Il silenzio di Hebron

Hebron e’ una citta’ della zona meridionale della West Bank della Cisgiordania, a 30 chilmetri a sud da Gerusalemme. Risalta sin da subito il fatto di quanto sia silenzosa, di come la gente utilizzi un tono di voce stranamente piu’ moderato rispetto a quello che sino ad ora sono stato abituato, camminando per le vie del mercato arabo della Citta’ vecchia a Gerusalemme, dove i mercanti,ma non solo sanno cosa voglia significare “farsi sentire”.
E’ una citta’ diversa dalle altre, dove i palestinesi sono costretti ad una convivenza forzata, dettata dall’uso delle armi da parte dell’esercito israeliano, dalle intimidazioni che subiscono. I coloni israeliani ebrei si sono impossesati del centro storico di Hebron,dove esistono le tombe di alcuni patriarchi e matrairche biblici. Hanno cacciato centinaia di famiglie palestinesi dalle proprie case, li hanno costretti a vivere nella paura, nella sofferenza fisica e psicologica. E’ disumana la meniera in cui sono trattati giorno dopo giorno. A tre metri d’ altezza dal suolo sono state poste delle reti in ferro, cosi’ che l’immondizia ed enormi massi di pietra e cemento gettati dall’alto, dalle finestre delle case che ora sono, per legge, di proprieta’ dei coloni ebrei, non finiscano per le strade e sulle teste dei palestinesi che le percorrono quotidianamente. Camminare per le strade di Hebron da l’impressione di essere in gabbia, di non respirare l’aria che si respira in qualsiasi altro luogo, di non poter alzare lo sguardo al cielo e vederlo in tutta la sua nitida limpidezza, come sarebbe di diritto per ciascun essere umano. E’ una gabbia umana a tutti gli effetti.
Ibrahim,un ragazzo conosciuto per caso al mercato, ci ha portato in casa di Abed dove quest’ ultimo ci ha raccontato la sua esperienza e del proiettile che ancora e’ conficcato nel petto vicino al cuore, dovei medici non possono estrarlo, dopo che l’esercito ha fatto irruzione in casa sua intimandolo di uscire, di abbandonarla con tutta la sua famiglia, la moglie e i bambini piccoli. Abed ed Inbrahim si sono resi disponibili a farci da guida per spiegarci come si vive nel quartiere palestinese e come gli ebrei israeliani sono padroni di un intero quartiere, al quale a loro e’ severamente vietato l’ingresso. Sulle porte e sui muri di una scuola maschile e femminile palestinese (chiamarla scuola e’ un eufemismo), alcuni gruppi ultranazionalisti israeliani hanno lasciato la scritta ” gassiamo gli arabi!”. Vengono i brividi al solo pensiero di cio’ che sto raccontando, di quella che e’ stata la storia che ogni libro scolastico riporta con tanto sdegno e di come milioni di ebrei sono stati uccisi nei campi di concentramento durante l’ olocausto nazista.
Ma Hebron e’ anche il volto di alcuni bambini che, spensieratamente, ci coinvolgono con i loro sorrisi, con la loro tanto interminabile quanto instancabile voglia di giocare, di divertirsi, anche se a pochi metri di distanza c’e’ un posto di blocco presediato da soldati armati che non si fanno molti problemi a puntare un fucile o un mitra contro qualunque palestinese. Proprio durante il gioco, durante le risate,in prossimita’ della sacra moschea musulmana di Abramo, seduti tutti insieme sulla panchina di una fermata del bus, dove abbiamo sostato per un attimo per ripararci dal sole cocente, i soldati israeliani, infastidi dalla nostra complicita’ con i bambini, si sono avvicinati a noi dicendo, stendando un pessimo inglese :” Qui, questi bambini non possono stare, non possono sedersi! . E’ solamente per gli ebrei. Alzatevi ! “La mia indignazione e quella di tutti i miei compagni di viaggio si e’ fatta grande al solo sentire pronunciare queste parole, cariche di odio, di un sentimento fortemente razzista il quale priva i bambini – chiaramente non solo i bambibi ma anche madri, padri di famiglia e anziani – del loro sacrosanto dritto umano di vivere liberi, di rincorrersi, di urlare, di spostarsi con tranquillita’, senzala paura che un soldato possa da un momento all’altro ammutolirli con la violenza delle armi. Si respira odio nell’aria, e ci se ne accorge quando un soldato ci ha consigliato di stare il piu’ possibile distanti dai bambini palestinesi, perche’, a detta sua, sono “pazzi”, perche’ hanno “qualcosa che non va” nella loro testa per natura. Io e miei compagni questa pazzia non l’abbiamo francamente notata e tantomeno ci importava poco di notarla, perche’ quello che abbiamo da subito visto in principal modo, sono i loro occhi, quegli occhi scuri che penetrano nei tuoi fino a toccarti il cuore e sentirti uno di loro. Il loro sorriso e’ stato un dono che, in un luogo che dovrebbe essere sacro e religioso per definizione e storia, ha trasmesso gioia e serenita’ a tutti noi.
Questa e’ Hebron, la citta’ silenziosa, la citta’ che non parla molto con il linguaggio,ma con gli occhi dei bambini,con il sorriso che sorge sui loro volti, ancora troppo piccini per poter essere costretti ad assistere a questo apartheid, al quale purtroppo sono abituati da tempo ormai, da generazioni precedenti. E’il sorriso delle donne che, capito il motivo della nostra presenza, sorridevano e ci facevano video con i cellulari durante il gioco con i bambini avvenuto nella santa moschea. Questo e’ cio’ che accade ad Hebron.
Free Palestine