l mostro neoliberista e il declino democratico

Il vero protagonista del declino della cultura democratica in Occidente è il liberismo, un’ideologia economica che pone il mercato al centro di ogni transazione sociale e politica. Questa visione riduce lo Stato al ruolo di semplice “gendarme”, delegittimando ogni suo intervento regolatore in favore di un apparente ordine naturale dettato dalle forze del mercato. Oggi, il liberismo è diventato la “normalità” in cui viviamo, un paradigma talmente radicato che ne percepiamo raramente la pervasività. Ha alterato profondamente il modo di pensare, agire e relazionarci, penetrando nella vita quotidiana e trasformando le dinamiche sociali.
Neo liberismo

Questo modello economico ha avuto un impatto devastante sulla sinistra politica, in Italia come nel resto d’Europa e del mondo. La crisi della social-democrazia si origina proprio dalla sua incapacità di opporsi alle logiche dell’ultra-liberismo quando è stata al governo. Di fronte alle pressioni della finanza globale, degli oligopoli e dei grandi centri di potere economico, la sinistra ha finito per adattarsi, rinunciando alla sua vocazione storica: regolamentare il mercato, redistribuire la ricchezza e garantire i servizi fondamentali come sanità, istruzione, tutela ambientale ed equità sociale.

Questo allineamento al capitalismo ha piegato l’ideologia social-democratica, lasciandole unicamente la difesa dei diritti civili. Seppur importanti, questi temi non bastano a colmare il vuoto lasciato dalla mancata attenzione ai bisogni economici e sociali delle persone. Il tradimento dei principi fondamentali della sinistra ha generato un disincanto profondo nell’elettorato, contribuendo a un’astensione dilagante. Quando quasi metà degli elettori sceglie di non votare, come dimostra il tasso di astensionismo vicino al 50%, è chiaro che il legame di fiducia tra cittadini e politica è stato spezzato.
Neo liberismo

Il liberismo non si è limitato a ridisegnare l’economia, ma ha sostituito le tradizionali liturgie sociali e religiose con nuove forme di aggregazione centrate sul consumo. I centri commerciali sono diventati le nuove “cattedrali” della vita sociale, luoghi dove si riversano intere famiglie nel fine settimana. Qui, sotto lo stesso tetto, si trovano cibo, abbigliamento, tecnologia, mobili e intrattenimento: una combinazione irresistibile che soddisfa il bisogno di consumo e quello di socialità. La piazza, un tempo cuore pulsante della vita comunitaria, è stata svuotata del suo significato, così come i circoli culturali o le celebrazioni religiose, ormai percepite come obsolete. Il rito della messa si è trasformato in un’esperienza marginale, mentre quello del consumo si è affermato come la nuova liturgia dominante.

Questa rivoluzione sociale ha anche modificato profondamente le relazioni interpersonali, sostituendo la collaborazione con la competizione. Il confronto con l’altro non è più un’occasione di scambio o crescita, ma un terreno di scontro per ottenere un vantaggio. La concorrenza, nata come dinamica economica, è diventata una filosofia di vita, penetrando nella scuola, nel lavoro, nei rapporti familiari e persino nelle amicizie. L’altro non è più un alleato, ma un rivale da superare.
Neo liberismo

Questa trasformazione si riflette anche su scala globale, influenzando dinamiche politiche e militari. Le guerre contemporanee non sfuggono a questa logica: i conflitti non sono solo scontri tra nazioni, ma anche opportunità per potenti gruppi economici di accrescere i propri profitti. Le lobby delle armi, del cibo e dell’industria, con le loro strutture oligopolistiche, finanziano la politica e ne orientano le decisioni. La produzione di armi, ad esempio, si intreccia con la politica estera, spingendo per l’armamento dei belligeranti e perpetuando così un circolo vizioso di violenza e profitto.

Il liberismo, con la sua capacità di plasmare il nostro modo di pensare e vivere, non ha solo ridisegnato l’economia, ma ha costruito un nuovo immaginario collettivo. Se non si mettono in discussione questi paradigmi, si rischia di perdere di vista i valori fondanti della cooperazione, della solidarietà e della giustizia sociale, essenziali per ricostruire un modello di convivenza più equo e umano.

La scuola nell’era della tecnica

Non credo sia una novità sostenere che la scuola – intesa nel suo ciclo dalle elementari alla scuola superiore – sia da anni incapace di evolversi e adattarsi al mondo che cambia. Anzi, si ha l’impressione che vi sia quasi un disegno ministeriale che voglia adattare la scuola alla sua nuova funzione: creare degli abili funzionari da inserire nella grande macchina produttiva e negli apparati amministrativi in tutte le sue declinazioni. Vediamo perché. La società moderna può essere letta come il progressivo sviluppo di apparati tecnico-amministrativi burocratici per gestire la complessità di un mondo che si è globalizzato a partire dagli anni ’90 con la rivoluzione informatica, con la nascita dell’unione europea e la conseguente proliferazione di organismi, rappresentanze, leggi, regolamenti, istituzioni e, non ultimo, con il mutamento della geo-politica dove si sono frantumati i due blocchi di potere – ma anche ideologici (liberalismo e comunismo) che hanno tenuto insieme per anni il dibattito, il discorso politico e con sé anche l’identità e l’appartenenza di milioni di persone. Oggi, come si può vedere dalle guerre in atto si sta riformulando un ordine mondiale differente dove non solo i BRICS (Brasile, Russia, India, Cina e Sud Arica) occupano un posto centrale nella distribuzione del potere e della ricchezza, bensì molti altri paesi emergenti stanno ridefinendo gli equilibri del mondo in cui gli USA e la sua protetta Europa sono via via meno influenti e protagonisti degli equilibri militari ed economici.


Che cosa ci aspetteremmo dalla scuola quindi? Che aiuti i ragazzi a decifrare il mondo, comprenderne le logiche e analizzarne l’evoluzione per poter da una parte, essere protagonisti del cambiamento (in qualche modo, se possibile) e dall’altra parte, per poterlo decifrare al meglio e poter fare scelte sul loro futuro lavorativo. Invece la scuola fa esattamente il contrario: prepara gli studenti ad entrare nella macchina tecnica che ha sviluppato una tale complessità da aver bisogno di forti competenze tecniche (informatiche, scientifiche, linguistiche, ingegnieristiche, economiche e finanziarie). La scuola è funzionale agli apparati tecnici perché deve sfornare abili operatori in grado di farla funzionare: questa è la sua nuova funzione.

Eppure un tempo la scuola doveva essere il luogo di formazione della consapevolezza, dove si coltivava lo spirito critico, dove si aveva la libertà di non essere dipendenti da nulla e da nessuno per poter esercitare il pensiero libero svincolati da interessi di parte. Un luogo privilegiato dove si studiava la storia e la filosofia per osservare il mondo dall’alto dell’esercizio intellettuale e potersi formare opinioni e costruire la propria visione del mondo.
Oggi viene avanti l’esigenza pressante di conoscere le scienze, le lingue, la matematica, l’economia aziendale (non politica), e le materie umanistiche restano come un retaggio obbligatorio che scadono via via nel nostalgico se non – nella percezione degli studenti – nell’inutile. Ha vinto il sistema produttivo con le sue pressanti esigenze, ha vinto il sistema economico liberista che ha chiesto al mercato di ri-organizzare la società che dopo la seconda guerra ha avuto uno sviluppo sociale di grande respiro fornendo un welfare state e aumentando i diritti delle persone e dei lavoratori, diritti che oggi vengono via via distrutti come il diritto alla salute, allo studio, allo sciopero, chiusi in questa fase miope di regressione nazionalista e autoritaria.

Avremmo bisogno di giovani pensanti, capaci di protestare, arrabbiarsi, prendere posizione di fronte ai fallimenti della politica o delle politiche nazionali ed europee con l’autonomia del loro pensiero critico costruito negli anni belli della libertà di studiare e non avere obblighi di fare altro. Ma questo non sta avvenendo. La scuola è un luogo vecchio che odora di muffa e dove i ragazzi, socializzati alla velocità dei megabite della rete subiscono lezioni frontali giurassiche sperando che l’ora termini il prima possibile. Interrogateli e chiedete loro se hanno entusiasmo per l’apprendimento, curiosità sul mondo e se gli insegnanti sono in grado di suscitare curiosità ed entusiasmo nel decifrare la complessità dell’oggi. La maggioranza vi risponderà che la scuola è inutile ma obbligatoria e che non aspettano latro che finisca per andare a laurearsi da qualche parte. Quello che piace a loro della scuola è lo stare insieme, vivere la socialità, le prime relazioni, il gioco, lo sport e il divertimento, non l’apprendimento.
Ma perché la scuola non vuole evolversi? La risposta è scritta qui sopra, perché è funzionale a creare funzionari  bête et discipliné (stupidi e disciplinati) e in questo sta avendo il suo più grande successo!

L’epoca e la politica dell'”io”

Da Berlusconi a Salvini, passando da Renzi e Di Maio. Ho passato una vita a sperare di trovare una politica “ragionevole”, attenta all’equità, all’ambiente, ai ceti più fragili, ai giovani, ma ogni generazione di politici è stato sempre peggio. Come se l’entropia fosse propria della politica. Ho riflettuto molto sul perché di questo degrado dello spirito civico che spinge i miei connazionali dietro a figure carismatiche che incarnano una politica di interessi, personalistica, a volte spericolata e mai orientata al bene comune. La diagnosi è che in Italia domina la cultura dell”io” e non siamo mai riusciti a concepire e far maturare la consapevolezza del “noi”. Non siamo mai o quasi mai un “noi”, inteso come una comunità di persone che voglio vivere e stare meglio uno accanto all’altro.

E questo ha tante ragioni storiche (l’Italia è giovane e figlia di tante invasioni e domini stranieri) e culturali (vent’anni passati nel degrado della TV commerciale berlusconiana che ha lacerato visioni del mondo virtuose lasciando una fetta del popolo italiano in preda alla tristezza di culi e quiz che si insinuavano a tutte le ore del giorno e della notte.

Ma poi c’è un altro grande tema: il mercato! Il mercato inteso come la libertà di operare della domanda e offerta, priva di regolamenti, paletti e vincoli. Dalla rivoluzione industriale in poi il capitale ha macinato accumulazione e i suoi possessori, tanto potere da diventare una centrale oligopolistica talmente grande, rarefatta ed indefinibile che a stento si sa di cosa si parla quando si tenta di parlarne. La finanziarizzazione del capitalismo ha redistribuito la ricchezza in modo poco equo, facendo credere al ceto medio che avrebbe portato benessere a tutti. Ma nel frattempo il capitale sia fisico che finanziario diventava sempre più inafferrabile, soprattutto attraverso l’ingegneria finanziaria dei derivati. Così pochi gruppi di esperti di finanza piano piano potevano decidere il destino di banche, aziende e paesi (si veda Goldman Sachs cosa ha fatto con la Grecia). E in tutto questo ci siamo antropologicamente trasformati sperando di essere tutti imbarcati sulla nave del successo, della ricchezza, attraverso la follia dei consumi compulsivi, scivolando nell’angosciante illusione che comperando sempre più oggetti, sempre più raffinati, avremmo raggiunto una qualche forma di felicità. E l’inganno dura ancora e ancora, da quando Berlusconi raccontava che tutti potevano diventare ricchi seguendo il suo esempio di imprenditore imprestato alla politica, a quando Renzi voleva farci sognare con la rivoluzione della “rottamazione” del vecchio per transitare in un iperuranio “nuovo” dove finalmente avremmo conosciuto il benessere costruito da “sinistra” conciliando mercato e sociale. Per poi cadere “ad inferos” nelle braccia di un pericoloso bulletto che spaccia idee balzane, costruite attraverso un’infernale (questa si) macchina di studio del comportamento delle masse, che sa stimolarne la paura e riceverne in cambio consenso. E non vogliamo dedicare due parole al grande politico anti-sistema Luigino Di Maio, schiacciato dall’impossibilità di realizzare roboanti promesse che avrebbero sovvertito l’ordine costituito? Ma allora? Quasi mezzo secolo è passato e ci ritroviamo a questo punto? Verrebbe da citare il finale di una poesia di Anna Segre: “L’universo si smaglia perché il male tira i fili mentre il bene si ostina a tessere”. Chi ha più la forza di tenere a bada il mercato? Di perseverare con il ruolo di educare allo spirito civico? Di non soccombere di fronte a tanta deriva? Solo l’arte riesce ancora a fare astrazione dal decadimento diffuso, perché di fronte all’opera d’arte torniamo tutti incantati di fronte a quel frammento di esperienza dove l’infranto, solo per un momento, appare ricostruito e ci salva dallo sconforto. Andate a teatro, a sentire concerti, a vedere mostre. Non risolve ma aiuta! Resistere, resistere, resistere!

Lettera al sig. Salvini da un professore

Caro ministro dell’interno, un po’ mi rattrista spendere del tempo per provare a spiegarle cosa sia la funzione educatrice e pedagogica di un insegnante, ma visto che la polizia viene mandata per sospendere un’insegnante che esercita la sua funzione di formatore, le dedico volentieri qualche minuto.

Io insegno economia politica e come spero le sappia – se ha studiato un po’ delle nozioni di base dell’economia – non esistono verità assolute in economia ma esistono teorie sulla realtà, visioni del mondo, scuole di pensiero: si può essere liberisti, ultra-liberisti, oppure neo-keynesiani o collettivisti. Ognuno sceglie una visione del mondo in funzione dei propri valori e della sua capacità di osservazione della realtà. Per capire l’economia politica bisogna fare anche riferimento alle scelte che la politica fa sull’economia: si chiama politica economica. Ma la politica economica la si fa a partire dai propri valori personali: credere nel mercato oppure pensare che lo Stato debba intervenire per correggere le storture create dal mercato. Credere che la sanità debba essere privata oppure pensare che faccia parte dei servizi universali che uno Stato debba offrire ai propri cittadini contro il pagamento delle tasse, pagate – come recita la costituzione italiana – in proporzione al proprio reddito (e soprattutto dovrebbero pagarle tutti, non solo una fetta di ceto medio con lavoro dipendente; se ne sta occupando?). Vede, lentamente così si entra nel merito di quello che i governi fanno. Negli esami di maturità ci sono domande su quali provvedimenti i governi e le banche centrali dovrebbero prendere per aiutare la crescita, lo sviluppo, lo sviluppo sostenibile (le segnalo che ci sono differenze importanti tra questi concetti). Per cui, nei testi ufficiali viene richiesto di conoscere e capire le conseguenze di un’azione specifica e noi insegnanti siamo obbligati ad affrontare quelle che sono le “vostre” scelte, nel bene e nel male. Per cui, caro signor ministro, faccia lo sforzo di capire che l’insegnamento e la formazione dei ragazzi non si limita a riempirgli la testa di nozioni e informazioni. Il nostro lavoro è aiutare i ragazzi a diventare persone capaci di pensare, li aiutiamo a sviluppare anche uno spirito critico, sebbene questo spirito critico sembra che lei lo sopporti a fatica. Ma un cittadino maturo è colui che conosce, valuta in tutta autonomia e sceglie sulla base della consapevolezza e non dell’emozione istantanea oppure dopo un bombardamento di parole e notizie che lo spaventano. Noi formiamo “persone” non funzionari stupidi e disciplinati che andranno ad occupare ruoli burocratici nella grande macchina amministrativa. Noi lavoriamo per formare persone cercando di aiutarle ad essere persone felici in questo mondo. Ogni volta che lei chiederà alla polizia di fermare un insegnante nel suo prezioso ruolo, mille insegnanti e mille cittadini si indigneranno e lei sarà sempre più solo ed isolato, arrabbiato e risentito contro il mondo.

Noi facciamo il nostro lavoro in modo sereno e siamo felici di insegnar loro a valutare il mondo in totale autonomia. Autonomia anche da coloro che, come lei, vorrebbero tutti allineati a pensarla nello stesso modo. Infine, mi scusi, ma lei un pensiero, un progetto per l’Italia, un’idea di futuro per il paese che sta governando  ce l’ha, oppure no? Perché ad osservare quello che dice e che fa sembra che abbia bisogno di tornare ancora un po’ tra i banchi di scuola, dove – mi creda – siamo tutti felici di poterla ospitare ed accogliere e dove si renderà conto che la scuola può essere un luogo molto bello e interessante dove si imparano tante cose sulla modernità, sull’economia, sulle arti e sulla storia. Venga a trovarci. La nostra porta è sempre aperta e lei è il benvenuto e scoprirà che anche i ragazzi hanno molto da insegnarle, a lei come a tutti noi.

Un cordiale saluto

Greta Thunberg: l’utopia necessaria

Di movimenti collettivi non se ne vedono più da anni, forse risucchiati nell’agio del consumo, nella distrazione della tecnologia e nel fascino dell’opulenza. Ma i movimenti collettivi sono motori del cambiamento, soprattutto dove la politica non arriva più, per debolezza, sottomissione all’economia e codardia rispetto ai poteri di multinazionali e potenti gruppi bancari.
Un movimento collettivo ha bisogno non solo di un’idea forte e di un leader, ha bisogno anche della rabbia di chi vi partecipa.
Greta Thunberg ha portato luce su di un dramma epocale diventato più che urgente, nonostante già da tempo tutti fossero consapevoli del ritardo con il quale i potenti del mondo indugiano nel prendere misure. E qui viene il bello, la diagnosi è spietata e radicale: non ci sono misure da prendere. Bisogna cambiare il modello di sviluppo e di crescita! Bisogna ripensare tutte le coordinate della nostra vita a cui ci siamo confortevolmente affezionati e questa è la cosa più difficile da fare. I soggetti che sono protagonisti dell’economia e della finanza mondiale non sono interessati a cambiare il sistema che li rende ricchi e potenti, anche se stanno segando il ramo su cui sono seduti.Non lo vogliono vedere, offuscati da potere, denaro e privilegi. La domanda è: ce la farà il movimento che sta nascendo a sovvertire l’ordine economico costituito per avviare una nuova fase di cambiamento profondo e radicale? La mia risposta è: credo di no. Usiamo una metafora tutta italiana: il movimento 5 stelle arriva sulla scena con intenti ecologisti ed ambientalisti ambiziosi e radicali. Poi, non trovando altri alleati sul proprio cammino, si rivolge all’unico soggetto disponibile: la Lega di Salvini, un partito che colerebbe cemento in ogni angolo d’Italia, che vorrebbe TAP, TAV, ponti sullo stretto, infrastrutture che diano lavoro a tutti, imprenditori e muratori, per portare a casa un po’ di PIL (leggi blog precedente su Pil buono e Pil cattivo). E cosa succede? Tutte le ambizioni sul tema clima, ambiente, inquinamento, cementificazione vanno a infrangersi contro un lungo processo di mediazione e compromesso che finisce per svilire e dissolvere la spinta originaria.Cambiare il modello di sviluppo chiede prima di tutto di decolonizzare l’immaginario liberista dei fondamentalisti del mercato, che ancora credono alle favole e che stravincono riempiendo gli scaffali dei centri commerciali di oggetti inutili. Questo è il punto nevralgico. Le grandi masse di consumatori non sono né pronte, né interessate a considerare un modello alternativo di società fondata sulle relazioni e non sul possesso degli oggetti.
La tecnologia offre già il futuro in termini di mobilità, produzione di energia, economia circolare, produzione di cibo locale, ricostruzione dei tessuti urbani, edilizia bio-sostenibile, riorganizzazione della viabilità cittadina etc. C’è già tutto a disposizione, quello che manca è solo la volontà politica che è ingessata poiché succube e subordinata agli interessi dei grandi potentati economici. Chi tocca i fili muore. Per cambiare le cose serve un lungo e lento lavoro di erosione delle certezze sul successo del capitalismo e una lenta ed inesorabile crescita di una visione che un modello alternativo è possibile se viene elaborato dal popolo. Ma il popolo ancora non lo sa che sarebbe saggio desiderarlo. Greta Thunberg va dritto e dice cose sagge ma dall’altra parte bisogna che la scintilla prometeica di un nuovo movimento collettivo guidato da giovani, rimetta al centro il tema della sostenibilità e del modello di economia che vogliamo. Greta c’è e il suo ruolo lo ha svolto, riuscirà lo spirito dello “
Statu nascenti” a risorgere dalle proprie ceneri?

La progettazione di spazi urbani e l’idea di socialità.

Nel suo libro “I bisogni degli altri” M. Ignatieff dice che quello che non si sa vedere, non lo si può dire e quindi non lo si può rivendicare. Prima serve definire i bisogni delle persone, poi elaborare un linguaggio per poterne parlare e infine la politica dovrebbe saper intervenire su tali bisogni. Ma quali sono i bisogni fondamentali delle persone? Perché la politica non parla di questioni che sono prioritarie per le persone?città1
I bisogni fondamentali sono quelli di socialità, di solidarietà, di vicinanza, affetto, reciprocità, i bisogni che hanno a che fare con la sfera più profonda di noi stessi quella legata alla dimensione dell’identificazione al gruppo, alla famiglia, al vicinato, al quartiere, agli altri, al prossimo. Ma lo strapotere del principio “interesse” ha spazzato via questi aspetti dalla vita della politica per lasciare spazio solo alle spinte di interesse tra costruttori e speculatori, affaristi e furbi, agenzie immobiliari e commercianti scaltri oltre ai furbi di ogni sorta. Domina la logica economica degli interessi e del profitto e si instaura di conseguenza una gerarchia di potenza. Chi ha mezzi fa pressione sulle gerarchie decisionali e diviene protagonista della progettualità urbana.
Gli spazi urbani cominciano ad assomigliare alle dinamiche degli interessi: prevalgono i problemi di infrastrutture, viabilità, ci si occupa delle industrie, della rete commerciale, la grande distribuzione diviene il nuovo luogo della liturgia dei consumi, come vera forma nuova di socialità contemporanea. Si diradano fino a scomparire gli spazi gratuiti, le piazze, gli arredi urbani, i luoghi di socialità, i percorsi verdi, l’acqua, le terrazze, gli alberi, i bar, le zone pedonali. E le città moderne si deformano fino a diventare luoghi invivibili e brutti. Si pensi al contrario a cosa è stata la Parigi capitale del XIX secolo come la racconta Walter Benjamin…..Città 2
Oggi la gente si rifugia nei centri commerciali anche di fronte alla mancanza di offerte alternative.
La logica dell’interesse privato si sostituisce a quella della progettualità dello spazio pubblico, pensato, gestito e ideato dal sistema pubblico, per la cittadinanza pensata nel suo insieme. E chi può superare questa impasse se non la politica? Solo coloro che gestiscono la cosa pubblica e che hanno il respiro di una visione dall’alto del bene collettivo. Per questo la politica dovrebbe ritrovare l’autonomia della decisione dai poteri economici e imporre la sua visione della città, come luogo della vivibilità, dello scambio, dello stare insieme a condividere esperienze in luoghi gradevoli, consumando cultura piuttosto che oggetti, facendo esperienza di luoghi e costruzioni che esprimono la genialità e la creatività di architetti e ingegneri che hanno ascoltato poeti e sociologi così da ripensare lo spazio Città3pubblico in modo più umano e funzionale a crescere cittadini migliori. Ancora un’utopia?

Crescere figli al tempo dell’illegalità

Certo essere rigorosi, eticamente irreprensibili, corretti,  onesti e rispettosi del costume e delle leggi è una via maestra, non si sbaglia seguendola. Ma viene il dubbio di essere un po’ naif, un po’ tontoloni, un po’ “old fashioned”, insomma ci si sente un po’ fuori dalla storia.

In Italia i binari sono altri sia per la sopravvivenza che per il successo: raccomandazioni, conoscenze, evasione, elusione, furberie, accordi sotto banco….. Questa è diventata la cifra del vivere. Così la tensione tra sani principi etici di correttezza e rigore sembra esplodere con la prassi furbesca dell’arte di arrangiarsela nel “migliore” dei modi che coincide esattamente con l’infrazione regolare, costante e continua delle regole, dei principi e delle norme.illegalità

Allora quale dovrebbe essere l’insegnamento da impartire ad un figlio? Sempre e ancora l’obsolescente correttezza oppure la scaltra arte di cavarsela in “questo” mondo?

Il dubbio emerge in modo prepotente e il conflitto sembra risolversi dicendo ad un figlio: “impara le lingue, studia con serietà e preparati a partire”. Andarsene in paese dove la soglia dell’illegalità e del malcostume sono ancora “accettabili” – ammesso che lo possano essere in qualche modo -.

Ma crescere i propri figli con l’idea che per vivere bene devono lasciare il nostro paese è il vero fallimento della politica, ed è un fallimento epocale e generazionale.

L’indignazione non basta più, la fuga diventa l’ultima virtù.

Il simbolo dello skatepark

Il fatto che a Varese manchi uno skate-park può essere letto come un simbolo dell’indifferenza che molte amministrazioni mostrano al soggetto “adolescenti”, fascia dai 13 ai 18 anni. Molto si è già detto su queste figure impegnative che vivono in uno spazio difficile tra gioventù ed età adulta, maldestri e malfermi, bisognosi ma anche refrattari agli aiuti. Eppure gli adolescenti sono un soggetto chiave nella nostra collettività, sono il nostro futuro che prende forma nel farsi della loro coscienza in formazione, nella loro visione del mondo, nella loro capacità di decifrare il contesto in cui vivono e potervi intervenire con scelte adeguate. Ma pochi si occupano di loro e se lo fanno è solo quando hanno problemi. Perché allora non occuparsi di loro anche quando non rappresentano devianza, criminalità  o semplicemente disturbo alla quiete borghese della città? Costruire uno skate-park  in un luogo centrale, bello, importante significa dare loro importanza, vederli, riconoscerli e accettarli. In fondo si fanno parchi giochi per bambini e si convertono le scuole senza bambini in centri anziani. Continua a leggere

Il silenzio assordante dei giovani

IndinadosGuardo spesso negli occhi i miei allievi, almeno quelli più grandi, e cerco  nel loro sguardo  un segnale che mi parli di un risveglio o  di una reazione a fronte del disagio che stanno vivendo.  Cerco almeno di capire se li abita quella sana preoccupazione per tutto ciò che sta accadendo in Italia e mi sembra per lo più di non vedere nessun segno di reazione.
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