Alcuni palestinesi ed internazionali si ritrovano a Bil’in in occasione delle proteste del venerdi’ per combattere l’esistenza dl muro israeliano

Ogni venerdi’ a Bil’in, un paesino a pochi minuti di strada dalla citta’ di Ramallah, sono anni ormai in cui vengono organizzate delle manifestazioni per protestare contro il muro eretto da Israele, per rivendicare il diritto di poter calpestare e riottenere la propria terra in barba alle insaziabili violenze gratuite commesse dai soldati e all’altrettanto compiaciuta quanto appagata sensazione di indifferenza dei coloni che impassibili, come se fossero spettatori paganti di uno spettacolo teatrale organizzato appositamente per loro, per il loro divertimento, rimangono a guardare cio’ che accade, in silenziosa disparte.                                                                                                                      Le proteste iniziano sempre dopo pranzo, verso l’una e mezza circa; in quest’occasione la folla si e’ radunata di fronte alla sede principale, luogo d’incontro per attivisti palestinesi e internazionali, muniti di slogan di protesta, di bandiere della palestina, del fronte popolare palestinese e alcune in particolare con l’immagine di una foto di Marwan Barghuthi, una delle figure piu’ riconociute del movimento di resistenza per la liberzione della palestina dall’assedio di Israele, capo politico e militare, arrestato nel 2002, imprgionato nelle carceri israeliane e condannao a cinque ergastoli.                                                                                                       La manifestazione muove i primi passi lungo la strada che affaccia alla sede. Si intonano dei cori, si urla : ” One, two, trhee, four, occupation no more! Five, six, seven, eight, Israel fascist state!”. Avanti al gruppo, un uomo palestinese guida la marcia verso il muro con un megafono sempre vicino alla propria bocca. Lo scenario paesaggistico che fa da sfondo a questo quadro e’ bellissimo, la terra arida delle colline si mischia al colore verde delle foglie degli ulivi secolari, testimoni di mille battaglie, di mille proteste per la liberta’ di un popolo ormai sfinito da questi lunghissimi, interminabili anni di sofferenza, di segregazione dal mondo, di rabbia e tristezza accumulata nel tempo, di apartheid.

Nell’aria e’ possibile respirare l’energia che viene sprigionta dalle motivazioni dei partecipanti, un’energia che alza la sabbia da terra ad ogni passo mosso, che permette di arrivare al muro, faccia a faccia con i soldati israeliani che lo controllano, protetti dall’ elmetto che indossano dietro all’estesa parete di cemento dietro alla quale stanno ben barricati, sicuri di avere il famoso coltello dalla parte del manico. Difronte al muro, sempre lo stesso uomo con il megafono continua instancabilmente a parlare, sottolinea con parole forti il diritto di poter camminare pacificamente sulla propria terra, assicura che nulla puo’ accadere finche’ non si varchera’ il confine segnato dalla presenza del filo spinato che anticipa di qualche metro il muro. “This is our land! Don’t be afraid!” grida al megafono, invitava le persone a camminare lungo il perimetro tracciato dal filo spinato perche’ “non si deve avere alcun timore”, non si deve avere paura di camminare per casa propria. La manifestazione, una volta stazionatasi in un punto preciso, di fronte al muro e ai soldati, che minacciosi intimidiscono di spararci gas lacrimogeni contro se non si fosse deciso di lasciar perdere tutto quanto, non cede a compromessi ne’ a minacce. Una volta capito che le loro richieste non hanno alcuna risonanza tra la folla di manifestanti, non passa molto tempo prima di vedere la prima gettata di gas lacrimogeni, sparati codardemente ad altezza d’uomo, che in poco tempo una volta toccata terra esplodono e diffondono nell’aria circosante il gas nocivo, costringono tutti a retreggiare affannosamente, intossicano, stordiscono e copromettono le percezioni, irritano fastidiosamente la pelle. La manifestazione prosegue e nuovi spari di gas lacrimogeni vengono effettuati, sempre mirati ad altezza d’uomo, cosi’ da aumentare la probabilita’ che se non si stesse male per l’inalazione forzata nei polmoni delle sotanze chimiche tossiche dei gas (nella peggiore delle ipotesi si muore asfissiati dall’intossicazione -come e’ successo a una ragazza palestinese nel corso di una manifestazione svoltasi in passato, intrappolata  nella nube di gas-), si puo’ sempre morire perche’ colpiti dalle munizioni che possono raggiungere ed impattare molto violentemente in mezzo al petto, o provocare danni irreparabili alla salute, come la perdita di un arto ad esempio, se colpiscono il corpo in qualche altro punto. L’agitazione che sorge nel bel mezzo degli spari dei gas lacrimogeni viene subito superata e sostituata (una volta che l’aria circostante ritorna respirabile), dalla voglia di riprovare, di non mollare la causa con tanta fragilita’, come i soldati israliani vorrebbero invece che accadesse.

…Un compagno si e’ trovato nella situazione di dover caricarsi sulle spalle un uomo che correndo si era probabilmente slogato seriamente un ginocchio, cosi’ che i numerosi effetti collaterali a cui eravamo tutti esposti hanno avuto un impatto maggiore nel caso delle sue condizioni, affaticandolo doppiamente nello sforzo di dover correre e respirare quella merda con un peso non indifferente che lo rallentava. Fortementemente provato dall’ accaduto, bisogna riconoscere un grande atto di coraggio, di rischio a fin di bene, per aiutare una persona in quel momento in difficolta’, per soccorrerla ed evitarle dieci brutti minuti di implacabile sofferenza verso la quale avrebbe potuto fare ben poco o nulla nelle condizioni in cui si trovava . Il suo nome e’ Roberto Di Maio, un esempio di sana moralita’ per chiunque in quel momento.

La manifetazione giunge al termine dopo un’ora e mezza circa, o poco piu’. Tutti si incamminano per ripercorrere la stessa strada dell’andata, cosi’ da poter andare a riposarsi e soprattutto bere acqua ghiacciata per reidratarsi dopo l’enorme quantita’ di liquidi corporei gettati in sudore, a causa del sole che, scottante come sempre, sfianca di certo.

Una volta finita la protesta, il muro rimane sempre li’, a determinare il confine, i soldati israeliani pure, a controllarlo con le loro armi. Un altro venerdi’ di protesta a Bel’in e’ passato ma non sara’ l’ultimo, perche’ la causa verso la quale si combatte(senza armi) non guarda date di calendario ne’ tantomeno le lancette degli orologi.

Free Palestine