Ho letto molti articoli interessanti sul fatto che sia “la normalità” che abbiamo lasciato ad essere un problema, sul fatto che vi sia un legame stretto fra la violenza che l’uomo fa all’ecosistema e il diretto legame con l’humus in cui i virus nascono, sul fatto che la globalizzazione sia il contesto in cui il virus ha preso il largo e ha contagiato l’intero pianeta. Però pochi hanno fatto notare il fatto che in realtà ben altro virus di fatto è da tempo dentro di noi. E non mi riferisco al Covid 19 ma alle ragioni che lo hanno causato e diffuso.
Il modello di sviluppo che domina la maggior parte del pianeta è proprio quello del capitalismo liberista fondato sull’accumulazione del capitale, sulla deregulation, sullo strapotere delle multinazionali e sulla debolezza delle leadership politiche. Ne sono una prova i tragici scivoloni compiuti da Trump, Macron, Boris Johson, Bolsonaro, Kjell Stefan Löfven, e la cattiva fede di Orban. Tutti questi leader hanno sbagliato, non per incompetenza, ma per essere stati supini rispetto agli interessi economici e ai gruppi industriali del loro paese. La paura di una recessione interna, di perdita di competitività internazionale li ha spinti a prendere i rischi le cui conseguenze oggi contiamo in termini di morti. Se avessimo avuto Renzi come primo ministro, sarebbe stata la stessa identica cosa. La politica infatti – da tempo – non riesce a governare né l’economia e tanto meno la finanza e si ritrova ad obbedire alle logiche dei grandi interessi. Ma tutto ciò accade perché siamo noi i primi a volerlo. Noi tutti (o quasi) abbiamo abbracciato la “fede” del liberismo economico come unico modello di organizzazione della vita e non riusciamo più a vedere che ci sono delle alternative, perché il confort, il benessere raggiunto, la facilità con la quale otteniamo le cose che desideriamo, la velocità con cui giriamo e visitiamo il mondo, la quantità di oggetti di cui ci circondiamo, le ascriviamo soltanto a questo modello economico. L’alternativa, ahimè, nell’immaginario collettivo è il sepolto e vetusto comunismo; “tertium non datur” e quindi non c’è spazio neanche per poter pensare ad “un altro modello”, per ragionare di scenari mondiali alternativi. Eppure tali scenari sono già presenti e consolidati – sebbene in nicchie nascoste – ma restano marginali nella rappresentazione collettiva proprio perché il nostro immaginario è stato colonizzato e conquistato una volta per tutte. Il virus del capitalismo liberista predatorio e competitivo si è insediato profondamente fin dentro la “casalinga di Voghera” che ne rappresenta l’universo mondo. Non c’è verso di sradicarlo. La produzione di cibo non può essere delegata ai grandi gruppi industriali che usano concimi chimici, manipolazioni genetiche e creazione di grani usa e getta, oppure ai grandi allevatori in batteria di animali cresciuti in modo indegno per una creatura, imbottiti di antibiotici e medicine per evitarne malattie. L’energia non può più – e già da tempo – essere prodotta con combustibili fossili o con il nucleare eppure poco si muove anche in questo settore. La mobilità delle persone non può continuare ad essere legata alle auto e agli aerei, l’edilizia non può più continuare ad utilizzare miliardi di metri cubi di cemento
per consumare porzioni di territorio sempre più vaste.
La tecnologia moderna e una grande letteratura degli ultimi anni forniscono il “know how” per sostituire tutte queste forme “vecchie” con soluzioni innovative a basso impatto. Ma tutto ciò richiede una maturazione di mentalità, uno salto logico, una volontà politica sostenuta da cittadini che ne fanno richiesta a gran voce. Richiede soprattutto ripensare totalmente il nostro stile di vita. Non si tratta di tornare indietro di cent’anni, ovviamente, ma di rivedere molte delle abitudini che si sono stratificate. Il cibo deve essere prodotto localmente, anche attraverso le micro-fattorie e gli orti urbani, gli allevamenti devono essere sostenibili e gli animali trattati bene. L’edilizia deve sostituire il cemento con le fibre e materiali sostenibili, l’economia deve cominciare ad essere “circolare” e non più lineare: gli scarti di un’impresa possono quasi sempre essere risorsa per altre imprese. La mobilità deve essere collettiva, attraverso mezzi pubblici potenziati , e poi bici, auto, moto e bus elettrici, telelavoro, riduzione degli spostamenti, produzione di cibo non raffinato, consumo di prodotti alimentari a km 0. A fianco di ciò ci dovrebbe essere una presa d’atto che la retribuzione degli azionisti non può essere il faro che guida l’imprenditorialità. Qualcuno dovrebbe ammettere che la liberalizzazione dei prodotti finanziari detti “derivati”, sono una follia e hanno già messo in crisi l’intera economia del pianeta nel 2008 e qualcuno (la politica a livello internazionale) dovrebbe avere la forza di rivedere queste regole di liberalizzazione selvaggia.
Ma la domanda che si pone è: come si può avviare questa svolta epocale di fronte ai Trump, ai Bolsonaro, ai Macron e ai Johnson? Una timida risposta potrebbe essere: solo attraverso un costante e profondo lavoro educativo sulla necessità di una svolta radicale. Sensibilizzare e socializzare le persone a vedere che un modello alternativo esiste nonostante la potenza di fuoco che il capitale finanziario possiede e la sua efficacia nel raccontarci che questo è il mondo migliore e l’unico possibile. E la prova sta nel fatto che oggi un microscopico virus ha spezzato le gambe a tutti, anche ai grandi potentati economico-finanziari. Forse è il momento di vedere i nessi tra insorgenza del virus e i nostri stili di vita e avviare una profonda riflessione sul domani. Poiché è proprio la normalità che rappresenta il problema, quella normalità che ha prodotto questo disastro, e abbiamo quindi bisogno di una svolta radicale e profonda, abbiamo bisogno di una rivoluzione che sia prima di tutto nella capacità di immaginare le alternative possibili e poi nella capacità di realizzarle.
Nota a margine: quello che temo è che dopo questa pandemia e l’enorme disastro economico che porta con sé, ripartirà tutto esattamente come prima se non peggio perché si vorrà recuperare il terreno perduto. Eccolo il virus dentro di noi. Serve un vaccino immediato ma per questo vaccino non basterà certo un anno o un anno e mezzo come per il Covid 19.