo a quel tumtutum, la vita di ogni giorno.  E la Rica a mescere il vino fino a sera, a rimestar la buséca o a friggere alborelle, a far di conto e a tenere testa a un popolo di bevitori, con piglio severo e austero.

Il lavoro e la terra ripagano sempre, ma non come pensano oggi le generazioni del “tutto e subito”. Le regole supreme le detta il cielo, il ritmo lo scandisce il senso della misura di ogni uomo, ovvero la sua scala di valori. La Rica aveva mani callose e mai ferme, anche quando  avrebbe potuto riposarsi e già la sua Angera si stava spegnendo: com’era bella sotto quel cappellone di paglia, dentro al suo orto all’Altinada, fuori dal paese. Con gli occhi più accesi del sole, raccoglieva i tumàtiss più belli e rossi del paese. Dentro quel caldo immobile, dominato solo dal ronzare delle api, il pulsare quasi impercettibile della natura le regalava la felicità. Tumtutum, quanta vita c’era dentro quell’orto,  mentre le case di Angera, anno dopo anno, si mangiavano campi e vigne, fino a circondarlo: ma l’anima del paese, fatta da uomini e donne, e non da cemento e lottizzazioni, si era già estinta.

La Rica, anche lei se n’è andata, dentro a un tramonto di gennaio. Rica, diminutivo di Enrica: non era il suo vero nome, ma non ho mai saputo perché tutti la chiamassero così.

Lo sport moderno può ispirare letteratura?

Em Bycicleta: tra calcio e ciclismo, con tutto il resto dello sport nel mezzo. Si tratta di un presidio di fabulazione sportiva nato in un’osteria di Lodi, nel dicembre del 2003. È un nome collettivo che raccoglie “sognatori e balenghi” uniti in un’idea di sport diversa da quella proposta dallo show-business. Sport come metafora di vita, fonte di “favole”, nutrimento dei brevi sogni dei poveri che siamo stati, ora che il rischio è di diventare miserabili di mente e di cuore.

Si presentano più o meno così, i ragazzi di “Quasi rete”, il blog letterario della Gazzetta: già, perché a guardare lo sport di oggi, c’è ancora qualche sognatore che si sforza di vedere poesia. Li ringrazio per questo, perché mi ricordano che, in fondo, nel fare il cronista si hanno privilegi che molti romanzieri non avranno mai. Per vedere la poesia, la letteratura nello sport, bisogna soltanto avere molta pazienza, “disobbedire” almeno per un po’ ai capi delle redazioni e tornare un po’ bambini, o un po’ scrittori: trovare spunti letterari nello sport moderno non è difficile, basterebbe meno presunzione.

Gli eroi tragici del ciclismo, per esempio, potrebbero sembrare a molti soltanto miti di un passato in bianco e nero, gente che non appartiene a questo mondo: eppure non è così, occorre, tuttavia, avere l’umiltà di fermarsi e osservare, non avere fretta di dire, di sapere, ma rimanere a guardare in silenzio, rimanere ad ascoltare e a osservare ogni dettaglio, ogni sfumatura. E così, anche il rockettaro Tyler Farrar (nella foto), sprinter americano, che sgomita a settanta all’ora in sella a una bici da sei chili è profondamente letterario. Farrar, emblema del ciclismo moderno, con la cresta sotto il casco e il chewing gum, l’i-phone sempre in mano e i Green day che gli martellano i timpani dalle cuffie che ha nelle orecchie: che ci potresti scrivere con uno così? Eppure lo vorresti in un romanzo, Farrar, quello che non sei mai stato capace di scrivere: perché l’hai visto piangere in silenzio, ancora la scorsa settimana, otto mesi dopo la tragedia, quando l’amico, Wouter Weylandt, ciclista belga, si schiantò sull’asfalto giù da un valico appenninico ligure. Al Giro d’Italia. E lui, Farrar, era là, poco più avanti, che pedalava in apparente incoscienza, mentre l’amico moriva in diretta tv. Ora quel Farrar dice: «Se vuoi fare il ciclista, devi sforzarti di non pensare, perché per tornare a fare una volata a settanta all’ora non devi avere paura, non puoi pensare». Dice così, il ciclista, ma mente e sa di mentire: perché la bici, il ciclismo, ti costringe a pensare. Non è la formula uno. E tu che stai lì accanto, lo vedi pedalare e sudare, vincere e perdere, devi soltanto fermarti e riflettere: e dentro al dramma di un Tyler Farrar finisci per vedere un eroe da tragedia greca, o un’invenzione di Shakespeare.

Tuttavia, non è tutto dramma, c’è anche tanta comicità. Leggetevi questo spassosissimo racconto su Juventus-Udinese e scoprirete quanta letteratura potrebbe fiorire in uno stadio moderno:

http://quasirete.gazzetta.it/2012/01/30/il-posticipo-_-juventus-udinese-sodomie-11-contro-11/

C’è un campione dello sport attuale che vedreste come eroe/protagonista di un romanzo? Oppure esiste una disciplina sportiva che considerate ancora oggi poetica e letteraria? Dai, dopo avervi fatto arrabbiare per Camilleri (che continuo a non sopportare), queste sono domande in segno di pace…

 

Incipit “favolosi”? Ma mi faccia il piacere…

Eccomi, riapro la stanza, dopo opportuna disinfestazione da virus influenzali:  così non si potrà dire che, a parlar di cultura in questo mondo, viene la febbre. La Milano dei pendolari, stamattina, è imbiancata da neve sporca e già sembra diversa dalla solita grigia metropoli: sarà che la Finanza, cattivona, arrivando a far controlli in corso Como, disturbando la “movida”, avrà costretto i poeti della notte a disfarsi di tutta la polvere bianca dei quartieri “bene”?

Sì, permettetemi di fare l’antipatico e non è l’effetto dell’antibiotico, ma voglia di scarabocchiare le pareti di un mondo finto e ipocrita, prefabbricato ad arte, perfetto per il consumo di un popolo bue e non pensante. Arrivo buon ultimo, tranquilli, Gaber l’aveva già detto, ma anche Bianciardi, ma anche Brancher, ma anche Gadda… Vabbè, chissà se prima o poi tornerà a piacermi Milano?

Intanto apro pagine di attualità per respirare un po’ di cultura e, ohibò, sull’inserto domenicale (La lettura) del Corriere, m’imbatto in una “dorricata” che mi fa sussultare e tornare ancor più “acido”. Perdonatemi, se a qualcuno non farà piacere, ma una recensione di Antonio D’Orrico mi costringe a ribadire, forte e chiaro: non sopporto Camilleri.

Non la sua opera, sia chiaro, ma l’icona che, dopo anni di lifting televisivo, diventa immagine di culto per compiacere se stessi, lo scrittore siciliano, i grandi editori, il grande pubblico. Insomma, utilizzando un vecchio trucco del grande schermo, per strappare un applauso.

Le anime di De Sanctis e Croce non s’arrabbieranno se quell’ Antonio D’Orrico, critico e recensore, proprio non lo digerisco: e costui  mi ha fatto esplodere dal petto un “Camilleri, basta!”, per via di una genuflessione davvero inopportuna. La “dorricata” va a recensire il best seller delle classifiche italiane del momento, l’ennesima pubblicazione del papà di Montalbano che, questa volta (con mio piacere), si misura col racconto breve (Il diavolo certamente, ovvero una raccolta di 33 brani di cinque pagine ciascuna). Nulla da eccepire, se non cominciasse a spargere incenso e commozione di fronte agli incipit “meravigliosi” del Camilleri. E ne cita parecchi, tuttavia io mi limito a uno (preso a caso): “Corrado Tozzi, quarantenne, scapolo, atletico, decisamente un bell’uomo, sempre elegante, mai un capello fuori posto, capo della squadra omicidi, è considerato forse il migliore investigatore cha abbia la polizia”…..Ok, e allora? Ah beh, sì beh, dai dai cunta sü.  

I gusti, per carità, sono elementi soggettivi, basta che poi non si pretenda di fare catechismo ruttando in chiesa: come fa D’Orrico, quando per compiacere chissà chi, accosta Camilleri a una schiera di “santi” come Moravia e Parise, spingendosi fino a Roland Barthes (che fa figo, poiché il popolo bue in questo caso spalanca la bocca e dice “cavolo”, tanto non sa chi è), per poi accostare il tutto agli ultrà dell’Inter, a Mancini e Mourinho. Un tuffo carpiato di Tania Cagnotto sarebbe stato meno da brividi. Ma non sarebbe bastato un semplice e modesto “leggetelo e divertitevi”?

Permettetemi di ricordarvi le giuste proporzioni tra favoloso e normale, pur senza andar sul continente, ma rimanendo sull’isola di Camilleri. Questo sarebbe un INCIPIT con cui commuoversi: “Era alta, magra; aveva soltanto un seno fermo e vigoroso da bruna e pure non era più giovane; era pallida come se avesse sempre addosso la malaria, e su quel pallore due occhi grandi così, e delle labbra fresche e rosse, che vi mangiavano”. (“La lupa” di Giovanni Verga)

Spulciando tra novelle e racconti, quali sono, per voi, gli incipit capolavoro?

In ricordo di Franco Della Peruta

Dieci giorni fa, se n’è andato un vecchio professore. Ha chiuso gli occhi, chissà, pensando a un mondo che ha sempre studiato, immaginato, ricostruito, amato, insegnato, ma che non ha mai visto di persona: mi piace immaginarmelo così, nel suo ultimo pensiero, con la mente rivolta a una Lombardia lontana, dentro a una sommossa popolare, o dietro alle barricate delle Cinque giornata. O chissà, a parlare d’Italia a Giandomenico Romagnosi e a Carlo Cattaneo. Prima di andarsene da questo mondo, il professore ha insegnato a Milano la storia del risorgimento italiano, ha spiegato a generazioni di ragazzi come un sentimento regionale si è trasformato in un sentimento nazionale. Ha scritto, documentato, trasmesso: passioni, saperi, fatti. E nel suo seminare, anche nella mia zucca semivuota, qualcosa è germogliato. Un piccolo ricordo, il mio, a dieci giorni dalla scomparsa di Franco Della Peruta, ringraziandolo per la pazienza e la dedizione sincera all’insegnamento della storia, quella storia che ogni cialtrone vorrebbe piegare e rimodellare a suo vantaggio, ma che, se l’hai studiata con i giusti maestri, allora è un valore da difendere. L’insegnamento del professore, in questa stanza polverosa, non ha prodotto un cattedratico e nemmeno il miglior studente di storia del risorgimento: tuttavia, qualcosa ha dato frutto. E al professore, per esempio, devo la conoscenza di un personaggio a me caro, Cesare Cantù, a cui la cultura lombarda deve molto. Il concetto di letteratura popolare, di riscoperta delle tradizioni, di salvaguardia della storia piccola, quella della propria terra, del proprio villaggio sono valori oggi molto importanti. Fondamentale anche per chi è alla ricerca di fonti d’ispirazione narrativa: per una narrativa lombarda, ma non padana. Ho voluto ricordare Franco Della Peruta, ho voluto parlarvi di Cesare Cantù e, riferito a quest’ultimo, vi presento un personaggio davvero curioso: Carlambrogio di Montevecchia. Cercatelo se vi va, si nasconde nelle biblioteche lombarde, e vi garantisco che sarà una piacevole scoperta. Costui, interpellato dai contadini lombardi, diceva questo: “Se la discordia entra nell’alveare, il miele toccherà ai calabroni: così, se un popolo non è unito, fa la zuppa a’ suoi nemici. Diffidate sempre miei buoni compatrioti, di quelli che cercano di suscitare tra voi odi di partito. Costoro vogliono pescar nel torbido: sperano nel disordine beccar qualcosa, senza curarsi del male che può venire al paese. Vi contano belle parole, promettono mari e monti; ma credete a me, e’ guardano solo al proprio interesse e del vostri si fanno gioco”. Vi consiglio di andare a scovarlo nelle biblioteche, tra le pagine antiche, che odorano di storia. Se, invece, siete più tecnologici e gli aspetti “romantici” della lettura v’interessano meno, lo trovate anche su Google books, gratuitamente: http://books.google.it/books/about/Il_Carlambrogio_di_Montevecchia.html?id=H6kpAAAAYAAJ&redir_esc=y

 

In giacca e cravatta a chieder l’elemosina

Le quattro mura della tana, stasera, non riescono a distogliermi dal senso di pesantezza che mi lascia la città, il viaggio quotidiano dalla provincia alla città. Ho sul tavolo “l’uomo che ride” di Hugo, l’ho iniziato da poco, ma non riesco ancora ad aprirlo, stasera. Io topo di campagna e scrittore di provincia non riesco a vivere la città come una cosa normale, non riesco a farmela scivolare via dalla pelle. Provincia e città, l’odore del lago e quello della metropoli, così diversi.
Stasera in cima alle scale di stazione Centrale, c’era un uomo in giacca e cravatta seduto su una panchina che mi guardava: io, diretto al binario, sono stato colto di sorpresa, quando questo mi ha fatto segno di fermarmi un secondo da lui. «Mi dai qualcosa, qualche spicciolo? Sono sulla strada, cazzo, sono finito sulla strada» mi ha detto.
Io nella fretta ho dato una risposta idiota, la più idiota: «Non ho moneta, ma se vuoi ti posso cedere il mio giornaliero per il metrò». Quello mi ha guardato, come per dirmi “ma che cavolo ci faccio io, col biglietto del metrò”, ma da signore distinto l’ha accettato. Avrei potuto dirgli: «Hai fame, posso offriti un panino?», ma avevo troppa fretta. Ero dentro il vortice del frullatore, il frullatore quotidiano che ti fa correre senza pensare. Ma a quell’uomo ci ho ripensato più volte, fino a ora. “… per intendere la città, per cogliere al di sotto della sua tesa tetraggine il vecchio cuore di cui molti favoleggiano – adesso lo capivo – fare la vita grigia dei suoi grigi abitatori, essere come loro, soffrire come loro”. Di questi tempi cito spesso Bianciardi, Luciano Bianciardi: questa sua considerazione è tratta da La vita agra, un capolavoro senza il quale, forse, il mio Nebbia sarebbe molto più banale, il mio ragionier Ponchio, licenziato e cornuto, non sarebbe mai passato nei miei racconti. Ma si capisce, anche, perché leggendo certi sacerdoti, le grandi firme della cultura e della letteratura che oggi imperversano sul Corsera o su altri grandi quotidiani, ho la sensazione che, quando parlano di romanzi e culture, questi vivano in un altro mondo, troppo lontano da quello che vedo io: ma non so più quale sia quello sbagliato o quello giusto, quello vero o quello finto. Eppure, la Milano dell’ex impiegato in giacca e cravatta che chiede la carità in Centrale, non mi sembra per niente diversa dalla città che vedeva Bianciardi cinquant’anni fa. E voi, scrittori e lettori di provincia, che Milano vedete? Tutte le crisi si assomigliano e forse è per questo che, tra tutti gli autori che conosco (sono pochini, lo ammetto), quelli che più mi sembrano attuali sono i classici. Se penso a certi passaggi di Charles Dickens… E secondo voi, cari amici, qual è il grande scrittore più attuale, pensando al nostro tempo?

Benvenuti nella tana del topo!

“Il topo chiude il blog?” Niente affatto, cari, ma i treni e le periferie di Milano non mi bastano più. Ora voglio dialogare con voi e per farlo vi porto nella mia tana: tana polverosa, nascosta tra i muri di una casa virtuale, che si apre sul mondo grazie alla parola scritta, narrata, romanzata. Vi porto dentro la mia tana a scrivere, a leggere, a raccontare, a pensare, ad ascoltare, a riflettere e a osservare il mondo là fuori. Emozioniamoci per la poesia dell’ultimo tra gli analfabeti e, magari, ridacchiamo senza timore per la boiata scritta da un premio Strega.
Prego signori! Entrate nella tana del topo, quel topo di campagna che viaggia, avanti e indré su un treno sgangherato e poi, la sera, si rifugia qui, dentro la narrativa, la letteratura, la poesia. In sintesi: si rifugia nella parola scritta che sa trasmettere emozioni, una parola scritta per arricchire chi legge.
Potere alla parola, signori, quella fissata sulla carta o sul foglio virtuale di un pc, quella che rimane lì e invita il lettore a viaggiare o a pensare. Perché, in fondo, l’arte e la letteratura vere non hanno la presunzione di certi cialtroni vanitosi: trasmettono emozioni gratuite, che restano, e che a loro modo arricchiscono la mente di tutti noi.
Chi ha il diritto di sentirsi scrittore, oggi? Chi lo può stabilire? Non certo prelati e guru autoreferenziati. Non certo le classifiche di vendita fasulle e pilotate. Verga, Manzoni, Montale e tutta la schiera dei grandi (quelli veri) non hanno critici a cui essere grati, ma solo lettori, milioni di lettori. La loro parola scritta, la loro arte li precede. La cosa più odiosa che puoi fare per farti cacciare dalla mia tana è salire su un pulpito e metterti a giudicare chi è un talento e chi no in base a un presunto pedigree. Non sopporto i sommelier della cultura: quelli che, al primo sorso, stringono la bocca “a culo di gallina” e giudicano. Preferisco gli onesti bevitori, che si lasciano inebriare dalle emozioni. Nella mia tana, il vino lo si distingue soltanto in due categorie: quello onesto e sincero e quello prodotto in malafede e traditore. Il vino d’Angera non può somigliare al chianti, se è così, significa che è disonesto: meglio un vino che racchiuda il sapore della propria terra, con il suo carattere unico che proviene dalle sue radici, che piaccia oppure no. Ma onesto. Lo stesso vale per l’arte e, in particolare, per la letteratura e la narrativa: nella mia tana non esistono scrittori abusivi, ma onesti e disonesti. E siccome qui dentro non ci sono pulpiti o piedistalli, io scrittore sono sullo stesso piano del lettore.
Nell’era in cui cadono tutte le barriere precostituite, sociali o culturali, soprattutto grazie a internet, grazie al senso di libertà sconfinata che deriva dal web, il minimo che si può pretendere è che scrittori e lettori si guardino negli occhi, sullo stesso piano, alla pari. I primi hanno il diritto di esprimersi e pubblicare con un solo dovere, il rispetto dei lettori. I secondi hanno invece il diritto di leggere, ma anche di non leggere, con un solo dovere: valutare la parola e non chi scrive. E, a ben vedere, un bel bagno di umiltà mischierebbe le carte e sarebbe meglio per tutti: tra lettori e scrittori, oggi, non può più esserci alcuna barriera. Io che mi sento scrittore, che propongo parole ed emozioni a un pubblico di lettori, devo essere il primo a dare l’esempio, ed essere anche un onesto lettore, predisposto al confronto, all’ascolto. Lo scrittore vero non è quello consacrato da chissà quale critica o dal sacro fuoco della letteratura, ma è colui che scrive con un solo obiettivo: essere letto. Vale per tutti, sia per i privilegiati o meritevoli che pubblicano per grandi editori, sia per quelli che si rivolgono agli editori abusivi (che pubblicano a pagamento), sia per quelli che rimangono solo nello spazio virtuale di un blog. E per chi pretende un pubblico di lettori, il primo atto di modestia e correttezza, oggi, è di essere lettore egli stesso. Per primo.
Nell’era di internet, viviamo in uno stato di bulimia da scrittura e, al tempo stesso, di anoressia da lettura. E questo non è che lo specchio di una società abituata a parlare sempre e non più ad ascoltare, ad esprimersi e non a lasciare esprimere. Nella mia tana proveremo a ristabilire un equilibrio.
Con la voglia di lasciarci attraversare dalla parola che scolpisce, che dipinge, che fotografa, che sintetizza e che plasma il mondo là fuori. Una parola onesta.

L’apparenza non inganna, convince

Milano col sole, anche a Natale, eppure non mi entusiasma. Il cielo longobardo, così bello quando è bello, non mi piace perché è pur sempre offuscato dalle flatulenze della metropoli. Rubo l’idea a un grande scrittore che si chiama Bianciardi, ma io topo di campagna sono e sorcio resto, anche a fine anno, abituato a sgraffignare croste, in mezzo a tutta questa gente imbellettata, che scondinzola da un negozio all’altro. Anche la stazione è diventata un centro commerciale: e pare che oggi non si riesca a partire senza prima comprarsi un paio di mutande o un reggiseno, a giudicare dalla gran quantità di negozi di lingerie, in Centrale. Io, sorcio di campagna, le mutande me le compro al mercato, anzi me le faccio comprare, perché quando c’è mercato, su al paese, io sono in città a lavorare: sono fuori moda, ma pazienza, alla stazione vado a prendere il treno e basta.
A fine anno, è tempo di esercizi di memoria e pensieri: ma devono essere per forza politically correct, altrimenti il mondo non ti prende nemmeno in considerazione. A meno che non sei talmente bravo a sparar cazzate, da risultare molto originale e, quindi, di tendenza. Mentre si celebrano i funerali di Giorgio Bocca, la città si esibisce in tutto questo: Bocca, chi era costui? Un italiano. E come tutti gli italiani veri ha vissuto a cavallo di contraddizioni e contrasti, a volte sbagliando, altre volte facendo discutere. E questo è il pane dei tanti crapapelada che, sui seggioloni in pelle di una redazione, trovano spunto parlar di sé, al cospetto del morto. Un po’ come fanno i corvi con le carcasse…
Ma topo, come sei duro, oggi… direte voi. È il pensiero ai crapapelada che più mi manda in bestia: quelli che parlano di crisi con la tredicesima da cinquemila euro e fanno i giornali a colpi di comunicati stampa. Quelli che non è mai colpa loro, sono incapaci, ma ben referenziati. Ma come fa un sorcio, ultimo nella scala gerarchica del pollaio, a diventare un rivoluzionario? L’apparenza è tutto? A volte, penso di sì: ieri per esempio, sui sedili del mio solito scompartimento eravamo in tre, ognuno a pochi centimetri dall’altro. C’ero io, sfatto e pulcioso, e di fronte a me c’era un tenebroso trentenne con la faccia da fotomodello: la mia era barba sfatta, la sua di tendenza, la mia cresta era da stravolto, la sua era di moda. Giacca firmata, i-pad, i-phone e un gran portamento per tenere in mano tutti quei gioielli tecnologici e, al tempo stesso, guardare l’orizzonte (in fondo al treno o chissà) dall’alto di una cassa toracica da palestrato. E accanto, il terzo viaggiatore era una bionda signorina, che sembrava uscita da un sogno: l’occhio azzurro, il corpo da favola, la rendevano la studentessa perfetta per qualsiasi poeta. A un certo punto, alle porte della stazione di Gallarate, si diffonde un odore inequivocabile, pungente, intenso, imbarazzante. Da dietro le mie letture, alzo lo sguardo e fisso lui: tanto lo so che sei stato tu a scorreggiare, ho una gran voglia di dirgli. Mentre lui, fiero del suo apparire, resta impassibile, nel suo ruolo di cavaliere senza macchia. E, al tempo stesso, penso: ecco, la bionda signorina si sarà fatta l’idea più facile, al sorcio avrà attribuito le colpe della perfida loffa, non certo al manager trendy. Insomma, la mia platonica storia d’amore era già finita lì, al gioco di sguardi: per colpa delle apparenze.
Poi, però, scendendo dal treno, dopo aver cercato invano d’incrociare per l’ultima volta lo sguardo della signorina, mi è sopraggiunto un dubbio. E se fosse stata lei? Compra la lingerie in stazione, mia bella, ma se lasci il pancino troppo al vento… zac. Insospettabile, a detta delle apparenze: ma le apparenze sono tutto, in questo mondo e, alla fine, mi rassegno ad abbandonare la carrozza con appiccicato addosso il titolo di scorreggione.
Ecco, forse la rivoluzione di un topo di campagna deve cominciare da lì: dallo smascherare le apparenze, quelle apparenze che sembrano contare più della sostanza dei fatti. Anche tra un viaggio in seconda classe e una corsa su una scala mobile guasta, c’è molta apparenza: poi, però, a fine giornata, ci si ritrova nella tana, con la voglia di ripensare a tutto quanto, con la voglia di guardare oltre. Forse questo blog è troppo stretto, è ora di fare un passo avanti.