Ammetto di non essere l’italiano più comune.
Del calcio non mi è mai importato nulla. O meglio, il calcio esiste su un piano diverso da quello su cui io mi sposto, e non abbiamo molte occasioni per incrociare le nostre strade. Ciascuno prosegue seguendo il proprio tracciato abbastanza incurante dell’altro.
Con questo come postulato, ricordo che ancora stordito dalle novità (nel paese che avevo solo conosciuto sui libri fino a pochi giorni prima), suscitavano in me una sottile ilarità le richieste, abbastanza frequenti, dall’uno e dall’altro “amico” giapponese appena conosciuto.
– Italiano?!? Allora che squadra tifi? – spesso nella mia lingua. O spesso in un giapponese ostentatamente semplicistico per strapparmi una risposta con dolcezza.
– Ah, mi dispiace. Sono un italiano strano, non mi interessa il calcio. – Sgomento o espressioni divertite.
In fondo noi siamo tra le nazioni che in Capitan Tsubasa – da noi meglio noto come Holli e Benji – fanno del calcio il loro vanto e orgoglio. Ma analizzare a fondo questo punto richiederebbe una lunghissima digressione su come i giapponesi si creino spesso idee estremamente stereotipate e veicolate del mondo fuori (“estero” in giapponese si scrive con i caratteri di “paesi fuori” -dall’arcipelago giapponese, ovviamente) , cullati e viziati dalla loro informazione ansiolitica, immersi nella loro bambagia consumistica.
Per molti l’Italia è IL calcio. Soprattutto lo è stata in maniera schiacciante fino allo sviluppo avanzato del calcio autoctono dopo quello che motli hanno definito un nouvo boom dello sport in questione negli anni post-World Cup 2002.