Città di transizione: che difficile transizione in Italia!

Le “transition town” (città di transizione) sono una realtà nel mondo che conta circa 1500 città. Si tratta di popolazioni e amministratori che hanno fatto una scelta coraggiosa di cambiare dal basso lo stile di vita, la mobilità, la produzione del cibo, la costruzione delle casa, la socialità, per far fronte alle problematiche dei combustibili fossili e prepararsi all’epoca in cui il petrolio finirà andando oltre il problema delle emissioni, ma ripensando il concetto di una comunità di persone che vive insieme. 
Nasce in Inghilterra a Totnes da un’idea di Rob Hopkins, ambientalista esperto di permacultura. Così, dopo aver visto il documentario “Domani” del regista francese Cyril Dion, mi sono documentato e poi sono partito per l’Olanda a Nijmegen, capitale delle transition town per il 2018 e ho visto cose che mi hanno affascinato e che mi hanno fatto riflettere su come il cambiamento può avvenire dal basso, dalla semplice volontà politica di amministratori che incrociano la sensibilità dei cittadini.

Nella recente conferenza di presentazione del suo libro “L’utopia sostenibile” Enrico Giovannini rifletteva sulla necessità del cambiamento guidato dalle élite politiche e imprenditoriali, dall’opera di educazione nelle scuole e nel cambio di mentalità che deve avvenire. Tutte idee molto condivisibili ma la realtà del turbo-capitalismo è ancora molto forte e dominante e l’immaginario diffuso è completamente colonizzato dal pensiero dominante sul possesso degli oggetti, sulla competizione per il profitto e sull’economia lineare che sfrutta le risorse e produce quantità enormi di rifiuti, guidato dagli interessi dello strapotere della finanza su qualsiasi dinamica politico-economica. Il processo di decolonizzazione dell’immaginario capitalistico è molto più lento di quanto il disastro ambientale stia progredendo. Per questa ragione la soluzione dal basso delle città di transizione sembra rappresentare una grande opportunità che coinvolge cittadini e amministratori di buona volontà e rappresenta una soluzione che può crescere lentamente.
Di cosa si tratta in sostanza? Le idee sono semplici e di facile applicazione:

  • Ri-progettare quartieri e recuperare immobili con bio-edilizia che permetta case a basso impatto energetico e che siano autonome nel riscaldamento e raffreddamento e costruite con materiale bio come legno, fibre naturali, paglia, canapa, sughero, vetro riciclato, etc.
  • Produzione di cibo locale attraverso gli orti cittadini progettati seguendo la logica della permacultura (permanent agricolture).
  • Repair cafè dove esperti di tecnologia mettono alcune ore a disposizione per coloro che hanno bisogno di riparare oggetti elettronici o elettrodomestici.
  • Utilizzo degli spazi verdi per piantare aromi, essenze e frutta in città.
  • Ripensare la mobilità attraverso l’uso di biciclette normali ed elettriche, con la realizzazione di piste ciclabili estese.
  • Incentivazione di micro fattorie per la produzione locale di cibo a km 0.
  • Gruppi di acquisto
  • Incremento di fonti di produzione energetica rinnovabili
  • Corsi di educazione alla vita civica e al consumo “intelligente”
  • Sensibilizzazione ai limiti del modello di sviluppo attuale e costruzione di un immaginario alternativo sul modello di crescita e sviluppo delle città.

Questo elenco è solo un esempio di tutto ciò che una comunità può fare per attivare il cambiamento dal basso che porta con sé nell’immediato benessere sia all’ambiente ma soprattutto alle persone che scoprono che una miglior vita di relazione e un miglior rapporto tra persone e ambiente giova a tutti e cambia le coordinate del vivere sociale oltre che la geografia dei luoghi che abitiamo che di colpo si animano;  poiché un’aiuola non è più un’aiuola ma un luogo di collaborazione per far crescere il rosmarino o i lamponi e questo fa molto meglio alle persone di molti sonniferi e antidepressivi.

La progettazione di spazi urbani e l’idea di socialità.

Nel suo libro “I bisogni degli altri” M. Ignatieff dice che quello che non si sa vedere, non lo si può dire e quindi non lo si può rivendicare. Prima serve definire i bisogni delle persone, poi elaborare un linguaggio per poterne parlare e infine la politica dovrebbe saper intervenire su tali bisogni. Ma quali sono i bisogni fondamentali delle persone? Perché la politica non parla di questioni che sono prioritarie per le persone?città1
I bisogni fondamentali sono quelli di socialità, di solidarietà, di vicinanza, affetto, reciprocità, i bisogni che hanno a che fare con la sfera più profonda di noi stessi quella legata alla dimensione dell’identificazione al gruppo, alla famiglia, al vicinato, al quartiere, agli altri, al prossimo. Ma lo strapotere del principio “interesse” ha spazzato via questi aspetti dalla vita della politica per lasciare spazio solo alle spinte di interesse tra costruttori e speculatori, affaristi e furbi, agenzie immobiliari e commercianti scaltri oltre ai furbi di ogni sorta. Domina la logica economica degli interessi e del profitto e si instaura di conseguenza una gerarchia di potenza. Chi ha mezzi fa pressione sulle gerarchie decisionali e diviene protagonista della progettualità urbana.
Gli spazi urbani cominciano ad assomigliare alle dinamiche degli interessi: prevalgono i problemi di infrastrutture, viabilità, ci si occupa delle industrie, della rete commerciale, la grande distribuzione diviene il nuovo luogo della liturgia dei consumi, come vera forma nuova di socialità contemporanea. Si diradano fino a scomparire gli spazi gratuiti, le piazze, gli arredi urbani, i luoghi di socialità, i percorsi verdi, l’acqua, le terrazze, gli alberi, i bar, le zone pedonali. E le città moderne si deformano fino a diventare luoghi invivibili e brutti. Si pensi al contrario a cosa è stata la Parigi capitale del XIX secolo come la racconta Walter Benjamin…..Città 2
Oggi la gente si rifugia nei centri commerciali anche di fronte alla mancanza di offerte alternative.
La logica dell’interesse privato si sostituisce a quella della progettualità dello spazio pubblico, pensato, gestito e ideato dal sistema pubblico, per la cittadinanza pensata nel suo insieme. E chi può superare questa impasse se non la politica? Solo coloro che gestiscono la cosa pubblica e che hanno il respiro di una visione dall’alto del bene collettivo. Per questo la politica dovrebbe ritrovare l’autonomia della decisione dai poteri economici e imporre la sua visione della città, come luogo della vivibilità, dello scambio, dello stare insieme a condividere esperienze in luoghi gradevoli, consumando cultura piuttosto che oggetti, facendo esperienza di luoghi e costruzioni che esprimono la genialità e la creatività di architetti e ingegneri che hanno ascoltato poeti e sociologi così da ripensare lo spazio Città3pubblico in modo più umano e funzionale a crescere cittadini migliori. Ancora un’utopia?