Destination Mboro, il regno della teranga

Per raccontare una settimana in un villaggio come Mboro ci vorrebbe un libro, non un blog. La vita nei villaggi è così particolare che ogni aspetto meriterebbe pagine e pagine di descrizioni, analisi e commenti ma una cosa è certa: da oggi ognuno di noi toubab in trasferta in Senegal ha una seconda famiglia Senegal. Ma andiamo con ordine per capire meglio.

 

Mboro non è molto lontano da Dakar. Se non fosse per il traffico caotico della capitale, si potrebbe raggiungere in poche ore di auto. Sopravvissuti alla bolgia cittadina, il viaggio diventa molto più rilassato. Lingue di asfalto nero si inoltrano in una vegetazione rigogliosa in cui enormi baobab si stagliano fino all’orizzonte. Dopo aver macinato chilometri in quello che sembrava il set del Re Leone, la strada si fa più sconnessa. Siamo infatti arrivati a Mboro e nelle strade secondarie l’asfalto si trasforma istantaneamente in una soffice sabbia che, nei punti all’ombra, diventa soffice giaciglio per uomini, donne e bambini. Le auto sono in netta minoranza rispetto ai carretti trainati da cavalli o muli e le strade brulicano di animali: cani magrissimi e con le orecchie morsicate, galli che si pavoneggiano davanti alle galline, gatti, qualche geco, scarafaggi e blatte (ma questo è un altro discorso) . Scendiamo dal mezzo. Il caldo è soffocante, la sabbia che ricopre le infradito è rovente e intorno a noi iniziano a comparire molti bimbi: “bonjour toubab”. Ci dividiamo in coppie di due e veniamo subito affidati alle nostre nuove famiglie. Io e Veronica vivremo la nostra settimana con Frank, un calciatore di poco meno di 30 anni con i capelli raccolti in piccole treccine nere. Superato un portone all’ombra di grossi rampicanti entro in quella che in breve tempo chiamerò “casa mia”. E’ un’abitazione piuttosto rustica. Lungo tutto il lato sinistro del cortile corre la casa della famiglia: Una costruzione di un piano (come quasi tutte le case della zona) con finestre rettangolari senza vetri che si aprono lungo un muro biancastro. Sul lato opposto 3 aperture segnalano altrettanti locali (tra cui la mia futura stanza) e poco più avanti, all’ombra di un boschetto di banani, si innalza l’apertura del pozzo. In fondo al cortile ci sono il pollaio e la stalla di Black, il vigoroso cavallo della famiglia. Girando infine intorno alla casa si arriva alla cucina e ai bagni.

Incontriamo la famiglia, o meglio, parte della famiglia. Infatti è pomeriggio inoltrato e in molti stanno lavorando nei campi, e tra questi c’è anche “mio padre” che produce vino di palma. Conosciamo quindi la madre di Frank che purtroppo, essendo malata, non avremo modo di frequentare a fondo. Per casa, però, ci sono Elen e Agnes, le disponibilissime sorelle di Frank che subito ci fanno mettere a nostro agio.

L’estrema ospitalità dei senegalesi, che già mi aveva colpito a Dakar, a Mboro arriva al suo apice. Questa attenzione verso gli ospiti non è un’eccezione della famiglia in cui sono finito io ma è largamente diffusa tra tutti. Le 3 famiglie che hanno ospitato le altre coppie di toubab si sono comportante esattamente nello stesso modo e anche i ragazzi con cui passavamo le giornate avevano verso di noi degna di un capo di stato straniero. O forse proprio di un re. Un giorno, infatti, mentre camminando cercavamo riparo dal sole sotto alcuni ombrelli (un po’ come i cinesi davanti al Duomo) nessuno di noi poteva tenerne uno tra le mani perché, come ripeteva Jean, “you are the king”. E ci sarebbero moltissimi altri esempi da poter raccontare. Come quello di Gaston, il fratello di Silvia e Fabrizio, che non permetteva loro di portare nessun tipo di peso o di Elen, mia sorella, che non solo ha voluto lavarmi i vestiti (cosa per cui già le costruirei un monumento) ma li ha addirittura stirati. Tutte queste attenzioni non sono casuali ma hanno un nome ben preciso: teranga. La teranga altro non è che lo smisurato rispetto che il senegalese nutre nei confronti dell’ospite, di qualunque tipo sia. Una famiglia può non avere poco o nulla ma trattare l’ospite con guanti di velluto. Non a caso, appena arrivati a Mboro, la famiglia di Gaston ha sgozzato un maiale e la mia famiglia mi ha accolto con un piattone di spaghetti.

Sorprende anche il fatto che la teranga non viene vista come un peso ma anzi, è un piacere. Tutte queste attenzioni sono estremamente spontanee e guai a non assecondarle. Quando in una discussione salta fuori “teranga” ormai sei spacciato: non puoi più scappare. Il “no” non viene accettato come risposta. Se ti viene offerto qualcosa, devi accettarlo. Poi magari un giorno ricambierai il favore, ma in quel momento la scelta è solo su “cosa” accettare, non sul “se” accettare.

Ma cosa c’è a Mboro da vedere? E cosa c’è da fare? domani ve lo dico 🙂