Quella brutta fortuna

Stufo di fissare la parete della mia stanza sono uscito.

La mezza vecchia, così mi va di additarla, scendeva faticosamente i gradini del soprapassaggio della stazione di Shimokitazawa.
I capelli arruffati, di un grigio spento, la riga di lato e l’eccesso di sebo, come rami colpiti dal vento.
Una gonna troppo lunga per le sue gambe, toccava quasi i gradini. Aggiungeva un tocco di mestizia al suo incedere affannoso.
Un gradino per volta, passo dopo passo, incerto, ma senza sorreggersi al corrimano.
Il volto segnato dagli anni, le linee della fronte che raccontano molto, ma poco di lieto, e quegli occhi scuri che guizzano indagatori, scrutando la mia barba folta, la mia figura.
Un rumore improbabile tra le sue labbra, credo parole.

Attorno Shimokitazawa brulica di teen-agers, di indies che cantano le loro canzoni insignificanti e stupende.
La vecchia, e i suoi sessant’annieoltre probabili portati molto male, si mescolano nel colore, che li avvolge. Che li occulta, abbracciandoli.
Mi piace pensare che nel non vederla più il colore l’abbia presa. Ringiovanita, e con un sorriso nuovo ed ingenuo.
L’ingenuità, quel grande lusso, il primo ad andare perso. E, invano, per il resto della vita senziente cerchiamo di riempirne il vuoto. Con gli oggetti, coi colori.
Con i sentimenti che vogliamo illuderci discernere così a fondo, solo per non accorgerci che.

Io. In piedi davanti alle scale dell’uscita sud.
Mina nelle cuffie mi distoglie dal fiume di gyaru.
“Io e te da soli”. Sembra così ovvio.

L’attesa, e poi.