Nei post precedenti vi ho detto che il Senegal vive principalmente di pesca. Durante il mio mese a Dakar sono andato a visitare il secondo porto del Paese, Joal-Fadiouth. Si tratta di una cittadina a 5 ore a sud di Dakar, meta anche di molti turisti. Questo perchè Joal si trova vicinissima all’isola di Fadiouth, un piccolo angolo di paradiso completamente ricoperto da conchiglie bianche in mezzo ad una rigogliosa laguna.
Ma la nostra “missione” non era certo quella di visitare i negozietti sull’isola o di fare un giro in piroga per la placida laguna. Il nostro obiettivo era andare là dove nessun turista si addentrerebbe mai: il mercato del pesce. A Joal, infatti, eravamo in “servizio” per il CESES, la Ong che ci ha ospitato in Senegal, per effettuare un reportage tra le donne di un’associazione che sarà presto oggetto di un progetto di cooperazione. Oggi però non voglio parlarvi di questo progetto -ancora da definire nei dettagli- ma di quello che ho visto nel secondo porto del Senegal.
Partiamo dalla pesca. In Senegal non ci sono grossi pescherecci come quelli che siamo abituati vedere solcare i nostri mari. I pesci vengono catturati da coloratissime piroghe di legno che solcano le impetuose onde dell’Atlantico. Una volta riempita la barca di pescato, le piroghe tornano a riva. Di porti non c’è traccia. Le imbarcazioni ormeggiano alla fonda, poco lontani dalle rive della spiaggia che brulica di persone. Inizia così una lenta processione di uomini che, indossando una cerata, si immergono nelle acque, arrivano fino alle sponde delle barche dove ricevono una cassa di pesce. Tenendola sulla testa ritornano a riva e portano il pesce a destinazione. Alcune casse vengono scaricate direttamente sulla sabbia mentre altre sono portate al mercato, qualche decina di metri più indietro.
Nel mercato il pesce viene “malamente” scaricato sul cemento bagnato che fa da pavimento. Vengono organizzati diversi cumuli di pesce in base alla barca di provenienza e al tipo e attorno ad ogni pigna si affollano i compratori. Questi ultimi scelgono il pesce che desiderano acquistare e poi un’altra serie di uomini si occupa del carico sui camion. Il pesce viene raccolto in altre ceste, coperto di ghiaccio e portato ai camion frigoriferi che aspettano schierati su un lato della struttura. Una volta caricati partono verso le fabbriche di lavorazione. E oltre ai grossi mercanti ci sono anche le donne che vengono a comprare piccole quantità di pesce.
L’odore di pesce marcio penetra fin dentro i polmoni, pozze di acqua stagnante segnano la strada per arrivare al mercato e il pavimento su cui vengono scaricati i pesci non brilla per pulizia. Ma se le realtà del mercato può colpire, non è nulla in confronto al luogo dove il pesce viene affumicato. Noi siamo andati lì non per masochismo ma per il reportage per l’associazione e quello che ho visto è incredibile.
Il colpo d’occhio è incredibile. Tutti i numerosi banchi e forni sono immersi nei rifiuti. La discarica della città è tutt’attorno a tavoli pieni di pesce -sopratutto sardine- che verranno venduti sul mercato internazionale (solo africano, non temete). Con grande disinvoltura le donne, piegate su lunghi forni, mostrano come si prepara il pesce per il processo di affumicazione e poco importa se il pesce è gettato a terra, vicinissimo al pattume e con un maiale grosso come un vitello (giuro che era enorme!) che si aggira famelico tra i forni. Una volta “cotto a puntino”, il pesce viene preso, spezzettato in piccole parti e deposto su lunghe tavolate al sole per essiccare. E se qualche gabbiano decidesse di fermarsi a banchettare su quei tavoli, nulla glielo impedirebbe (e infatti è quello che accade regolarmente).
Girando per quei luoghi mi sono posto una domanda: è giusto cercare di cambiare queste abitudini? E la risposta che mi sono dato è sì. E non è un “sì” dato per etnocentrismo, per mire colonizzatrici, per paternalismo o dato guardando dall’alto in basso gli africani. E’ un “sì” dettato dalla volontà di aiutare un popolo a migliorare le sue condizioni. Noi occidentali disponiamo di conoscenze che una donna nata e cresciuta in un villaggio a 100 km da Dakar non può avere e non è per niente arrogante o etnocentrico il condividere i nostri saperi. Non è un caso che l’aspettativa di vita di un africano sia nettamente inferiore alla nostra.
Questo mio pensiero ha trovato conferma in una delle prime cose che le donne di Joal ci hanno detto: «abbiamo bisogno di formazione». E se tutto andrà bene, grazie al CESES un centinaio di loro verrà formato nelle migliori scuole di pescatori italiane per poi trasmettere le loro conoscenze alle compagne in patria. Vi terrò informati su questo progetto e, a breve, vi farò sapere i modi con i quali potrete sostenerlo.
Marco