Volevo prendere freddo. E anche: un processo kafkiano, parte uno.

Il condizionatore insistente, il getto d’aria troppo a lungo puntato addosso, e l’aria della stanza che diventa soffocante. Con la giacca aperta, il vento sottile si insinua sotto i vestiti, mentre vago senza meta precisa nei dintorni di casa.
Un onigiri (i “tramezzini” di riso giapponesi) al convenience-store sotto casa, tanto per.
La giacca aperta su una t-shirt un po’ lisa, sottili rivoli dagli occhi.

Un brivido fino alle ossa che rende i pensieri cristallini.

Tokyo cambia molto il suo aspetto allo scoccare della mezzanotte, o poco dopo.
Dopo l’ultima corsa, i pochi rimasti (spesso ubriachi nella maniera “sociale” tipicamente giapponese) che non possono o non vogliono pagare un taxi, nella civilissima Tokyo che quasi non sa cosa siano i borseggi e i furti, possono permettersi di cadere addormentati in un bar. O quando il clima lo permette, o quando l’ubriachezza non lascia altra soluzione,  sul ciglio della strada.
E se hanno la foruna di avere un amico lucido a portata di mano, questo spesso lo scosta dal vomito e dal centro della carreggiata, lo accudisce, gli mette la giacca addosso come coperta e aspetta insieme a lui il primo treno del mattino, verso le cinque.
Ormai ci ho fatto il callo, e scene del genere mi colpiscono meno dei primi mesi, ma di tanto in tanto provo a immaginare di addormentarmi a Milano sui navigli, in mezzo alla strada, e mi diverto con le possibile conseguenze.

Molti scelgono di addormentarsi nelle stazioni, che nella maggior parte dei casi sono riscaldate e aperte all-night, se non sono abbastanza fortunati da riuscire ad addormentarsi sull’ultimo treno.

La città è tappezzata di cartelli simili a questo.

manner200812_picC’è un cartello “PLEASE DO IT AT HOME” per quasi ogni comportamento considerato disdicevole per gli standard autoctoni.  La maggior parte ritrae fedelmente le scene in cui si imbatteranno i divertiti visitatori stranieri, a caccia di foto bizzarre da condividere con gli amici, mentre l’effetto sulle citate cattive abitudini è quantomeno opinabile.

Ma non voglio parlare di questo.

Finalmente mi imbatto in prima persona nel macchinoso, incomprensibile, deleterio sistema sanitario (pubblico???) giapponese.

Un briciolo di sfortuna, e sono costretto a cercare assistenza medica. Dopo l’arrivo, si ha l’obbligo, se non si è visitatori temporanei, di iscriversi all’anagrafe sanitaria nazionale entro 14 giorni presso la circoscrizione di appartenenza, a meno di non essere in possesso di una assicurazione sanitaria privata.

Quello che sono riuscito a capire è che in pratica il servizio sanitario giapponese copre parzialmente le spese sostenute dal cittadino, che avvengono presso strutture che sono nel 90% dei casi private o privatizzate.

In quanto (praticamente) nullatenente, pago la quota minima, circa 150 euro per un anno di copertura, che mi assicureranno una copertura delle spese del 70%, ma il meccanismo è fatto a scatole cinesi, così come i caratteri infiniti sugli incartamenti che a suo tempo avevo compilato.

Tokyo è costellata di piccolissime cliniche private, ma per il tipo di assistenza di cui ho bisogno mi serve uno specialista.

Decido di andare al Saint Luke, il più grande ospedale internazionale di Tokyo, su consiglio di un amico. Per quanto il mio giapponese sia migliorato molto durante questi primi sei mesi, ritengo di non essere ancora all’altezza di certe sfere.
Il fatto che l’ospedale “internazionale” pubblicizzi sul suo sito un servizio di interpretariato a pagamento per i pazienti stranieri non lascia intendere troppo di buono.

Traduzione dal giapponese, per motivi di comprensibilità al vasto pubblico 🙂

-Pronto

-Pronto. Buongiorno, avrei bisogno di assistenza medica. Parlo giapponese ma non perfettamente, lei parla inglese?

-A littoru. A littl…. Moushiwake gozaimasen, sukosi dake hanaserundeskedo..

La gentile addetta si scusa diverse, innumerevoli volte, e mi passa una collega che dovrebbe parlare l’inglese molto bene.

Di inglese nemmeno l’ombra, ma un ottimo keigo (il sistema di linguaggio onorifico estremamente difficile anche per i giapponesi stessi) abbandono ogni speranza e passo al giapponese, dizionario alla mano, non si sa mai.
Scopro che per essere ammessi alla visita preliminare bisogna pagare circa 50euro, una tassa istituita per non allontanare i “potenziali clienti” dalle piccole cliniche, in favore degli ospedali più grandi.

In parole povere, se l’ospedale dove vuoi andare è troppo specializzato e potresti cercare una piccola clinica da qualche parte a cui non è giusto sottrarre il pane, ti punisco per eccesso di zelo.
sul momento mi pare una follia ma acconsento.

Un rapido flash-forward.

Il medico mi riceve, dopo innumerevoli incartamenti costellati di keigo e sorrisi da etichetta.

Mi guarda per 30 secondi, prima di dirmi che cancella la mia visita, il mio caso non è coperto dalla mia assicurazione sanitaria nazionale, e nel loro ospedale non mi tratteranno.

Mi consiglia di rivolgermi “privatamente” a una struttura privata.

Fine della parte uno.

5 pensieri su “Volevo prendere freddo. E anche: un processo kafkiano, parte uno.

  1. Intanto devo dire che ti invidio, e tanto. Poi volevo dire che quando sono stato a Tokyo, la primavera scorsa, la metropolitana era piena di cartelli come quello che hai mostrato, cartelli che invitavano a non disturbare con il telefonino o con altri atteggiamenti (so che vengono cambiati ogni tanto), ma non ho mai visto nessuno che si comportasse come i protagonisti delle vignette, tanto che ho pensato fossero inutili: malgrado tutto ho ricavato l’impressione di persone molto attente a non disturbare il prossimo. Ed anche per questo ti invidio, visto che vivo in Italia!

  2. @ Luciano & Nando: se continua cosi’ la parte due non ci sarà mai perché spesso i sistemi macchinosi del giappone mi fanno mancare le forze e mi fanno credere di essere in grado di sopportare ancora un pò di mesi… (damn!)

    @ PG: grazie dell’interesse e dell'”invidia”.
    Venire in Giappone è stata una scelta consapevole per depurarmi da molti gioghi mentali, e dal punto di vista interiore si sta rivelando una delle idee migliori che ho avuto. Le mie idee si fanno sempre più distinte e tangibili, rispetto all’inconsistente nebbia problematica del “prima”.
    Verissimo quello che dici dei cartelli, alcuni sono l’esatta rappresentazione di quello che facciamo quasi solo noi stranieri, mentre i giapponesi sono forse anche troppo ligi alle regole.
    Alcuni come quello del bere perdono valore in maniera direttamente proporzionale all’avvicinarsi a certi quartieri o a certe fasce orarie 🙂

    Peccato, per certi versi, che a fine giugno mi scada il visto e per un po’ torni in Italia…

  3. Sto cercando di organizzare il mio secondo viaggio in Giappone, soldi permettendo. L’invidia era dovuta al fatto che, se per qualcuno esiste il mal d’Africa, io ho contratto il mal del Giappone. Nutrito da letture di Mishima, Murakami ed altri. E da una stupenda fioritura di ciliegi lo scorso anno, che ho cercato di vivere nel modo più giapponese possibile, incluso pick nick al parco Ueno.
    Capisco lo sconforto per alcuni modi giapponesi (il linguaggio “di cortesia”, ma inconcludente; le difficoltà a trovarti qualcuno che ti curi, e così via), ma chi come me viene da turista non può che immaginare che il resto sia bello e che si viva bene: non ho mai avuto paura di perdermi a Tokyo, mentre prima di partire dall’Italia era il mio primo timore; ho girato di notte, e all’alba (al mercato del pesce) con un sacco di soldi in contanti, senza avere mai il timore di essere imbrogliato o derubato. Mi sono sentito sicuro, ma ho sempre avuto la sensazione di non riuscire ad entrare nel Giappone di tutti i giorni. E’ per questo che vorrei tornarci.
    I miei migliori auguri, PG.

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