Giornalismo nel cestino, i volti del volontariato

Un altro spazio senza foto, volutamente. Ma questa volta senza volti e senza nomi. Chiamiamolo “chiacchere invisibili”. Sono quelle raccolte in questi giorni tra i volontari che stanno facendo questo grande lavoro di “inserimento” nel territorio, come lo chiama don Giuseppe. Non un aiuto, sottolinea lui, ma una immedesimazione con la popolazione, perché cresca da sola, accompagnata, ma forte. Sono volontari che non vogliono apparire, non rilasciano dichiarazioni ufficiali al giornalista che si è intromesso a far vedere il loro lavoro. Chi lo ha fatto si è sentito costretto e comunque ha accettato malvolentieri, più per amicizia che per altro.

Sono queste le persone che applicano in silenzio l’insegnamento di don Giuseppe e don Mauro. «Io non voglio farmi pubblicità,  non sono qui per questo». È la frase più comune che emerge quando chiedo di poter scrivere alcuni argomenti di cui si è parlato.

«Tu devi svestirti degli abiti del giornalista – mi dice don Giuseppe -, ascoltare, entrare in armonia nell’ambiente dove sei, renderti presente ma invisibile. E poi raccontare». Le regole del giornalismo impongono però, nomi, fatti, volti, tutto alla luce del sole. Quasi sempre, con qualche eccezione per alcuni casi di cronaca. Ma non è il nostro caso. Quindi, al diavolo queste regole, almeno per oggi.

«Sono orgoglioso che mio figlio mi abbia detto che vuole venire anche lui ad Haiti – spiega uno dei volontari, che non è la prima volta che viene sull’isola -. Se non fossi sereno a casa non potrei essere qui. Quello che porto indietro poi lo condivido ed è un tesoro anche per loro». «Io non ho figli – aggiunge un altro volontario, più giovane -. Ma mi dà fastidio che poi i miei clienti possano venire a dirmi che sono stato qui per farmi pubblicità. Molte persone non capiscono e vogliono sempre pensare male. Per me non è così e non voglio dovermi giustificare. Io sono qui per crescere con queste persone».

E ancora: «Mi trovo in una situazione difficile che non mi aspettavo – racconta una volontaria a Mare Rouge per la prima volta -. Non ci sono nemmeno gli strumenti base per fare quello che faccio io. È come se tu non potessi scrivere l’articolo perché rimani senza penna e senza computer. A cosa serve? Come faccio a raccontarlo?»
«Facciamo quello che facciamo in silenzio, ormai da anni. Non siamo abituati a dire e spiegare troppo – aggiunge un altro volontario che da molti anni fa avanti e indietro -. È vero che può essere utile farlo sapere, ma non è facile. Per noi è più semplice mettere a disposizione il nostro tempo e le nostre capacità, perché spiegarlo?”

I volti del volontariato sono tanti. Queste persone stanno crescendo insieme a quelle dove si sono “inserite” in maniera invisibile. Ma stanno cambiando anche loro. Qualcuna ha mostrato il suo volto. Qualcuna si metterà forse ancora più in gioco. Qualcun altro non si mostrerà mai.
Mentre preparavo questo articolo sono uscito a intervistare il direttore della scuola statale di Mare Rouge, una scuola che si sta rifacendo ex novo, in autonomia, senza aiuti di volontari. Candidamente ha dato una risposta involontaria all’effetto dell’”inserimento” invisibile: “Se vengono da fuori per contribuire a risollevarci, perché non possiamo anche farlo da soli?