“Raccontami una storia”. Anna in pigiama sotto le lenzuola, suo papà pendolare lì accanto, con gli occhi a mezz’asta, per il rito della buonanotte. Tutte le sere va più o meno così, ma le favole di questi tempi funzionano fino a un certo punto.
Anna, quattro anni “quasi cinque” s’interroga sul mondo e sulla vita, ha voglia di capire, di discutere. “Raccontami la tua giornata”. Cosa mai ci troverà d’interessante, nella vita di un papà pendolare? “Salgo dal treno, scendo dal treno, corro in ufficio, accendo il computer…”. Chissà forse questa vita è meglio di una ninna nanna, una tiritera monotona che aiuta il sonno dei bambini… E, invece, Anna stasera ha gli occhi vispi di chi non ha ancora voglia di dormire, c’è ancora qualcosa da scoprire: “Sai cosa mi piacerebbe fare, un giorno?”
“Dimmi”
“Andare dove tramonta il sole: è lontano da dove lavori tu?”
“Il sole tramonta a ponente, io lavoro verso Milano, a levante”
“E dove si trova questo ponente? Ci si potrebbe andare in macchina, perché se è lontano poi il viaggio è lungo. Se in quel paese non ci sono pizzerie, ci portiamo le pizzette da casa”
“Ponente è una direzione, non un paese. Di là dietro le montagne, dietro la rocca”
“Già, ma deve essere un posto bellissimo dove tramonta il sole. Per la verità, a me piacerebbe più andare dove nasce, ma mi sveglio sempre troppo tardi. La sera, invece, riesco a stare sveglia, vedi? Allora possiamo andare dove tramonta”.
“Se vuoi un mattino ti sveglio e ti faccio vedere dove nasce il sole”
“Dove?”
“A levante”
“Ah già, dove lavori tu. Sei proprio fortunato tu. La Pimpa è riuscita ad andare dove sorge il sole: ti ricordi la storia che mi hai letto l’altro giorno? Sei proprio fortunato tu che riesci a svegliarti prestissimo”
Io e la Pimpa, due privilegiati, insomma.
L’indomani la sveglia suona come sempre ben prima che sorga il sole, ma ai pendolari del 6,43 il mese di settembre regala il grande spettacolo dell’alba. Non ci avevo fatto caso prima: troppo impastato di sonno per apprezzare, sempre troppo di corsa con la mente al parcheggio della stazione, allo sprint verso il binario 2.
“Stamane, però, mi sento fortunato“, penso tra me. E sollevo lo sguardo verso l’orizzonte, mentre alzo contemporaneamente il piede dall’acceleratore della mia utilitaria. Sua maestà il sole sta incendiando il cielo e disegna figure fantastiche con le nubi colorate di viola: lassù sembra quasi di vedere un cagnolino a pois volare a levante… Bisogna che lo dica a mia figlia, anzi, ce la devo portare. Se non ci fossero ristoranti, le pizzette le prenderemo ancora calde, giù in panetteria.
Archivi categoria: Senza categoria
Parole da treno: quattro matrimoni e un funerale
Il controesodo è compiuto: totale, anche quest’anno. Tutti sono rientrati in carrozza, lo spazio vitale sui treni dei pendolari è tornato quello di sempre, minimo. Io sono “delocalizzato” a Pero, ormai da due anni: oggi la mia Milano è intuita e immaginata, dalle parole, dagli odori, dalla facce di quelli che ritrovo in treno. Topo di campagna scende prima e le sue cronache milanesi sono proiezioni di una realtà che s’intravvede all’orizzonte, dove la skyline del Portello cresce di giorno in giorno.
Giù in centro, all’ombra del Duomo, regalano abbracci, mentre a piazza Affari offrono ceffoni. Un cardinale fa le valigie, un altro sta per arrivare.
Crisi nera, lavoro a rischio, tasse da pagare, Tremonti e Berlusconi che prelevano altri soldi ai soliti italiani: ma i sopravvissuti da Milano, i compagni di viaggio che potrebbero riportare testimonianze di guerra o di gloria dalla città, di che parlano?
Di matrimoni. Di questi tempi, l’argomento clou più ricorrente nella conversazioni da treno è un invito a nozze: di una cugina, di una nipote, di un’amica, di un collega. Settembre andiamo, è tempo di sposarsi, si potrebbe dire.
Sprofondata sul sedile, in fondo a destra, una neolaureata parla al telefonino di una festa imminente: da secchiona sciatta e timida si trasformerà in avvenente pescatrice di uomini. Perché a ogni matrimonio che si rispetti c’è sempre chi gioca le proprie carte nella seduzione d’ignari ex compagni di scuola dello sposo. L’elemento determinante, a quanto pare, non è la laurea, benedetto foglio di carta, bensì la scollatura che la ragazza descrive nel dettaglio all’amica in ascolto dall’altra parte del telefono. La strategia è fondamentale e va preparata in anticipo.
Poco più dietro, invece, si scatena il dibattito tra un ragioniere senza sex appeal ma con tanta bella pancetta e un’un impiegata con girovita e petto larghi due fermate di tram: parlano di antipasti, di tortini al formaggio e salmone in crosta, quelli divorati pochi giorni prima alle nozze di una cugina. M’immagino la loro storia d’amore: un ragioniere e un’impiegata uniti in un’unica palla di lardo, mentre si riempiono la bocca a vicenda a colpi di tagliatelle al ragù.
Non c’è privacy sul vagone affollato e nemmeno la si pretende: e così, accanto ai ciccioni, si rivelano segreti di un’altra corsa all’altare di settembre, si gettano nel vento le storie di due sconosciuti innamorati incappati in una notte di troppa passione e in un preservativo bucato. Tra risatine e battute di finto gossip, mezza carrozza sembra inebriata da quel fatto che non li riguarda, che non riguarda nessuno di loro. O forse sì.
“Una mia amica che non trova marito, ha invece scoperto l’amicizia di un fisioterapista”, rivela sottovoce un’altra pendolare alla compagna di viaggio. “E come è andata a finire?”
“Che il massaggio dura un quarto d’ora in più, senza preliminari, ma con una piccola aggiunta sulla tariffa oraria”. Il matrimonio che non c’è e la sua consolazione misera: più che un pettegolezzo, sembra una morbosa confessione, ma tutto il resto si confonde nel brusìo generale della carrozza.
E lì accanto, c’è anche un bancario che parla di un suicidio, un colpo di pistola alla tempia, esploso alla fine delle vacanze. Settembre è il mese dei matrimoni, agosto quello dei suicidi. Un collega se n’è andato con un gesto estremo, senza un perché. A quanto pare.
I treni tornano a riempirsi di odori, di corpi stanchi e di storie: nel lento procedere delle solite giornate, Milano sembra più o meno quella che m’immaginavo. E si parla di vita e di morte.
Lo strano caso… basilico e lavanda
L’estate, per molti è un trimestre sul calendario, per tutti è uno stato mentale, una miscela di sensazioni che danno vita a un affresco interiore, a uno stato d’animo preciso: a me è successo stasera, di ritorno dalla grande puzza di Pero, investito sulla porta dal profumo di basilico misto a lavanda. Giorno di raccolto, nell’orto di casa, con mia moglie impegnata a lavare verdura fresca e aromi: basilico e lavanda, ecco l’estate. Quella che mi rimane nelle narici e nella testa per mesi: e concilia l’ottimismo.
Altro che serial killer e altre porcherie da pessimo scrittore noir, vorresti essere poeta, solo quello, con quella sensazione nei polmoni… Ma la mia banca è diversa, mi manda una lettera proprio oggi: mi dice che Moody’s ha pensato al mio fondo sicuro, anzi sicurissimo. E ha abbassato il rating: che cavolo vorrà dire? Io pensavo fosse soltanto un gergo che molti colleghi scribacchini usano per darsi un tono e non far capire nulla a nessuno. E, invece… insomma, a proposito di quel piccolo e innocuo investimento, quel “non si preoccupi, è garantito” detto a trentadue denti da un bancario che vedresti peggio soltanto come testimone di Geova la domenica mattina, ora si è tramutato in “ma non è mica poi tanto sicuro”, detto da Moody’s, non più dal bancario e nemmeno dal testimone di Geova che, tuttavia, avrebbe qualcosina da spiegarmi sulla fine del mondo. Ma dobbiamo credere alla fine del mondo? O semplicemente a un’associazione a delinquere legalizzata?
Insomma, sentirsi al centro della storia, partecipe della cronaca finanziaria, è un privilegio di cui la mia banca non vuole privarmi. È un po’ come entrare in un ristorante e ordinare una bistecca: e se questa bistecca fa schifo, il mio ristorante mi dice di prendermela col macellaio.
“Me li ridà?” ho chiesto a lui, al mister trentadue denti.
«Come signore?!» mi ha risposto lui, come se gli fosse appena andato di traverso un bicchiere di grappa.
«I miei soldi. Non le pare che abbiate giocato abbastanza?»
«Suvvia, che sta dicendo! Ma è sicuro di quel che sta dicendo? In questa situazione la cosa migliore da fare è lasciare i soldi dove stanno. E poi, questo Moody’s, non si preoccupi, fanno solo baccano. Sa, noi l’abbiamo informata solo per dovere di trasparenza, ma mi creda, il capitale è garantito», detto con un velo d’irritazione.
E con la lettera di Moody’s in mano e il fondo garantito in caduta libera, sono uscito dalla banca, come un rapinatore a cui è andata buca: Moody’s ed io, piacere d’incontrarci, senza che l’uno sappia chi sia e a cosa serva l’altro. Ma suvvia, direbbe il bancario… E mi faccio mille pensieri in testa, non capisco perché sono dentro un meccanismo così perverso, prendo il mio solito treno, solita puzza, solito sapore agrodolce, in ufficio e ritorno, alieno tra gli alieni. Ma, a sera, a fine giornata varco la soglia e ritrovo l’odore dell’estate, quello della mia estate: basilico e lavanda. Un profumo, un altro mondo, tutto il resto è alle spalle.
Lo strano caso di mister F: sotto la banca, la capra crepa
Tanto lui, mi risponderebbe comunque: «Mi raccomando, mister F, mi ritenga sempre a sua disposizione. In caso di dubbi, non esiti a chiamarmi, i suoi risparmi comunque sono in buone mani», con quel sorriso d’ordinanza stampato sul volto. E lo dirà non prima di avermi stuprato il conto.
Succede sempre così, prima di entrare vorresti avere un’arma da usare come un rapinatore, per far giustizia così; quando esci, chiedi scusa a vanvera e senza motivo, mentre quell’omino di fatto ti rapina col sorriso sulle labbra.
Tutto era cominciato anni fa, ai primi anni di risparmi e lavoro, quando un bel giorno, quell’omino fresco d’assunzione, dallo sportello mi rimproverò: «Ma suvvia, mister F, che fa con questo conto corrente? Non investe? Con i costi attuali, lei ci rimette, il conto corrente costa».
Il primo incontro non lo si scorda mai, ma con tutti quei complimenti, con tanto di caramella gommosa omaggio, m’impedirono di far luce sulla questione, fino a molte ore dopo. Fu in tarda serata, mentre mi rivoltavo nelle lenzuola, che riuscii a realizzare che, se affido i miei soldi a una persona, il minimo che possa pretendere è che me li possa restituire. Se io, invece, chiedo un prestito alla banca, la restituzione viene imposta secondo le regole dello strozzinaggio, ma fatto con il galateo. Se io, invece, presto soldi a una banca, glieli affido con fiducia e belle speranze, succede che sono un peso, un costo per chi li riceve.
E allora? «Li investa, le consiglio i nostri prodotti». E cominciò, allora, una lunga esibizione con giochi di prestigio, illusionismo e qualche immaginario cotillon (i ricchi premi, col cavolo che comparivano tra le clausole). Quell’omino scatenato davanti a me, io seduto e con la fronte sempre più corrugata e un rivolo di sudore che mi colava dietro l’orecchio fin dentro la camicia.
«Ha capito?!» Dopo un’ora di “televendita” non me la sentivo di negare, che figura ci avrei fatto! Risposi con un cenno, con un pollice alzato, ma con tanta confusione in testa. «E ora dovrà rispondere a un piccolo questionario». E cominciò l’interrogazione con una lunga serie di domande, tra le quali mancava soltanto un quesito sulle mie abitudini sessuali e sulla frequenza intestinale, ma forse mi chiese anche quello e non me ne accorsi. Risultato? «Lei mi rientra nel profilo prudente, caro mister F». Ma va? Non lo sapevo, avrei voluto rispondergli: «Peccato, ma dove sta il tavolo verde o la roulette, dai fatemi fare una puntatina».
In banca, come al casinò: l’Italia fondata sul lavoro e sul risparmio si trasformò in pochi anni nell’Italia fondata sulle scommesse in borsa. A giocare, ignari del proprio destino, frotte di ex piccoli risparmiatori che quegli omini in giacca e cravatta vollero trasformare in maghi della finanza. «Ah, caro mister F, le nuove tecnologie sono il futuro, lei non può non investire in questo campo, lo stanno facendo anche molti altri! Vedrà». Mi disse “vedrà” e io, poi, vidi: un anno dopo le tanto conclamate nuove tecnologie erano un bluff e tutti gli investimenti “carta straccia”.
«Ma caro mister F – mi rimproverò il solito omino – ma lei mi è entrato in borsa, quando era ai massimi indici. Insomma mi è entrato troppo tardi e ora mi vuole uscire troppo presto. Certo che se lei azzarda a entrare quando siamo ai massimi…». Mi stava amabilmente prendendo per il culo, ma non riuscivo a realizzare. Anzi, mi venne da dire sotto voce: «Mi scusi, non lo faccio più» (continua)
Lo strano caso… tatoo per amore
«Specchio, servo delle mie brame, chi è la più bella del reame?»
«Il mio papà» era la risposta spontanea di mia figlia. È andata così per tre anni, non appena la mia cucciola ha imparato le prime paroline: un trionfo morale che per un padre vale il premio Pulitzer. L’uomo, il blogger antiblogger, il giornalista di periferia, il giallista senza assassino: tutti riscattati dal successo indiscutibile e netto sull’aitante figura del principe azzurro, tutto muscoli e dolce canto. Meglio di colui che a dodici anni, mia figlia definirà un figo. Io meglio di lui, senza se e senza ma. È andata così fino all’altra sera, quando procedevo sicuro e ignaro della disgrazia, nella mia rivisitazione di Biancaneve.
«Specchio, servo delle mie brame, chi è la più bella del reame?»
«Papà, è il Matti», risponde la mia principessa.
«E chi è ‘sto Matti, da dove vien fuori?»
«Dalla classe dei blu, i grandi, all’asilo»
Ecco, il momento più difficile è arrivato prima del previsto: a quattro anni e mezzo, mia figlia ha già un altro. Uno della classe dei blu… «Uno dei puffi, piccola?»
«Ma dai! Non scherzare – arriva al punto, sicura come una diciottenne-. Io lo amo, sai?»
«Gulp», come un pugno nello stomaco, peggio di quando in seconda superiore (perché allora certe cose succedevano a quindici anni) rimediai il mio primo due di picche. Retrocesso a ruolo ancora non ben definito: il cacciatore che sacrifica il cerbiatto e salva Biancaneve? «No papà, secondo me vai bene come nanetto Brontolo. Anche lui è simpatico, sai?». L’innocente crudeltà di mia figlia è capace di stendere più di Mark Tyson: alta un metro e mezza mela in orizzontale, occhi vispi e color del cielo, idee chiare, anche troppo per un padre in cerca di una dimensione ideale, in crisi d’identità anche nelle favole.
Ma, per fortuna, è spietata anche con questo Matti: «Io gli chiederò di sposarmi, papà, e se lui dirà di no, sai che faccio? Lo butto nella spazzatura». Giusto, rappresaglia violenta.
Io surclassato da uno della classe dei blu? Proprio non esiste. Il duello, ormai, è una questione di cuore e di orgoglio: sfida sul Taboga, al luna park?
«No papà, io ormai sono grande, ci vado da sola»
Gara di capriole? Per il bene della mia cervicale, evito.
Ma ecco, stasera, l’occasione per riprendere il mio posto tra le favole, là, su quel cavallo bianco… La mia bimba ha una richiesta: «Papà, mi piaceresti molto con un tatuaggio»
Fico, penso io, senza dirglielo. Ma come crescono in fretta, queste bambine! In fondo, è una questione di look. Basta poco per aggiornare la propria immagine… Fa molto uomo vissuto, il tatuaggio, anche un po’ rocker, o marinaio (seppur di lago). «Te lo dò io il tatuaggio per te, papà». Dove sia andata a prenderlo, non indago, non discuto: ormai sono in rimonta verso il trionfo, non posso certo fermarmi adesso su un dettaglio da poco.
«Sul braccio o sul collo?» incalza lei, sicura di sé.
«Facciamolo in un punto più discreto, dai»
«Allora pancia»
Basta poco, due minuti, un po’ di pressione sulla ciccia che ormai da qualche anno fatico a contenere nei jeans, e un po’ d’acqua: perfetto. «Sei bellissimo» dice lei: è il trionfo, la rimonta su quel pivellino della classe dei blu, risalgo su quel destriero bianco e non temo più alcun verdetto di qualsiasi specchio magico.
Che grande soddisfazione, per un papà che, per amore, ha vinto la sua battaglia puntando tutto sul look e la preparazione culturale: i bambini di oggi hanno ancora molto da spartire con quelli del mio tempo. Insomma sull’ape Maia ho scoperto di avere molte conoscenze in comune con lei. E l’ho riconquistata, grazie a Flip, la cavalletta saggia. Uno scrittore con il tatuaggio e la pancia meno triste è già un passo più avanti verso il successo: per il mio noir rinuncio all’ipotesi del killer bambino, non amo infierire sugli sconfitti. Ma Willy, il fuco svogliato, e Tecla, il ragno, mi sembrano una coppia da tenere seriamente in considerazione.
Un libro da treno e la mia bicicletta
Sono abituato a prestare biciclette, lo faccio da più di trent’anni. Eppure, io, figlio di un ciclista, non ricordo di aver mai avuto una bicicletta nuova. Perché nella bottega di mio padre, negli angoli più polverosi di un’officina che funziona da settant’anni, c’era sempre qualche piccolo bijoux a pedali che, una volta ripulito e rianimato, diventava come nuovo. Come la mia prima Learco Guerra, gialla, alta mezzo metro e che, quando mio padre me la regalò, quella bici aveva visto molto più mondo di me, piccolo Gimondi di quattro anni. Una bici da cucciolo, ma con il manubrio dei campioni, quello da corsa. Ecco, la differenza tra una Saltafoss recapitata da Babbo Natale nelle case degli amici e le mie bici era negli accessori: c’era sempre qualche particolare che la rendeva unica, che faceva spalancare la bocca agli altri bambini. E poi finiva sempre con un: «Me la fai provare?». «Sì, ma solo per un giro» rispondevo. In realtà non sono mai stato geloso della mia bicicletta, ma lo dicevo per non sembrare un “pappamolla”. Tra gli ex bambini oggi papà c’è ancora chi ricorda la mia Chiorda anni Settanta, blu: aveva due optional che suscitavano invidia, un sellino rosso e il cambio nel mozzo. E con quella bici arrivavo ogni mattina a prendere il battello, nella mia Angera, per andare a scuola sull’altra riva, ad Arona: sempre tirato coi tempi, sembravo Cipollini in volata, mentre il battello era già pronto a riprendere il largo.
Un mesetto fa, quasi due, ho incontrato Stefano a Torino. Teneva in mano un libro dal titolo curioso, “Via della Casa Comunale n°1”, scritto da lui: un’idea nata da un blog e trasformatasi in un piccolo sogno di pagine e carta. Un diario di un “senza dimora” è diventato la fiaba poco gentile e irriverente, anzi dura e cruda, per far scoprire un mondo diverso anche a chi ha avuto tutto dalla vita. Stefano era preoccupato, quel giorno, perché doveva restituire la sua compagna di viaggio al legittimo proprietario: e senza bicicletta, lui, aggrappato alla vita tenendo i piedi sui pedali, temeva di diventare un uccello con le ali tarpate. Non più un falco, ma un pollo, costretto a vedere un solo mondo reale, quello attorno alle sue zampe.
Era da tanto tempo che non prestavo più la mia bicicletta: ora è la casa di Stefano e gira l’Italia e scopre città, strade e mondi che mai aveva visto prima. E vive avventure che mai avrebbe potuto vivere. Stefano Bruccolieri ha ribattezzato la mia bici “la poderosa” ed è diventata una dimora viaggiante: bianca e verde, con il manubrio da cicloviaggiatore. E se vi capita d’incontrarli per strada, lui a vendere il suo libro meraviglioso, lei infagottata e piena di borse, li vedrete felici entrambi: due anime sensibili, una in carne d’ossa e una d’acciaio, che brindano idealmente alla vita.
Lo strano caso… io e l’ottimizzatore
Non ho argomenti che “spaccano” sul web, non so che cavolo scrivere su Amy Winehouse, non ho una gallery con tette e culi vip sulle spiagge italiane, non ho alcuna confessione di pseudo pornostar americane (almeno là le chiamano con il loro nome) frequentatrici di deputati democratici. Insomma, sono pronto a essere il primo blogger che prenderà posto sul lettino dello psicologo, in crisi d’identità.
La ricerca del protagonista ideale, nel ruolo di killer del mio futuro bestseller, è ancora infruttuosa. Anche se l’assassino perfetto sembra essere lui, il consulente aziendale, che da qualche giorno mi fissa con sospetto, mentre lo incrocio nei corridoi dell’azienda: si definisce esperto in risparmio e ottimizzazione di risorse aziendali. Che, detto così, passa per un benefattore, ma traducendo in italiano corrente suona in tutt’altro modo: tagliatore di teste.
Cosa avrà la mia testa, caro ottimizzatore, per attirare il tuo sguardo, così frequentemente? Il mio collo è ancora intatto, poco importa se, con sguardo falsamente contrito, il capo dell’ufficio personale mi abbia comunicato stamane che una parte, una piccola parte del mio stipendio, mi verrà pagata fra un po’, ma non ora. Caro consulente, questa è opera tua, è parte del tuo diabolico piano! l’ho capito, sai? Sarai presto il cattivo nel mio noir, il nuovo romanzo di mister F che farà sussultare sulle sedie gli editori di tutta Italia, mi vendicherò così. Ti ci vedo in combutta con la casalinga del secondo piano, con una doppia vita tutta da rivelare a migliaia di lettori avidi di storie truci.
È iniziata l’estate, nel frattempo, che nei pendolari come me ha l’effetto solo di far nascere la voglia di acquistare riviste soft, come quelle che si vedono soltanto dal parrucchiere: all’edicola della stazione, “la giornalaia che sussurrava ai piccioni” (vi piace come titolo per entrare in classifica?) non aspetta altro. In attesa del mio treno, sbircio sulle copertine superpatinate e piene di addominali a tartaruga e poppe al Photoshop: ma uno scrittore che vuol far successo non può fermarsi all’immagine, deve scegliere in base ai contenuti. Cosmpolitan propone “regala un sex toys al tuo partner” e curiosando indifferente scopro che ci sono un sacco di coniglietti, fiorellini, paperelle e pinguini che si prestano a un uso improprio. Eppure non mi fanno venire voglia di acquistarli, tuttavia comincio a ripensare al reimpiego di certe bomboniere idiote che stanno a far la polvere nella vetrinetta del corridoio di casa.
Meglio mollare la rivista per non fare arrabbiare la giornalaia, tanto non lo compro: GQ, invece, comunica che uno studio recente ha dimostrato che il sesso tra gli atei è più divertente che tra i credenti. Stento a crederci… Più confortanti le pagine di Mens’health che suggeriscono agli uomini 5 modi per restare sani: sole, amici, sport, sesso e riposo. Grazie, non ci ero arrivato!
Mi ritorna in mente l’ottimizzatore aziendale e quello sguardo fisso su di me, mi verrebbe da incazzarmi con Tremonti o con la Grecia. Già, in Grecia sta andando tutto a rotoli, ma noi qui stiamo tranquilli: dal decolleté del consigliere regionale Nicole Minetti, che compare su una copertina e che anche io, come contribuente lombardo, contribuisco a rendere florido, capisco che va tutto bene. E me lo conferma Novella 2000, che mi mostra Aquilani e Quattrociocche che si rilassano in Sardegna. Sto bene, stiamo tutti bene: e che gran voglia di prendere la residenza a Paperopoli… ho sentito che Nonna Papera cerca un aiutante in cucina.
Lo strano caso…: ladri di merendine
Sì, lo so, è davvero di cattivo gusto lasciarvi in sospeso per una settimana, con quel fotogramma dello stronzo pestato. Avevo promesso di aggiornarvi giorno per giorno, ma la mia inaffidabilità come blogger è arcinota: non ho mai fatto mistero, tuttavia, dei limiti di questo strumento. Prendetela così, sarà inaffidabile, ma credibile: insomma, non mi è mai venuta la tentazione di fingermi una dissidente siriana con tendenze lesbiche.
Ma torniamo a quella scarpa devastata: sarebbe più soft il termine imbrattata, ma con quel si mangia Fido, di questi tempi, con tutte quelle pappine e bocconcini ultrafinti, super pubblicizzati in tivù, il risultato è semplicemente devastante per la suola di ogni scarpa. Un uomo disperato, già alle otto del mattino, prova a reagire, sfregando la suola nervosamente e a lungo sull’erba di un piccolo parco giochi lì vicino, a duecento metri dall’ufficio. Ma sicuramente non sarà sufficiente a eliminare tutte le tracce e le conseguenze si faranno sentire fin da subito, sotto la scrivania, striscianti fino alle narici di segretarie e colleghi: insomma, una mattinata con segnali evidenti, l’olfatto insomma darà la certezza ai presentimenti temuti da ogni impiegato. Ovvero che sarà una giornata di merda.
E la depressione di uno scrittore, in questo scenario, è il minimo che possa capitare: la ricerca ossessionata di un delitto da commettere o da far commettere è solo uno dei crucci di uno scribacchino fesso, all’inizio di una giornata cominciata male. Inutile tentativo di raddrizzarla, corrompendo l’addetto alle pulizie a prestarmi le scarpe, mentre lui se ne va con gli zoccoli che tiene nell’armadietto per le giornate più calde. Io e Chico, il peruviano, siamo complici di piccole malefatte d’inizio giornata, io il primo a timbrare, lui l’ultimo a finire le pulizie. Noi due soli, di solito, si finisce col prendere a spallate il distributore automatico di dolci e merendine, per farne cadere qualcuna gratis. Ma, oggi, la faccenda è disperata: «Gracias Chico, ti sono debitore». «De nada amigo». Intanto giù nel giardino, il mega presidente è il secondo ad entrare in azienda, ma prima di entrare in ufficio accudisce le azalee, sembra volerle istruire, le accarezza mentre alza lo sguardo verso la chioma della grande quercia, con gli uccellini che cinguettano e svolazzano nell’aria, laggiù verso l’inceneritore. Ai dirigenti, al giorno d’oggi, tocca di fare tutto, anche accarezzare le piante e parlare agli uccellini: nella sua valigetta, ben custoditi, ci sono tutti i documenti per estendere la cassa integrazione a tutti i dipendenti, tranne i fringuelli e i pettirossi.
Lo guardo dalla finestra del secondo piano, quella sul pianerottolo del distributore di merendine, mentre cerco di prendere confidenza con le scarpe del peruviano, di due numeri più grandi. Vedo il mega presidente e mi riconcilio col mondo, pensando alle sue pesantissime responsabilità, alla dura vita di chi decide della vita degli altri, seppur dal ponte di un panfilo ormeggiato a Portofino. E io lì, a rubar merendine prima di cominciare a guadagnarmi il pane… Ora, improvvisamente, lo vedo arricciare il naso: si guarda intorno, lì vicino alla siepe di gelsomino. Sembra voler dire, anzi dice proprio: «Uella, ma han già messo lo stallatico?». Spietato, come un segugio, si accorge ben presto, là dietro, del concime anomalo: ed eccolo, piegarsi e recuperare inorridito un paio di scarpe numero 40, made in China, ma col design italiano, orrendamente insozzate. Destinazione, inceneritore: nulla le potrà più salvare.
Lo strano caso di mister F
Dopo lungo silenzio, causa Giro d’Italia, dove un pendolare si è illuso di diventare un reporter d’assalto, riprendo il mio blog, con una piccola sorpresa. Iniziano da qui, le inquietanti avventure di uno scrittore di provincia, in cerca di misteri e delitti.
Scrivo raccontucci, solo quelli. Destino segnato, praticamente compromesso, per un sognatore che pigia sui tasti solo per inventare piccole storie, storie che prendono vita come uno zampillo da una sorgente, ma che si esauriscono nello spazio di un ruscello, con poche rapide, tortuose, fragorose, ma senza l’ambizione di scorrere fino all’orizzonte, dentro il grande mare della letteratura. “Non c’è futuro, Jack” mi verrebbe da dire al barista di un locale fumoso e che diffonde accordi blues, scenario ideale per la notte di ogni intellettuale che si rispetti: ma sono rovinato anche nell’immaginario. Perché nei locali hanno tolto il fumo, niente atmosfere da vecchi bohemiens, oggi nei bar si può respirare a pieni polmoni, con tutti quei profumi artificiali, di cocktail fatti di polverine e colori. E il tabacco che prima soffocava eccessi di ascelle mai lavate, alla fine di un giorno, oggi non c’è più. Puzza vera e profumi falsi, Jack oggi sarebbe dietro a un bancone troppo raffinato per me. Non c’è futuro nell’immaginario di un pallido scrittore: anche perché la mia notte si trascina su un tavolo di provincia, nella pace, troppa, di un paese d’altri tempi, che di notte dorme, o al massimo si rincoglionisce davanti a un talk show: un nido, al termine di una lunga giornata da pendolare. La mia città non è vissuta, ma immaginata. La Milano che brulica di storie da best seller è laggiù, quasi all’orizzonte, dietro i palazzi del Gallaratese, dietro le gru che tirano su cemento. Milano comincia laggiù e io qui, nella quotidianità di una vita da pendolare che si spinge fin sotto a un inceneritore, ma non va oltre Pero. E non ci possono essere storie da best seller in un posto che, per dispetto, gli hanno dato il nome di una pianta da frutto: ben mi sta, perfetto per i miei raccontucci, ma per il noir da premi e prime pagine ci vuol altro: Pero non è New York, l’Olona non è il Tamigi, il mare qui è un’illusione, non come a Vigata. Niente Pigalle o Montmartre per far muovere e uccidere ballerine… Anche Paperopoli sarebbe meglio di Pero, per un grande intrigo, quello che fa eccitare editori e inturgidisce l’estro dei critici: ma anche un noir di serie B vale la consacrazione di uno scrittore di raccontucci. Tuttavia, non mi è mai riuscito di far morir nessuno e senza un assassino, non ho scampo.
“Vivi e lascia vivere”, c’era scritto su un finestrino del treno, stamane. Gesto estremo di un teppista depresso. Segno del destino o beffa? Vent’anni di viaggi, milioni di “viva la figa” scarabocchiati in ogni angolo di carrozze e un filosofo, che ha voluto avvertire proprio me, mentre mi sforzavo di trovare un delitto per far decollare la storia che può entrare in classifica. I miei serial killer li devo scovare per forza lì: o tra quei vagoni zozzi, o dentro a un tunnel della metropolitana che non entra a Milano, ma mi scarica prima, o in un minuscolo reticolo di strade della Gotham city dei miei raccontucci, Pero town.
Casa-ufficio, teatro di un thriller che è ancora tutto da inventare, ma che deve per forza nascere lì: e dall’uscita della metropolitana al lavoro ci sono cinque minuti tra case, finestre, piccoli giardini ideali per seppellire cadaveri e prove, e volti diffidenti. I diffidenti vanno benissimo: o come vittime, o come serial killer. All’ombra dell’inceneritore, dal secondo piano di un condominio, c’è una casalinga che mi fissa con un’aria quasi di disprezzo. Una così non può che essere perfetta per diventare un’insospettabile Crudelia: alzando lo sguardo cerco di cogliere i tratti essenziali della sua figura. Perfetta, una casalinga diffidente, che disprezza e uccide: sì, signora, la sto guardando. Lei sta per entrare nel mio romanzo.
Ma Pero è un paese di cani, prima ancora che di serial killer: troppi cani, bastardi e soprattutto incontinenti. Pronti a devastare le suole di chiunque: e stamane è toccato a me e alla mia scarpa casual “soft” da scrittore di provincia e camminatore. Lei casalinga del secondo piano, sappia che ci rivedremo: sì, ho pestato una merda, che ha da guardare? Tanto ci rivedremo.
Franzetti incontra Scurati
Odio i refusi, mi fanno arrabbiare sia come lettore, sia come scrittore. Sono il segno tangibile dell’esistenza del maligno: una manifestazione diabolica, che si fa beffe della bellezza e della nobiltà dei sentimenti. L’ispirazione traccia i contorni, tende alla perfezione, la scrittura forgia la materia e dà vita all’opera: poi, il diavolo ci mette lo zampino. Un po’ come un writer che imbratta Fontana di Trevi. La svista, l’errore di battitura, il lapsus, la gaffe sono i segni della stanchezza dello scrittore: e un libro come Dove finisce Milano, nato sui treni, alla fine di giornate stressanti, è la vittima ideale per il diavolo imbrattatore. Lo sapevo, ne ero preparato. Ma il refuso, assolutamente diabolico, spesso si cela, si rende invisibile agli occhi di correttori di bozze dai buoni sentimenti. E il maligno si diverte a prendere di mira gli scrittori soli, quelli che si affidano al fai da te o alla pazienza della moglie: se a volte va a segno persino sui libri di super autori circondati da decine di ghost writer, una preda solitaria come un narratore esordiente è un bersaglio facilissimo. Colpisce e s’inabissa, lascia che i refusi emergano, a sorpresa, quando meno uno se l’aspetta. Come nel gran giorno del salone di Torino: Franzetti incontra Scurati, momento alto per la cultura della sponda magra. In Dove finisce Milano c’è un racconto ispirato al grande scrittore e c’è pure una citazione, con nota a margine.
A Torino, Franzetti incontra Scurati e da una stretta di mano si passa subito a un confronto e a uno scambio di complimenti. Momento clou: Scurati chiede a Franzetti una dedica sul suo libro. Tutto vero. E Franzetti, timido e impreparato, si fa prestare una Bic da un fan (di Scurati) e mette giù due righe banali, ma importanti: “Ad Antonio Scurati, con stima”. Sì, tutto vero: perché Franzetti ritiene davvero che Scurati sia tra i pochissimi autori italiani a far letteratura. Letteratura che studia e fa riflettere sui mali del nostro tempo, frutto di uno spessore culturale, al contrario di molti celebrati autori che misurano la propria bravura a litri di sangue sparsi gratuitamente tra le pagine. Scurati ha rispetto della vita e della morte, e nelle sue storie non sacrifica uomini e donne protagonisti solo per il gusto morboso delle logiche commerciali.
Scurati si riprende Dove finisce Milano, lo tasta, lo sfoglia con piacere, fa scorrere le pagine, fino a quella nota a margine, giù in fondo al libro. Finché il diavolo…: «Comunque, io mi chiamo Antonio. Non Pietro». E mentre Franzetti sbianca, Scurati prova a consolarlo con una pacca sulla spalla.
Ecco cosa non vedrete nella seconda ristampa, ma almeno ho avuto il coraggio di raccontarlo.