Capocriceto e il suo toposutra

La libertà sessuale era la più grande conquista sociale di noi topi: sì, anche di noi topi di campagna, roba che voi uomini ve la sognate con tutti quei sensi di colpa e tabù che vi portate dentro. La libertà, in quanto tale, si sa, è totale, non ha limiti o schemi: unico confine, la libertà altrui. E così ogni roditore faceva come gli pareva, rispettando gli altri. Tutti, purché consenzienti e non paganti. La natura faceva tutto il resto: una volta, dentro un tombino del centro, vidi due criceti maschi strusciarsi la coda dentro le orecchie. Volevano provare, hanno scoperto una zona erogena. Se un giorno provassi un desiderio irrefrenabile di masturbarmi un orecchio, so che potrebbe essere interessante.
Sì sì, ognuno faceva come gli pareva, e a volte non faceva, proprio perché gli andava così: scoiattole occasionali che rifilavano due di picche come se piovesse, da noi, non accendevano risse tribali o pianti. Ma nemmeno in famiglia. Mamma topa, giù in periferia, aveva il lunedì come giorno fisso per babbo topo, ma per due mesi, marito e moglie si sono trovati nel loro giaciglio e si sono detti: “anche stasera l’emicrania! Pazienza, dai, dormiamo”. E nessuno dei due ha mai lanciato accuse isteriche del tipo: “ecco, non mi ami più!”. Perché libertà era dire sì, ma anche no. Strusciarsi solo i baffi con una ghira, oppure aggrovigliarsi in un’orgia di arvicole.
Ma ora, anche noi topi abbiamo un grave problema: capocriceto, che si crede un roditore alfa, ha monopolizzato il potere e la topoinformazione e ha fatto la sua rivoluzione. Sentendosi il più attraente e il più furbo ha inventato un nuovo modo per accoppiarsi: e pare che lo voglia imporre come legge. Lui paga le roditrici in noccioline e loro fanno a gara a lisciarsi le orecchie o a siliconarsi le code pur di mangiarsi quelle prelibatezze. Insomma secondo capocriceto non conta farlo se e quando hai voglia, ma basta seguire le istruzioni e tutto sarà perfetto. E così ha inventato il toposutra, una moda con tutte le sue posizioni preferite, per celebrare la mascolinità. Ma non solo toposutra, vuol imporre ai toposudditi anche una linea completa di mangimi per sviluppare l’appetito sessuale, in particolare delle roditrici, così la SUA libertà sessuale non verrà mai mortificata. Perché lui è il nostro capo, lui ci governa e dà l’esempio: e noi topisudditelettori dovremo adeguarci, IMPARARE da lui, per non passare nella categoria dei subroditori. Più tope per tutti, in fondo è un motto che piace a tutti noi topi maschi, ma prima non c’era nemmeno bisogno di dirlo.
E io, topo di campagna qualsiasi, che non sarà mai un roditore alfa, mi sento depresso: perché so che non sarò mai capace di eguagliare le prestazioni di capocriceto, mi sento inferiore. Ho visto pantegane in competizione con scoiattoli sulla dimensione della coda, ho assistito a risse tra ricci e talpe a causa delle tariffe troppo alte di queste ultime: “dieci noccioline come minimo, con te è sempre sadomaso” si lamentava la talpa. Insomma, a me sta storia della libertà non convince più, così è solo ossessione, ovvero schiavitù.
Ah, l’altro ieri, giusto lunedì, passavo in periferia e ho assistito all’ennesima cilecca di babbo topo con mamma topa. Ma lei stavolta gli ha urlato: “capocriceto l’avrebbe fatto sette volte di seguito!”. E lui non è stato zitto: “ma piantala che una vecchia batuffola di polvere come te, non attizza più nemmeno un toporagno”. E si sono separati.
Sì, lo so, di questo passo finiremo tutti all’inferno: che per noi topi sarà sicuramente una stanza completamente pulita e disinfettata. E qualcuno da un topopulpito sicuramente ci avvertirà che, se non rispetteremo il toposutra, diventeremo ciechi.

Un libro da treno: Agnes Browne, mamma

Niente morti ammazzati, storie di serial killer o mostri perversi: in treno, per fortuna, ci si può rilassare anche con un buon libro che fa sorridere e che fa riflettere. Fa sorridere, questo splendido romanzo di Brendan O’Carroll, ma in alcune pagine arriva anche a farti spanciare, senza mai sfociare nel volgare delle battute gratuite di certe cabarettiste del momento, così in voga anche in libreria. L’editore Neri Pozza, da qualche anno, sforna romanzi che mi hanno davvero entusiasmato.
Agnes Browne, come vorrei averti conosciuta! Magari in un pub, mentre sorseggiavi una birra o al mercato, impegnata nel vendermi un sacchetto di patate. Oppure mentre ballavi con il tuo mito, Cliff Richard. Viva l’Irlanda proletaria degli anni Sessanta, viva i piccoli eroi che, con le loro vicende quotidiane, insegnano a prendere la vita con dignità: sempre e comunque, anche quando per sbarcare il lunario bisogna fare sacrifici.
Che donna, Agnes Browne! Bella, ma così lontana dai modelli che, a quanto si legge e si vede in tivù, fanno successo e arrapano. Non ha un sedere a disposizione di un miliardario, Agnes Browne, non frequenta festini e non scende a compromessi: i soldi per vivere li guadagna con il sudore della fronte. La sua bellezza è virtù, esteriore e interiore, non uno strumento di guadagno.
agnesbrownmamma

C’era un uomo sul cornicione

Una pausa Natale più lunga del solito? Su dai sapete come sono i topi, se la prendono comoda… Mai dubitare, comunque: fossi stato un tacchino o un cappone, forse avreste avuto ragione nel temere di non rileggermi più dopo le feste natalizie.
Ormai sono già tre settimane che “pendoleggio” tra la provincia, Milano e Pero. Che aria tira da queste parti? Anno nuovo vita nuova, si direbbe: ma l’andazzo non promette bene.
Da quest’anno, oltre al Diario del topo, alle storie di Nebbia e tanti altri personaggi, ho deciso di condividere con voi un fatto del giorno. Quello di ieri, mi sembra quanto meno curioso, ma forse non sorprendente più di tanto.
Da una notizia Ansa:
Un imprenditore si è intrufolato oggi in un palazzo dove ha sede la Banca Popolare di Milano e da un balcone ha srotolato uno striscione contro la banca.
L’uomo, che è già stato identificato dalla polizia, intervenuta in piazza Meda, è un imprenditore di 45 anni residente in provincia di Pavia e titolare di una ditta di servizi. Intorno alle 10, secondo quanto precisato in Questura, è entrato nell’edificio, è salito al quinto piano e ha srotolato uno striscione riferito alla Bpm che riporta la scritta ”Abusi di potere”.
All’origine del gesto ci sarebbe il mancato rinnovo di un finanziamento. Dopo un colloquio con il direttore dell’istituto di credito si è convinto a scendere, imbragato dai vigili del fuoco, che lo hanno poi consegnato alle forze dell’ordine. La Banca popolare di Milano ha precisato che: «la persona non è né un dipendente né un cliente di Bpm, ma un fornitore che a oggi non ha più rapporti con il nostro istituto».

Insomma, prima di perdere anche un solo centesimo a causa di un disgraziato, era bene prendere subito le distanze: un poveraccio che si lamenta di una banca, cosa inaudita. Meglio una rapina, insomma…

Nebbia è tornato

Irina dorme, l’inverno l’ha portata via con sé. Intanto, la città si riaccende. Dai forni delle panetterie esce un profumo antico, mentre i bar si riempiono di fagotti umani in cerca di un caffè. Altro che fitness, gli autisti hanno la loro bella ginnastica, nel grattare sui parabrezza congelati: bisogna ripartire, la giornata ricomincia con un raschietto in mano, mentre là in fondo, dietro il distributore di benzina, Irina continua a dormire, dentro a un cartone.
Anche il circo è tornato in città, come un rito fuori moda, ostinazione dei romantici: nascosto tra gli ultimi sognatori, condividendo un pezzo di vita con una trapezista, un piatto di minestra con un domatore, un pacchetto di sigarette con un fachiro pachistano, Nebbia rivede Milano dal predellino di una roulotte. Nomade per amore, se ne partì in treno, ritorna come uno zingaro: era la sua città, quella, ma da zingaro ora sa che non è bene accetto. Perché un uomo senza dimora sfugge a ogni regola e a tutte le convenzioni: Nebbia ha fatto la sua scelta, ora la gente non saprà più quale marchio attribuirgli e avrà paura di lui. In fondo, spera che qualcuno si ricorderà ancora delle sue risate sporcate di fumo: “Certo, ci sarà ancora qualcuno che non avrà dimenticato”, dice tra sé, mentre la sua sigaretta si consuma fuori da un tendone buio, ancora addormentato, dopo lo spettacolo della sera prima.
Stelle appese ai palazzi, sopra le strade, non cambiano un granché di questa Milano che, dall’energia che sta sprigionando, sembra avere miliardi di cose da fare, tutte più serie di ciò che farà lui, oggi, mentre alzerà lo sguardo verso i grattacieli tirati su dalle gru, oltre le luci del Natale. Tante parole, troppe, per una festa… «Va a finire che, anche quest’anno, tutti guarderanno il dito e non la luna, ma chissenefrega». Nebbia è tornato e presto darà fastidio a qualcuno: «Perché è sempre meglio che diventare invisibile» Anche a Milano arriverà Natale, ma tutte quelle luci, forse, non basteranno per illuminare milioni d’invisibili.
Intanto Irina dorme dentro un cartone e non si sveglierà più. Non dava fastidio a nessuno, ma presto, anche solo per un minuto, non sarà più invisibile.

“Mio Dio! Un intero minuto di beatudine! È forse poco, sia pure in una intera vita umana?”

Cari Fazio e Saviano, ecco il mio elenco

Cos’è un pendolare? Elenco (rigorosamente senza contradditorio) secondo un topo di campagna:

Il pendolare è colui che ha ispirato Darwin e il suo pensiero: l’istinto di sopravvivenza lo porta ogni giorno ad adattarsi a situazioni e ad ambienti all’apparenza ostili e invivibili.

Il pendolare è l’unico centometrista in grado di affrontare in apnea 30 metri di scalinata in discesa, 30 metri di sottopassaggio viscido, 30 metri di scalinata in salita, 10 metri di banchina e gran finale con plasitco salto al volo sul vagone, stabilendo lo stesso tempo di Usain Bolt… E una volta salito sul treno, il primo pensiero è darsi un’aggiustatina ai capelli.

Il pendolare è il vero emblema dello spirito sportivo di De Coubertin: teme soltanto la soppressione del treno, perché per tutto il resto l’importante è partecipare.

Il pendolare è come Ruby: il bunga bunga lo subisce tutti i giorni, suo malgrado, a ogni frenata brusca del macchinista, nelle ore di punta.

Il pendolare è certamente colui che ha inventato Facebook: tra ritardi e carrozze stracolme, un bel giorno si è trovato a cazzeggiare in una community e a farsi gli affari degli altri. E gli è venuta un’idea.

Il pendolare è un avido consumatore di amor platonico: a ogni viaggio c’è sempre un bel tipo o una bella gnocca con cui vivere, nell’immaginazione, una storia di passione della durata di poche fermate.

Il pendolare è colui che ha scoperto la differenza tra uomo e donna, grazie ai suoi piedi: a seconda del tacco che, nei momenti top, si sovrappone al proprio alluce.

Il pendolare uomo è colui che in una carrozza sovraffollata è in grado di eccitarsi per una supermaggiorata che si struscia sulla sua schiena, per poi scoprire che alle sue spalle c’è soltanto un idraulico con le braccia conserte.

Il pendolare donna, viaggiando pressata come in una scatola di sardine, si accorge presto dell’inutilità di un impiegato di banca, al contrario invece della sua valigetta, che in taluni casi può regalare sensazioni indicibili.

Il pendolare è l’unico lettore che per consolarsi della tristezza della propria situazione, si rifugia tra le pagine della trilogia di Stieg Larsson, Giorgio Faletti, Dan Brown o Stephen King, ovvero nella dolce serenità di belle storie di morti ammazzati.

Il pendolare, in inverno, è come il minestrone: se riscaldato è più buono.

Il pendolare, a differenza dei fagioli in scatola, può contare su una spiegazione ufficiale se non riesce a tornare in libertà: “porta non utilizzabile”.

Il pendolare è filosofia in carne e ossa: anche di fronte alle difficoltà apparentemente insormontabili, deve sempre andare avanti.

Il pendolare è l’unico elettore al quale i politici possono impunemente e costantemente raccontare balle: tanto, anche se non darà loro il proprio voto, sempre su quel treno dovrà salire.

Per lo stesso motivo, i politici potrebbero anche non raccontare, al pendolare, costantemente e impunemente balle: tanto, anche se non darà loro il voto, sempre su quel treno dovrà salire.

Hotel stazione

Sono le 23 e Zoran guarda su, dal parcheggio verso i binari e la stazione. C’è l’ultimo treno che scarica tre sagome imbacuccate, raggiungono le rispettive auto ghiacciate sotto il lampione, all’uscita del sottopassaggio. Motori accesi per qualche minuto, quanto basta per sbrinare il parabrezza. E se ne vanno. L’ondata dei pendolari è finita, anche oggi.
Si torna a udire solo il vento, gelido, che trasporta fiocchi di neve. Zoran, allora, accende il fuoco: rami trovati nel boschetto lì vicino e ammucchiati in un angolo del parcheggio deserto. Si scalda le mani piene di calli, gonfie di freddo e lavoro, dopo una giornata passata in cantiere, a fare il cemento. A fargli compagnia, a profumare l’aria, anche una salsiccia, che cuoce su quello stesso fuoco, e un po’ di caffè solubile e fumante. L’ora di cena dura il tempo di far diventare brace quella poca legna: Zoran la raccoglie, poi, in una vecchia scatola di metallo, come quelle che le nonne utilizzavano per i biscotti. E la mette in auto, una vecchia Skoda, dove s’infila pure lui, velocemente. La brace diventa scaldino, in quella notte severa, sì, ma non quanto quelle a cui era abituato negli inverni in Ucraina. Zoran vi appoggia i piedi e intanto accende il motore: deve razionare il carburante, per farlo durare tutta la settimana. Ha calcolato che il riscaldamento può permetterselo per venti minuti circa, ogni sera, così non rimane a secco. Tra maglioni e vecchie coperte, abbassa il sedile e si appresta a sognare, in fondo a un parcheggio.
Un istante più tardi, due occhi illuminati, in fondo alla strada, si avvicinano sempre più: Zoran apre appena gli occhi, ma non ha paura, è una scena alla quale è abituato. Sa che in quell’auto c’è Tonio: spegne il motore sul lato opposto dello spiazzo, alza la mano per salutare, e si mette a dormire pure lui, in un sacco a pelo. La sua famiglia è andata in crisi, a casa non ci può più stare e l’unico albergo che si può permettere è quello accanto a Zoran, con vista sul binario tre. Domani tornerà in ufficio, sarà il primo a salire sul treno delle sei e quarantatré.

Zorro e una “benedetta” scarpa made in India

Zorro, pendolare che sogna. Ha la mascherina per non vedere, per non rassegnarsi allo spazio stretto e deprimente di una carrozza, per darsi una speranza nel sonno. All’alba è il primo a salire sul treno, quando la stazione è ancora sovrastata dalla luna che tramonta: scatto felino per il posto migliore, quello non troppo vicino alle porte, lontano dagli scocciatori che, sul locale del mattino, di solito hanno le sembianze di segretarie affrante e in acido con le suocere, pettegole interregionali, turisti al primo giorno di ferie, nonni con bambini fuori orario e pertanto in euforia molesta. Tutta gente che, insomma, non ha motivi per tacere e parla, blatera, irrita, emette suoni di ogni tipo: umanità che non apprezza il valore di un’ora di sonno.
Zorro, invece, si affida a quella mascherina sgraffignata all’Alitalia durante un viaggio aereo aziendale, roba di molti anni fa. Si siede e si nasconde sotto quella pezza sintetica, nera: e lì dietro immagina spazi di un’altra realtà. Ma a ogni fermata, in viaggio per Milano, c’è sempre qualche scocciatore che osa violare quella sua dimensione onirica. Il lunedì mattina, poi, tiene banco il campionato: e non c’è carrozza che non abbia un angolo di opinionisti sul 4-4-3 e su Benitez.
Zorro si spazientisce, prova a farsi valere, non con la spada, ma a colpi di “ssssst”. Niente da fare. Passa, allora, alla sbuffata energica, alla mimica facciale, alla mimica corporale. Infine, gesto estremo, emette un “basta, silenzio!”. Così temibile da ottenere una risata.
Alternative? Tappi nelle orecchie o i-pod acceso su un concerto di Vivaldi. Zorro sceglie i tappi: e la musica ha deciso di sognarsela. Più economico, di questi tempi. La riconquista della fase rem non è più un miraggio: fermata dopo fermata, lo stridìo dei freni e la ripartenza si fanno sempre più ovattati. Busto, Legnano, Canegrate, Parabiago, fermate sbiadite, come viste da una nuvola. Fino a immergersi in un altro mondo: un ufficio con vista spiaggia, palme e pappagalli ai lati, poltrona ergonomica e massaggiante, assistenti e colleghe in bikini, capufficio dalle sembianze di Pamela Anderson, caipiriña servita alla scrivania, olio di cocco da spalmare contro lo stress da precariato, sindacalisti con l’ukulele, braccialetto all-inclusive per il servizio mensa rigorosamente vista mare, corso di balli caraibici retribuiti come aggiornamenti professionali. Peccato soltanto per quella strana sensazione sotto il piede destro: come se, in tutto quel “lavorare”, avesse lasciato il piede troppo tempo sulla sabbia calda.
«Capolinea!». Anche i tappi lasciano filtrare la voce della realtà. Pronti, via: non c’è tempo da perdere se si vuol saltare al volo sul metrò e timbrare in orario, su, al quinto piano di un palazzo del centro. Zorro ha già riposto la mascherina nella valigetta e, come un don Diego qualsiasi, si appresta allo scatto giù, sul marciapiede, quando… «La scarpa! Sabotaggio». Come l’effetto cicca bomba sull’asfalto in un giorno di luglio, la suola mollemente si affloscia tristemente sullo zoccolino laterale della carrozza, quello del riscaldamento: rovente, come il nocciolo di un reattore nucleare. Il mistero dei vecchi treni è in quegli zoccolini laterali, capaci di sopportare temperature da alto forno, in grado di trasformare un vagone in una sauna. Mezza suola rimane lì, il resto si prende libertà impensabili e impreviste, modellando una triste scarpa made in India, come una canoa. Zorro è un uomo senza più rincorsa, con il metrò ormai perduto e il ritardo irreparabile. Zoppicando, ancora sul treno, scorge in fondo, come fosse in un deserto, il capotreno, di spalle: lo raggiunge, inviperito con il mondo, ma con qualcuno a tiro cui dare addosso. «Ma che razza di treni! Roventi da far sciogliere le scarpe! Chiederò i danni». La sagoma in divisa Fs e cappello rosso si volta: Pamela Anderson, in persona, scollatura compresa. «L’ufficio reclami è sul molo in fondo alla spiaggia, signore».

Potrà mai un topo rinunciare alla carta?

Il solito Varese, fermata in tutte le stazioni. Superaffollato e quasi asfissiato dalla calca e dall’odore. Seconda carrozza, là in fondo compare il primo I-pad mai visto su questo treno. Un tizio giacca e cravatta lo sfodera con finta indifferenza e comincia a strofinarlo con il dito: gira le pagine, così come Aladino chiamava il genio della lampada.
Attorno a lui si forma un capannello di curiosi: un vecchietto che fissa giacca, cravatta e accessori come folgorato davanti a un extraterrestre, uno studente allunga l’occhio come se dovesse copiare i compiti d’inglese, una signora si sporge alle sue spalle, con generosa veduta sul davanti. Intanto, a metà carrozza un ragazzotto sui vent’anni si esibisce con I-pod ultima generazione, mentre di fronte ha una casalinga che, celando ogni impaccio, prova a messaggiare sms come una ragazzina. Una carrozza strapiena di viaggiatori, tutti accessoriati con tecnologie più o meno avanzate per la comunicazione. E nel mezzo ci sono io, il topo, che fa il guardone e pensa.
Proprio oggi leggevo su un sito internet che un signore americano, un Nostradamus del mondo virtuale, ha previsto che nel 2027 i giornali di carta spariranno dall’Italia. Ieri, invece, mi deprimevo sui dati in calo della produzione narrativa cartacea: solo gli e-book salveranno la letteratura, dicono gli esperti.
Potrà mai un roditore ripudiare la carta a favore del silicio? Mai. Anche a costo di fare la fine di Firmino, il topo inventato da Sam Savage e finito depresso in una libreria di Boston.
Ma perché mi ritrovo nel girone dei retrogradi? Fatemi capire. Sbaglio a ostinarmi nel difendere la mia libertà? Vale più la mia libertà obsoleta, o quella imposta dai nuovi modelli? Finire inesorabilmente e inevitabilmente nel gorgo di un fenomeno commerciale planetario, come la corsa al virtuale, è sinonimo di libertà e progresso?
Una cultura virtuale, ovvero, quella che non si tocca, che esiste solo in un chip è libera? E soprattutto è duratura, oppure destinata all’oblìo? Sono grato ad Alessandro Manzoni perché ha messo su carta la sua opera e l’ha fatta arrivare fino a me. Carlo Emilio Gadda aveva la certezza che il suo inchiostro sarebbe sopravissuto alle generazioni ed è stato un grande dono per tutti noi. Io, invece, non ho la certezza, per esempio, che queste poche e pessime righe potranno mai essere lette dai miei pronipoti: basterebbe un clic da una parte qualsiasi del pianeta per farle sparire. Ma, allora, spiegatemi tutta questa libertà della nuova tecnologia, dove risiede? In poche mani, in un potenziale clic.
Torniamo al vagone strapieno, con un roditore nel mezzo che ha la sensazione di essere considerato una pecora: almeno da qualcuno. Dieci anni fa, da sfigato, ho ceduto alle esigenze dei tempi e ho accettato che un superfluo telefonino diventasse strumento indispensabile: per comunicare di più, ma non meglio di prima.
Ora, invece, l’I-pad incombe sul futuro della informazione, preceduto dall’I-pod: la cultura implode, la parola cambia il proprio strumento e diventa schiava di una batteria, del silicio, di una ricarica, di un software. Il mondo avrà ancora tempo e voglia di leggere più di quindici righe per volta, ovvero l’intervallo ideale per un post di qualsiasi blog? Ke kavolo c frega, mi messaggerete… ma, di questo problema, direi vitale, nessuno ne parla.

Topi di campagna, imbarcatevi!

Non più un binario, bensì un molo. Un giorno, che ancora è prematuro definire bello o brutto, un topo salirà su un pontile e si metterà in viaggio. Destinazione Milano centrale. Già, la terza via sarà il futuro: non a destra, non a sinistra, ma sull’acqua, galleggiando a seconda della corrente. E ci si ricorderà di un illuminato arciduca che, in tempi non sospetti, l’aveva detto e fatto, il gran progetto: «L’imperatore ci taglia i fondi, noi fermiamo i treni. Anzi, li renderemo più cari di un volo Alitalia». E così fece.
Tuttavia l’arciduca, memore dei fasti di un predecessore, tal Giangaleazzo del Biscione, pensò che fosse immorale tagliar ogni comunicazione tra la provincia e la sua Milano, sua in quanto signore di tutta la regione, benché feudo di una dama dal cuor gentile che, tuttavia, l’arciduca sospettava di lei quale perfida megéra.
E così, mentre alla corte romana l’imperatore s’intratteneva con saltimbanchi, nani, giullari, giocolieri, ballerine e cortigiane, il savio arciduca progettava il futuro, attorniato dai gran visir dell’urbanistica e dalle confraternite più laboriose, fedele al voto di castità ed estraneo a qualsivoglia pensiero lubrìco. Viva Leonardo, che per primo ci pensò e viva l’arciduca che secoli dopo ci ripensò. E per realizzare tal progetto, mise a dimora, dapprima, intere piantagioni di alberi degli zecchini d’oro. Interrava il magro contributo dell’imperatore e ne traeva frutti rigogliosi, svariati milioni di zecchini.
E di quel tempo, ancora si racconterà di quell’imprudente funzionario che, al cospetto dell’arciduca, volle sottoporre una questione: «Mio signore, i treni sono al collasso, si fermeranno presto. Tutto va in rovina, benché il popolo chieda i treni… Non sarebbe più opportuno, qualora lo ritenesse, che i frutti degli alberi degli zecchini vengano impiegati per i treni, anziché per i canali?».
Ma la risposta dell’arciduca non si fece attendere, dura, ma illuminata: «Taci tu che i trasporti non sai nulla. La via d’acqua, la terza via, sarà la panacea di tutti i mali di questa città e della mia regione. Così l‘imperatore vedrà, lui che non mi volle a Roma, di quale maestrìa sono capace». Il funzionario degradato a mozzo non parlò mai più.
E quel topo di campagna sarà là con il suo computerino portatile a scrivere aggrappato a un pontile, a bordo di un meraviglioso barcone: placido, il Naviglio, ispirerà ben altre storie e poesia di un modesto, arrugginito e puzzolente binario… morto.

Signor Vargas Llosa mi perdoni

Un premio Nobel non si discute, lo si dovrebbe solo citare: “La letteratura è impegno, non intrattenimento”, ha detto Mario Vargas Llosa in una recente apparizione in Italia. Ha ribadito un cardine del suo pensiero. Tuttavia, visto da una carrozza viaggiatori intrisa di sporco, l’impegno è qualcosa di più complicato. Innanzitutto, per un topo di campagna, il primo impegno in letteratura è economico: infatti, non c’è uno straccio di editore che sia pronto a scommettere su un roditore pendolare, a meno che questi non sia disposto a pagare di tasca propria. La dice facile, Vargas Llosa, ma qui in basso, l’impegno ha ben altro sapore. Basta uscire dai salotti snob e dai talk show, per essere scrittore impegnato? No e non basta nemmeno scrivere dalle trincee di chissà quale periferia degradata.
Bisognerebbe prima cominciare a pubblicare… E il virtuale, purtroppo, è troppo evanescente, impalpabile. Lo sanno bene certi pendolari tutta ferraglia e tatuaggi, con bombolette e pennarelli, così come insegnano i grandi saggi della narrativa contemporanea… Chi? Scrittori impegnati? No, bensì writer da toilette, quelli che intrattengono il lettore nei momenti più intimi, con poesie, aforismi, massime impresse e pubblicate sulle pareti più luride di Milano (e non solo).
Che illusione, allora, la vita quotidiana di un topo di campagna in cerca di mecenati. Un pendolare roditore che vuol fare lo scrittore: non ha via di scampo, caro signor Vargas Llosa, se non premunendosi di pennarello indelebile. Come l’anonimo poeta che, sul finestrino di un interregionale con capolinea Domodossola, ha scritto e sottopone a lettura quotidiana il suo componimento: “Avvicinati, dai, avvicinati, ancora un po’, di più….. Ora appiccica la fronte perché se ti frena il treno ti pigli ‘na craniata”.
Ognuno ha il salotto che si può permettere, ogni salotto ha i propri scrittori impegnati.