l mostro neoliberista e il declino democratico

Il vero protagonista del declino della cultura democratica in Occidente è il liberismo, un’ideologia economica che pone il mercato al centro di ogni transazione sociale e politica. Questa visione riduce lo Stato al ruolo di semplice “gendarme”, delegittimando ogni suo intervento regolatore in favore di un apparente ordine naturale dettato dalle forze del mercato. Oggi, il liberismo è diventato la “normalità” in cui viviamo, un paradigma talmente radicato che ne percepiamo raramente la pervasività. Ha alterato profondamente il modo di pensare, agire e relazionarci, penetrando nella vita quotidiana e trasformando le dinamiche sociali.
Neo liberismo

Questo modello economico ha avuto un impatto devastante sulla sinistra politica, in Italia come nel resto d’Europa e del mondo. La crisi della social-democrazia si origina proprio dalla sua incapacità di opporsi alle logiche dell’ultra-liberismo quando è stata al governo. Di fronte alle pressioni della finanza globale, degli oligopoli e dei grandi centri di potere economico, la sinistra ha finito per adattarsi, rinunciando alla sua vocazione storica: regolamentare il mercato, redistribuire la ricchezza e garantire i servizi fondamentali come sanità, istruzione, tutela ambientale ed equità sociale.

Questo allineamento al capitalismo ha piegato l’ideologia social-democratica, lasciandole unicamente la difesa dei diritti civili. Seppur importanti, questi temi non bastano a colmare il vuoto lasciato dalla mancata attenzione ai bisogni economici e sociali delle persone. Il tradimento dei principi fondamentali della sinistra ha generato un disincanto profondo nell’elettorato, contribuendo a un’astensione dilagante. Quando quasi metà degli elettori sceglie di non votare, come dimostra il tasso di astensionismo vicino al 50%, è chiaro che il legame di fiducia tra cittadini e politica è stato spezzato.
Neo liberismo

Il liberismo non si è limitato a ridisegnare l’economia, ma ha sostituito le tradizionali liturgie sociali e religiose con nuove forme di aggregazione centrate sul consumo. I centri commerciali sono diventati le nuove “cattedrali” della vita sociale, luoghi dove si riversano intere famiglie nel fine settimana. Qui, sotto lo stesso tetto, si trovano cibo, abbigliamento, tecnologia, mobili e intrattenimento: una combinazione irresistibile che soddisfa il bisogno di consumo e quello di socialità. La piazza, un tempo cuore pulsante della vita comunitaria, è stata svuotata del suo significato, così come i circoli culturali o le celebrazioni religiose, ormai percepite come obsolete. Il rito della messa si è trasformato in un’esperienza marginale, mentre quello del consumo si è affermato come la nuova liturgia dominante.

Questa rivoluzione sociale ha anche modificato profondamente le relazioni interpersonali, sostituendo la collaborazione con la competizione. Il confronto con l’altro non è più un’occasione di scambio o crescita, ma un terreno di scontro per ottenere un vantaggio. La concorrenza, nata come dinamica economica, è diventata una filosofia di vita, penetrando nella scuola, nel lavoro, nei rapporti familiari e persino nelle amicizie. L’altro non è più un alleato, ma un rivale da superare.
Neo liberismo

Questa trasformazione si riflette anche su scala globale, influenzando dinamiche politiche e militari. Le guerre contemporanee non sfuggono a questa logica: i conflitti non sono solo scontri tra nazioni, ma anche opportunità per potenti gruppi economici di accrescere i propri profitti. Le lobby delle armi, del cibo e dell’industria, con le loro strutture oligopolistiche, finanziano la politica e ne orientano le decisioni. La produzione di armi, ad esempio, si intreccia con la politica estera, spingendo per l’armamento dei belligeranti e perpetuando così un circolo vizioso di violenza e profitto.

Il liberismo, con la sua capacità di plasmare il nostro modo di pensare e vivere, non ha solo ridisegnato l’economia, ma ha costruito un nuovo immaginario collettivo. Se non si mettono in discussione questi paradigmi, si rischia di perdere di vista i valori fondanti della cooperazione, della solidarietà e della giustizia sociale, essenziali per ricostruire un modello di convivenza più equo e umano.

La scuola nell’era della tecnica

Non credo sia una novità sostenere che la scuola – intesa nel suo ciclo dalle elementari alla scuola superiore – sia da anni incapace di evolversi e adattarsi al mondo che cambia. Anzi, si ha l’impressione che vi sia quasi un disegno ministeriale che voglia adattare la scuola alla sua nuova funzione: creare degli abili funzionari da inserire nella grande macchina produttiva e negli apparati amministrativi in tutte le sue declinazioni. Vediamo perché. La società moderna può essere letta come il progressivo sviluppo di apparati tecnico-amministrativi burocratici per gestire la complessità di un mondo che si è globalizzato a partire dagli anni ’90 con la rivoluzione informatica, con la nascita dell’unione europea e la conseguente proliferazione di organismi, rappresentanze, leggi, regolamenti, istituzioni e, non ultimo, con il mutamento della geo-politica dove si sono frantumati i due blocchi di potere – ma anche ideologici (liberalismo e comunismo) che hanno tenuto insieme per anni il dibattito, il discorso politico e con sé anche l’identità e l’appartenenza di milioni di persone. Oggi, come si può vedere dalle guerre in atto si sta riformulando un ordine mondiale differente dove non solo i BRICS (Brasile, Russia, India, Cina e Sud Arica) occupano un posto centrale nella distribuzione del potere e della ricchezza, bensì molti altri paesi emergenti stanno ridefinendo gli equilibri del mondo in cui gli USA e la sua protetta Europa sono via via meno influenti e protagonisti degli equilibri militari ed economici.


Che cosa ci aspetteremmo dalla scuola quindi? Che aiuti i ragazzi a decifrare il mondo, comprenderne le logiche e analizzarne l’evoluzione per poter da una parte, essere protagonisti del cambiamento (in qualche modo, se possibile) e dall’altra parte, per poterlo decifrare al meglio e poter fare scelte sul loro futuro lavorativo. Invece la scuola fa esattamente il contrario: prepara gli studenti ad entrare nella macchina tecnica che ha sviluppato una tale complessità da aver bisogno di forti competenze tecniche (informatiche, scientifiche, linguistiche, ingegnieristiche, economiche e finanziarie). La scuola è funzionale agli apparati tecnici perché deve sfornare abili operatori in grado di farla funzionare: questa è la sua nuova funzione.

Eppure un tempo la scuola doveva essere il luogo di formazione della consapevolezza, dove si coltivava lo spirito critico, dove si aveva la libertà di non essere dipendenti da nulla e da nessuno per poter esercitare il pensiero libero svincolati da interessi di parte. Un luogo privilegiato dove si studiava la storia e la filosofia per osservare il mondo dall’alto dell’esercizio intellettuale e potersi formare opinioni e costruire la propria visione del mondo.
Oggi viene avanti l’esigenza pressante di conoscere le scienze, le lingue, la matematica, l’economia aziendale (non politica), e le materie umanistiche restano come un retaggio obbligatorio che scadono via via nel nostalgico se non – nella percezione degli studenti – nell’inutile. Ha vinto il sistema produttivo con le sue pressanti esigenze, ha vinto il sistema economico liberista che ha chiesto al mercato di ri-organizzare la società che dopo la seconda guerra ha avuto uno sviluppo sociale di grande respiro fornendo un welfare state e aumentando i diritti delle persone e dei lavoratori, diritti che oggi vengono via via distrutti come il diritto alla salute, allo studio, allo sciopero, chiusi in questa fase miope di regressione nazionalista e autoritaria.

Avremmo bisogno di giovani pensanti, capaci di protestare, arrabbiarsi, prendere posizione di fronte ai fallimenti della politica o delle politiche nazionali ed europee con l’autonomia del loro pensiero critico costruito negli anni belli della libertà di studiare e non avere obblighi di fare altro. Ma questo non sta avvenendo. La scuola è un luogo vecchio che odora di muffa e dove i ragazzi, socializzati alla velocità dei megabite della rete subiscono lezioni frontali giurassiche sperando che l’ora termini il prima possibile. Interrogateli e chiedete loro se hanno entusiasmo per l’apprendimento, curiosità sul mondo e se gli insegnanti sono in grado di suscitare curiosità ed entusiasmo nel decifrare la complessità dell’oggi. La maggioranza vi risponderà che la scuola è inutile ma obbligatoria e che non aspettano latro che finisca per andare a laurearsi da qualche parte. Quello che piace a loro della scuola è lo stare insieme, vivere la socialità, le prime relazioni, il gioco, lo sport e il divertimento, non l’apprendimento.
Ma perché la scuola non vuole evolversi? La risposta è scritta qui sopra, perché è funzionale a creare funzionari  bête et discipliné (stupidi e disciplinati) e in questo sta avendo il suo più grande successo!

Il declino della cultura di sinistra

Che fine ha fatto la sinistra in Italia? E  in Europa? Perché lentamente declina lasciando il passo a partiti e movimenti di destra?
Noi crediamo che il punto cruciale sia il rapporto che i partiti di sinistra hanno intrattenuto con le forze del liberismo e l’abbraccio mortale che ne ha conseguito. Il mondo, dopo la caduta del comunismo sovietico –  e a parte l’esperienza del modello misto cinese della maonomics – ha intrapreso tutto insieme il cammino del liberismo e in certi paesi dell’ultra-liberismo.
Cosa significa? Che il capitale e la sua conseguente ed ineluttabile accumulazione, sono diventati attori principali sulla scena economica, politica e sociale, mondiale. Il capitale è nelle mani dei grandi gruppi di multinazionali, di gruppi  finanziari, nelle mani delle famiglie che controllano pacchetti azionari ingenti. E questo è un fatto. Chi governa quindi, deve fare i conti con queste forze che sono le forze protagoniste della modernizzazione, della globalizzazione e della crescita economica. La politica, di fronte a tanta potenza e potere, diventa necessariamente subordinata e supina, ubbidiente e silenziosa.

Come è possibile legiferare in favore dei ceti deboli, dei pensionati, dei giovani, in tutela dell’ambiente, delle categorie più fragili, dei migranti,  della classe operaia, di tutti i marginali che vivono nelle periferie della modernità, se questo va contro la logica di espansione, sviluppo e crescita del capitale? Semplicemente non è possibile. L’economia liberista chiede delocalizzazioni delle imprese, chiede una riduzione del debito pubblico, di non fare “deficit spending”, chiede poche regole per chi fa impresa, poche tasse agli imprenditori, chiede disattenzione all’ambiente poiché la sua protezione è troppo costosa e minaccia la libera impresa, chiede il mercato libero del lavoro, licenziamenti facili, una sanità e una scuola privata dove i capitali possano essere investiti e fruttare profitti.

Come fa un partito di “sinistra” a dire no a tutto questo? Deve costantemente mediare e scendere a compromessi, piegarsi, rinunciare, abdicare, perdere la sua anima e cedere sui propri valori fondativi. In una parola estinguersi. E’ ciò che sta succedendo al partito democratico italiano poiché, stando al potere, non ha fatto altro che allontanarsi dalla propria carta dei valori fondamentali, fino a non sapere più chi è, qual è la propria identità, la sua missione, il suo senso. Ha gradatamente adottato politiche liberiste cercando di salvaguardare qualche scampolo di lotta sui diritti umani, e anche lì con scarso successo. Ha fatto politiche di destra fino al punto che gli elettori si sono accorti che forse è meglio votare un partito di destra originale, che quelle politiche le pensa, le fa e le attua in quanto gli appartengono per definizione. La social-democrazia è la capacità che ha la politica di tenere sotto controllo e regolamentare  il mercato nei settori strategici come la sanità, la scuola, la difesa, e legiferare a tutela dell’ambiente e delle categorie più disagiate occupandosi di lavoro e dei lavoratori. Ma da tempo non si sente più pronunciare questa parola, soprattutto dai protagonisti di quella che , una volta erano una forza di sinistra. Ad meliora et maiora semper!

Gli artisti dimenticati

Nella rappresentazione dominante del mondo il nutrimento è il cibo e tutto quello che va con sé, la sua produzione, distribuzione e anche tutto quello che ne discende, ne sono un grande volano di vita e sviluppo economico: da quando le società sono passate dalla produzione per l’auto sostentamento alle economie di sovrappiù si è scatenata la forza dell’accumulazione che non ha pari come motore nella storia. Poi è iniziato il declino dell’occidente: capitalismo sfrenato, dottrina del liberismo e divaricazione progressiva e conseguente disuguaglianza tra i possessori del capitale e i lavoratori che si è accentuata con la finanziarizzazione del capitalismo. E tutto questo è avvenuto come per la storia della “rana nell’acqua bollente”: non ce ne siamo quasi accorti perché il tutto è avvenuto progressivamente. Oggi il capitale ha vinto, l’immaginario è stato colonizzato e la fede della “crescita economica infinita” è penetrata nella visione del mondo delle masse di occidente e oriente, fatta eccezione per culture che vivono al riparo dal fenomeno della globalizzazione. Eppure se noi siamo quello che siamo non è solo per lo sviluppo della scienza e della tecnica, forse se siamo quello che siamo è perché abbiamo sempre nutrito il nostro immaginario e formato la nostra coscienza e il nostro spirito attraverso l’arte e forse proprio la “tecnica”, figlia ribelle della scienza –  heideggerianamente parlando – ha posto limiti allo sviluppo e alla coscienza dell’uomo.

Se c’è del vero perché allora dimenticarsi oggi degli artisti? Perché relegare molte arti a forme di intrattenimento e non dare loro la centralità che meritano? E’ spesso vero che l’offerta d’arte supera di gran lunga la domanda. Ma questo avviene perché nel nostro stile di vita, nella nostra educazione e nelle nostre pratiche quotidiane abbiamo espulso l’esperienza artistica come esperienza fondamentale e ordinaria e l’abbiamo marginalizzata a momento di svago, intrattenimento mondano, esercizio di virtuosità culturale. Eppure l’arte è una delle  esperienze che connette gli strati più profondi dell’animo umano mettendoli in relazione alla realtà sociale e all’esperienza perduta di una condizione felice. L’arte, secondo una certa estetica, in molte delle sue forme racconta l’infranto della nostra esperienza alienata e ne ricostruisce frammenti, mostrandoci aspetti della vita autentica che nel quotidiano sono andati progressivamente eclissandosi. L’esperienza artistica ricostruisce quello che la storia ha distrutto e permette di vedere lontano, dentro e fuori di noi alla velocità della luce. L’esperienza dell’arte cambia chi la fa. Siamo diversi quando usciamo da una visita di una mostra di un bravo pittore  rispetto a quando siamo entrati; siamo diversi quando il concerto è finito  e usciamo dalla sala da concerti, e via così parlando di cinema, di architettura, di arti plastiche o fotografia. L’esperienza artistica migliora, sia colui che crea, sia coloro che la fruiscono.

Eppure, al di là dei “mercanti d’arte” che rispondo proprio alla logica degli interessi particolari e usano l’arte per arricchirsi, di norma le arti – nella società neo-liberista – o sono inglobate per produrre profitto, oppure sono marginalizzate nell’intrattenimento. L’arte non è centrale nell’esperienza dell’uomo nella vita moderna. E non può esserlo perché non solo non è funzionale al perseguimento di interessi e quindi funzionale al meccanismo produttivo, ma rappresenta uno spazio di totale libertà che diventa essa stessa critica del sistema e quindi pericolosa. Il sistema capitalistico neo-liberista ha paura della libertà, dello spirito critico, della conoscenza e dell’approfondimento psicologico. Perché questi aspetti finirebbero per smascherare le contraddizioni di un sistema costruito su interessi, inganni, diseguaglianze, competizione, calcolo, uniformizzazione degli stili di vita, appiattimento delle differenze, fondato su cibo spazzatura, consumi compulsivi, intrattenimento becero, ottundimento di massa, dove l’uomo rimasto solo, lontano dai suoi legami più profondi con i suoi simili e con la natura si ritrova in compagnia solo del proprio ego e non gli resta che nutrirlo e accudirlo come si nutre e accudisce il proprio animale domestico, aiutato dallo sviluppo dei social media.

Eppure basta guardare l’espressione di qualcuno che si sofferma di fronte ad un quadro, o il piacere e lo stato psico-fisico che cambia quando ascoltiamo un concerto, oppure quando vediamo l’armonia dell’architettura di genio: sono esperienze profonde e necessarie.

Oggi, nell’epoca del covid 19 molti artisti sono ridotti sul lastrico, attori che non possono salire sul palcoscenico, musicisti che vivendo di concerti, restano a casa con i loro strumenti, maestranze, tecnici di tutti i settori dello spettacolo che non hanno tutele e aiuti. E si sente parlare di aiuti alle imprese, al commercio, alle grandi aziende, ai parrucchieri e ai ristoranti, ma non si sente parlare di aiutare chi rende la nostra vita migliore avendo fatto una scelta importante di occuparsi di attività artistiche, consapevoli che fuori dal mercato è difficile vivere e che tutto si gioca dentro le regole del mercato, con tutti i compromessi che il mercato chiede. Verrebbe da dire “extra mercatus nulla salus” (non c’è salvezza e vita se si sta fuori dal mercato).

Questa è una delle forme della deriva della civiltà del mercato, che non si accorge di dimenticare chi ha fatto grande il suo popolo e non si ricorda più di quanto l’esperienza dell’arte sia una delle prime cose da tutelare, forse anche prima di tutti i protagonisti che nel mercato e di mercato vivono.

Il virus dentro di noi

Ho letto molti articoli interessanti sul fatto che sia “la normalità” che abbiamo lasciato ad essere un problema, sul fatto che vi sia un legame stretto fra la violenza che l’uomo fa all’ecosistema e il diretto legame con l’humus in cui i virus nascono, sul fatto che la globalizzazione sia il contesto in cui il virus ha preso il largo e ha contagiato l’intero pianeta. Però pochi hanno fatto notare il fatto che in realtà ben altro virus di fatto è da tempo dentro di noi. E non mi riferisco al Covid 19 ma alle ragioni che lo hanno causato e diffuso.

Il modello di sviluppo che domina la maggior parte del pianeta è proprio quello del capitalismo liberista fondato sull’accumulazione del capitale, sulla deregulation, sullo strapotere delle multinazionali e sulla debolezza delle leadership politiche. Ne sono una prova i tragici scivoloni compiuti da Trump, Macron, Boris Johson, Bolsonaro, Kjell Stefan Löfven, e la cattiva fede di Orban. Tutti questi leader  hanno sbagliato, non per incompetenza, ma per essere stati supini rispetto agli interessi economici e ai gruppi industriali del loro paese. La paura di una recessione interna, di perdita di competitività internazionale li ha spinti a prendere i rischi le cui conseguenze oggi contiamo in termini di morti. Se avessimo avuto Renzi come primo ministro, sarebbe stata la stessa identica cosa. La politica infatti – da tempo – non riesce a governare né l’economia e tanto meno la finanza e si ritrova ad obbedire alle logiche dei grandi interessi. Ma tutto ciò accade perché siamo noi i primi a volerlo. Noi tutti (o quasi) abbiamo abbracciato la “fede” del liberismo economico come unico modello di organizzazione della vita e non riusciamo più a vedere che ci sono delle alternative, perché il confort, il benessere raggiunto, la facilità con la quale otteniamo le cose che desideriamo, la velocità con cui giriamo e visitiamo il mondo, la quantità di oggetti di cui ci circondiamo, le ascriviamo soltanto a questo modello economico. L’alternativa, ahimè,  nell’immaginario collettivo è il sepolto e vetusto comunismo;  “tertium non datur” e quindi non c’è spazio neanche per poter pensare ad “un altro modello”, per ragionare di scenari mondiali alternativi. Eppure tali scenari sono già presenti e consolidati – sebbene in nicchie nascoste – ma restano marginali nella rappresentazione collettiva proprio perché il nostro immaginario è stato colonizzato e conquistato una volta per tutte. Il virus del capitalismo liberista predatorio e competitivo si è insediato profondamente fin dentro la “casalinga di Voghera” che ne rappresenta l’universo mondo. Non c’è verso di sradicarlo. La produzione di cibo non può essere delegata ai grandi gruppi industriali che usano concimi chimici, manipolazioni genetiche e creazione di grani usa e getta, oppure ai grandi allevatori in batteria di animali cresciuti in modo indegno per una creatura, imbottiti di antibiotici e medicine per evitarne malattie. L’energia non può più – e già da tempo – essere prodotta con combustibili fossili o con il nucleare eppure poco si muove anche in questo settore. La mobilità delle persone non può continuare ad essere legata alle auto e agli aerei, l’edilizia non può più continuare ad utilizzare miliardi di metri cubi di cemento
per consumare porzioni di territorio sempre più vaste.

La tecnologia moderna e una grande letteratura degli ultimi anni forniscono il “know how” per sostituire tutte queste forme “vecchie” con soluzioni innovative a basso impatto. Ma tutto ciò richiede una maturazione di mentalità, uno salto logico, una volontà politica sostenuta da cittadini che ne fanno richiesta a gran voce. Richiede soprattutto ripensare totalmente il nostro stile di vita. Non si tratta di tornare indietro di cent’anni, ovviamente, ma di rivedere molte delle abitudini che si sono stratificate. Il cibo deve essere prodotto localmente, anche  attraverso le micro-fattorie e gli orti urbani, gli allevamenti devono essere sostenibili e gli animali trattati bene. L’edilizia deve sostituire il cemento con le fibre e materiali sostenibili, l’economia deve cominciare ad essere “circolare” e non più lineare: gli scarti di un’impresa possono quasi sempre essere risorsa per altre imprese. La mobilità deve essere collettiva, attraverso mezzi pubblici potenziati , e poi bici, auto,  moto e bus elettrici, telelavoro, riduzione degli spostamenti, produzione di cibo non raffinato, consumo di prodotti alimentari a km 0. A fianco di ciò ci dovrebbe essere una presa d’atto che la retribuzione degli azionisti non può essere il faro che guida l’imprenditorialità. Qualcuno dovrebbe ammettere che la liberalizzazione dei prodotti finanziari detti “derivati”, sono una follia e hanno già messo in crisi l’intera economia del pianeta nel 2008 e qualcuno (la politica a livello internazionale) dovrebbe avere la forza di rivedere queste regole di liberalizzazione selvaggia.

Ma la domanda che si pone è: come si può avviare questa svolta epocale di fronte ai Trump, ai Bolsonaro, ai Macron e ai Johnson? Una timida risposta potrebbe essere: solo attraverso un costante e profondo lavoro educativo sulla necessità di una svolta radicale. Sensibilizzare e socializzare le persone a vedere che un modello alternativo esiste nonostante la potenza di fuoco che il capitale finanziario possiede e la sua efficacia nel raccontarci che questo è il mondo migliore e l’unico possibile. E la prova sta nel fatto che oggi un  microscopico virus ha spezzato le gambe a tutti, anche ai grandi potentati economico-finanziari. Forse è il momento di vedere i nessi tra insorgenza del virus e i nostri stili di vita e avviare una profonda riflessione sul domani. Poiché   è proprio la normalità che rappresenta il problema, quella normalità che ha prodotto questo disastro, e abbiamo  quindi bisogno di una svolta radicale e profonda, abbiamo bisogno di una rivoluzione che sia prima di tutto nella capacità di immaginare le alternative possibili e poi nella capacità di realizzarle.

Nota a margine: quello che temo è che dopo questa pandemia e l’enorme disastro economico che porta con sé, ripartirà tutto esattamente come prima se non peggio perché si vorrà recuperare il terreno perduto. Eccolo il virus dentro di noi. Serve un vaccino immediato ma per questo vaccino non basterà certo un  anno o un anno e mezzo come per il Covid 19.

Liberismo e disuguaglianza: Cile 2019

Una marea umana di più di un milione di persone si riversa nelle piazze delle città cilene e soprattutto a Santiago del Cile. TG e TV in Italia ne parlano timidamente ma è un segno importante dei tempi. La protesta del popolo cileno è figlia della disuguaglianza che è figlia a sua volta del modello neo-liberista dei fondamentalisti del mercato di cui il loro presidente, Miguel Juan Sebastián Piñera Echenique, ne è un fedele paladino (non è un caso che come il nostro Berlusconi, anche lui sia un imprenditore “imprestato” alla politica). L’11 settembre del 1973, con l’aiuto e la regia del governo USA, il governo legittimo di Salvador Allende fu destituito con un colpo di Stato, per timore che una social-democrazia prendesse piede nel continente latino-americano. Prontamente gli USA – noti esportatori di democrazia – hanno preparato prima un embargo e poi dato il via al colpo di Stato che insediò il dittatore Augusto Pinochet. Da allora, il Cile ha fatto anche meglio del suo maestro, gli stati uniti d’America: ha perseguito il modello fondato dalla scuola economica di Chicago: i Chicago boys, fondato sulla privatizzazione dei servizi, sul libero mercato e lasciando che decennio dopo decennio le disuguaglianze si radicassero ancora di più nel paese. Fino a che la goccia dell’aumento del biglietto dei trasporti facesse traboccare il vaso e quindi esplodere la rabbia del popolo cileno.

Andiamo a vedere come funziona il sistema sociale negli Usa e capiamo perché il Cile si ribella. Se non hai un’assicurazione, puoi morire per mancanza di cure sanitarie (consiglio a tutti il bel documentario di Michael Moore del 2007: Siko); se vuoi far studiare i tuoi figli in una buona facoltà devi essere benestante altrimenti scivoli nei livelli più bassi della stratificazione sociale; il salario minimo striscia a livelli di sopravvivenza e ci sono poche garanzie nel mondo del lavoro. Il 66% della ricchezza del Cile è nelle mani del 10% delle famiglie ricche. Una distribuzione della ricchezza figlia della deregulation e della logica del mercato libero.
Il Cile di oggi rappresenta il simbolo dell’implosione del sistema liberista di mercato: il popolo soffre, resiste, si vergogna e tace, ma ad un certo punto, quando è troppo, esplode trascinando con sé la marea umana fatta di rabbia e voglia di giustizia sociale.

Perché se ne parla poco? Forse perché rappresenta un monito alle democrazie occidentali che lentamente stanno abdicando dal loro ruolo di creare benessere e giustizia sociale per arrendersi al dio mercato e al sistema della deregolamentazione che permette alla finanza e ai grandi gruppi delle “corporation” di spadroneggiare su tutto e tutti?

Il Cile di oggi assomiglia al finale del film “Joker”, dove si vede il protagonista – un uomo buono che la vita e la società hanno umiliato – trascinare con sé la rivolta collettiva degli oppressi che tutto distrugge con la forza della rabbia repressa. Se la politica, nei paesi europei, non prende finalmente coscienza che questo modello va riformato nel profondo, il rischio è che non basti più il popolo dei giovani guidato da Greta Thumberg, ma tra non molto ci troveremo a dover gestire il caos dell’esplosione della rabbia. Da noi prima prende la strada di farsi sedurre dal fanfarone di turno (prima Renzi ed oggi Salvini), ma quando il popolo scoprirà che sono due cazzari che non sanno e non possono dare risposte credibili al disagio del popolo allora non ci saranno più valvole di sfogo e il popolo dovrà cercare una soluzione da sé.

Quell’uomo è pericoloso

Quell’uomo è un pericolo. Uno che fa della semplificazione la bandiera della politica, dell’odio e della paura  la cifra del suo messaggio, dell’ambiguità delle fonti di finanziamento del suo partito il suo operare occulto, dell’isolamento dai partner europei la sua stella polare, è un uomo pericoloso. Parlo evidentemente del pugile suonato Salvini. Bene hanno fatto i 5 stelle e il PD a fermarlo prima che facesse precipitare  l’Italia nel baratro.

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L’ambizione personale gli ha dato alla testa e ha così fatto un testa-coda ritrovandosi fuori strada nel rally in cui credeva di essere il vincitore. Per questo certamente lo ringraziamo! Ora ricomincia a gridare, sbraitare, minacciare come un bambino a cui hanno rubato il gelato e pesta i piedi per terra livido di rabbia e incarognito con tutti i nemici (lui non sa cosa siano gli avversari). E trascina con sé un pezzo di Italia miope, insofferente e sofferente. Ma si tratta di un pezzo di Italia a cui hanno raccontato una favola e a cui per ingenuità ed ignoranza, questi connazionali sono felici di crederci. I problemi dell’Italia non sono quelli che lo “sceriffo suonato” racconta. Non c’entrano nulla i migranti e i burocrati europei. Queste sono semplificazioni imbarazzanti che allontanano lo sguardo dai veri problemi (al tempo delle “fake-news” si può raccontare tutto e il suo contrario con il rischio  che qualcuno ti segua e ti creda).

Governare un paese al tempo della globalizzazione è veramente molto difficile. La moneta unica non è arrivata al traguardo potendo contare su altrettante istituzioni adeguate; la tecnologia avanzata e l’intelligenza artificiale stanno erodendo gli spazi del lavoro, le problematiche industriali e la competizione dei grandi gruppi diventano centrali, non si possono risolvere grandi questioni con semplificazioni e creando ancora più danni all’ambiente con colate di cemento e liberalizzazioni delle norme sul fare impresa. Non si può, in tempo di crisi, fare una “flat tax” (tassa regressiva che favorisce i ricchi) con il rischio di smantellare il “welfare state” e non avere quindi i soldi per la sanità pubblica e la scuola e finire per lasciare che si curino solo coloro che hanno i soldi come negli USA. E potrei andare avanti nel mostrare il bluff dello “sceriffo suonato” ma il messaggio è per tutti coloro che si sono persi dietro questa stella caduta. La Lega Nord di Bossi era un’altra storia, dava voce al ceto produttivo del nord che era poco ascoltato e pagava tanto. Oggi non è più ieri, le problematiche sono differenti.

E’ vero, il PD ha sbagliato tanto, ha persino perseverato nei suoi errori con Renzi, inseguendo più della destra il mercato ed è diventato ancella del liberismo. E’ vero, i 5 stelle sono inesperti e ambigui (contengono destra e sinistra sotto lo stesso tetto) e non sanno in che direzione andare come l’asino di Buridano. E’ vero la sinistra-sinistra si è eclissata perché non ha più saputo parlare ad un popolo che era diventato ceto medio benestante prima della crisi. Ma queste ragioni non possono e non devono generare una mostruosità come lo sceriffo, ci vuole una rapida operazione di contro-informazione per raccontare non solo le malefatte ma il rischio di seguire il pifferaio ubriaco che potrebbe portarci dentro un buco nero. Dobbiamo lavorare tutti  per educare i leghisti smarriti. Intellettuali, persone di buona volontà, adottate un elettore della Lega e aiutatelo a capire e a redimersi. L’Italia ve ne sarà grata.

Crisi della sinistra e ascesa della destra-destra

Che il vice primo ministro Matteo Salvini sia inquietante, piuttosto volgare, forse anche un po’ ignorante, con una vena anti-democratica, insofferente alla pratica dell’informazione libera, forse omertoso e magari anche un po’ complice di malaffare, oramai una fetta consistente di italiani lo ha capito. E a ben vedere anche un po’ “bullo” con i deboli e supino con i potentati del cemento assente nei tavoli europei dove si fa politica, e incapace di affrontare il malaffare della terra dei fuochi e della criminalità organizzata.

Resta il fatto però che una grande fetta di italiani invece gli danno credito e sono in attesa di vederlo governare. Cosa possiamo dire, che quella fetta lì non ha capito nulla? Che è una fetta di popolazione più gretta, meno raffinata, poco avvezza all’analisi del sociale? Se anche fosse così – ammesso che lo sia – nulla cambierebbe nello stato delle cose.

Il problema è che c’è una parte consistente del popolo italiano che esce dalla crisi economica con grandi sofferenze, chi impoverito, chi con la sensazione che non vi sia futuro per sé e per i propri figli. Quella parte di italiani non hanno trovato risposta nelle forze politiche che per loro natura avrebbero dovuto rappresentarli: la “sinistra”. La sinistra – intesa come il partito che tutela le fasce deboli, i pensionati, i giovani, l’ambiente, che si occupa della giustizia sociale, della redistribuzione della ricchezza, della lotta alle mafie, alla corruzione, alla piaga dell’evasione fiscale, che si schiera dalla parte dei più deboli, facendo argine ai potentati economici e finanziari, quella sinistra lì, quella vera, in Italia è rimasta residuale, rappresentata da piccoli gruppi di eroici combattenti, che assomigliano agli ultimi giapponesi dispersi nelle foreste che non erano stati avvisati della fine della guerra.

Con l’evaporazione della sinistra, si è creato una tale vuoto che prima Grillo con i suoi “vaffa” e poi lo sceriffo da spiaggia, con la sua flat tax e no ai migranti, hanno saputo meglio interpretare, proprio grazie all’estrema semplificazione di problematiche complesse. Lì c’è una richiesta di soccorso da parte di una consistente fascia di italiani a cui la sinistra – soprattutto quella di stampo renziano – non ha saputo dare risposte. Anzi, la crescita dei 5stelle prima e della Lega ora è tanto più prepotente quanto è grande il silenzio e il tramonto della sinistra italiana. Un errore dopo l’altro: arroganza, presunzione, percezione di essere più colti, capaci, di essere un blocco di potere insostituibile, che in nome dei valori della sinistra si è avvicinata ai poteri forti della finanza, dei gruppi economici, delle élite europee trattandoli da pari. E pensando – come si ragionava un tempo – che “quando la marea sale porta su sia gli Yacht che le barche piccole”. Tipico pensiero neo-liberista, suicida, se praticato dai vertici di sinistra. Ed eccoci quindi in mezzo al deserto: a poco serve inveire, sbraitare, denunciare, scandalizzarsi e sdegnarsi ai quattro angoli del globo. L’ascesa di Di Maio prima e Salvini ora, sono la pura conseguenza dell’assenza della sinistra in Italia per aver abdicato dal suo ruolo tradizionale. E poco importa, se nell’epoca del trionfo del turbo-capitalismo i valori della sinistra sono minoranza nel paese. Forse, tenendo la barra dei valori al centro, almeno avrebbe rappresentato un blocco solido di opposizione, in grado di tracciare una rotta, mostrare una visione e costruire un’alternativa a questo scempio che va prendendo forma, in un clima ahinoi, da basso impero, tra soubrette da spiaggia, insulti alla stampa libera e affari con il più grande paese esportatore di gas e poco di democrazia. Se la diagnosi fosse condivisa, forse potrebbe anche cominciare la lunga traversata nel deserto, per recuperare il senso profondo della vita del paese insieme ad una visione seria e concreta di cosa voglia dire essere di sinistra, mostrando e dimostrando che tale visione – nel medio e lungo termine – è certamente competitiva e vincente. Ehilà? C’è qualcuno in ascolto?

La culla della destra e il fondamentalismo del mercato

Che rapporto c’è tra lo spostamento a destra dell’elettore italiano e la cultura liberista dei fondamentalisti del mercato? Un rapporto diretto e strettamente dipendente. La cultura del mercato, nonostante il suo fallimento nella crisi USA dei mutui sub-prime, resiste e si rinforza in tutto il mondo occidentale. Il mercato e la sua logica sottesa si fonda sulla competizione, sul calcolo, sull’interesse individuale e sviluppano un’antropologia dell’egoismo e dell’individualismo. Forse anche per la mancanza di un’alternativa chiara, forte e convincente, nonostante il disastro creato in tutto il mondo, persiste nell’essere l’unica ideologia riconosciuta e apprezzata da molti.

Ma nella logica del capitalismo predatorio neo-liberista non c’è spazio per comportamenti virtuosi di attenzione ai più deboli, di solidarietà diffusa, di ripensamento del modello di sviluppo, di attenzione all’ambiente e ai cambiamenti climatici. Nulla di tutto ciò. Spesso la cultura dominante si alimenta e cresce nella sua identità anche per contagio: se io sono egoista, individualista e indifferente agli altri, finisce che intorno a me sviluppo questo tipo di atteggiamento. Così come anche i comportamenti virtuosi sarebbero contagiosi se avessero spazio per esprimersi. Gesti gratuiti di attenzione agli altri, attenzione all’ambiente, gesti di solidarietà, di solito creano un volano virtuoso che contagia le persone, gli ambiti su su fino alle pratiche diffuse. Ma la cultura del mercato non lascia spazio alla virtuosità dell’altruismo e della solidarietà. Lo stronca sul nascere nella sua aberrante logica della competizione infinita e spietata.

Così possiamo tentare di spiegare perché le destre crescono e proliferano diventando maggioranza nel paese: sono spinte dall’idea che il mercato risolva tutto, che poche tasse lascino più soldi per accedere a più consumi di beni e servizi, che l’altro, il meridionale, lo straniero, il diverso, il nero, l’africano, sono pericoli da estirpare perché minacciano il nostro benessere, perché l’ordine pubblico tranquillizza e rasserena chi lavora e fa soldi per essere ancora più ricco e benestante e tutto questo in un circolo vizioso infinito in cui quello che conta è solo l’interesse individuale, l’egoismo e il mio benessere sulle spalle della disgrazia dell’altro. Una lotta darwiniana per uno status economico che non ha limiti. Così la partita è chiusa. Con questa cultura del sé, non c’è spazio per il “noi”, nonostante brillanti menti, figure come Papa Francesco, filosofi o teorici critici della modernità ne raccontano la miseria. L’ebrezza di questa corsa senza una meta è la cifra delle destre che abbinano individualismo, egoismo, autoritarismo, nel segno di un benessere economico che la storia ha abbondantemente smentito. E allora giù con il cemento, via le regole, basta con i lacci e lacciuoli, deregulation in tutti gli ambiti, nel nome della libertà. Tav, Tap, varianti autostradali, porti, infrastrutture, il partito del “si”, quelli del “fare”, in una giostra mostruosa dove anche le vittime credono di essere felici mentre chi ne gode sono i palazzinari, le imprese di costruzioni, gli amministratori corrotti, e tutto l’indotto in una folle corsa verso il baratro. Questo modello è storicamente perdente e le destre lo cavalcano con l’ilarità e la gioia di chi ha conquistato il monopolio della visione del mondo. Se non si parte da una revisione della Weltanschauung (visione del mondo), ci terremo questa brutta destra e la vedremo crescere per molto tempo. Il fallimento del PD italiano sta proprio nell’aver voluto fare politiche di destra dicendosi di “sinistra”. Alleluia!

Dilemma etico

Il vostro superiore vi ordina di fucilare i prigionieri. Che fate? Ubbidite alla norma e all’ordine o vi rifiutate perché voi non potete uccidere un altro essere umano?
Il ministro della propaganda e del ridicolo (diciamocelo una volta per tutte) non sa fare politica ma è bravo solo nel costruire il consenso tra gli strati più in difficoltà e ingenui della popolazione. Non va a discutere sui tavoli in Europa, sede deputata a fare politica sull’immigrazione e così, mentre 200, profughi e naufraghi entrano tranquillamente in Italia (certificati dalla testimonianza del sindaco di Lampedusa), l’uomo ridicolo ricomincia la sua battaglia contro le ONG e contro una coraggiosa comandante tedesca che ragiona con umanità e che al dilemma etico ha saputo rispondere senza esitazioneOnore al coraggio della capitana della Sea Watch, coraggio che la politica ha smarrito. Salvini,  è un uomo ridicolo e fa vergognare molti cittadini di essere italiani, peggio di Berlusconi ai tempi del “bunga bunga”. Eppure siamo la terra del rinascimento, di Dante, di Verdi e di Leonardo. Come possiamo accettare tanto degrado? Il dilemma etico si risolve con la disobbedienza civile a norme disumane e all’incompetenza di un ministro che non sa fare il proprio lavoro. Punto!