Sono in Italia. Dopo esattamente un mese passato in Senegal dal pomeriggio di ieri i miei piedi camminano su terra italiana e, devo ammetterlo, è traumatico. Ogni volta che torno da un viaggio, mi capita sempre di trovare qualche difficoltà a riadattarmi ai ritmi e alla vita di tutti i giorni ma questa volta è decisamente un altro discorso.
Il mese che ho passato in Africa è stato così diverso -sotto mille punti di vista- che tornare alla vita da toubab non sarà facile. Il modo di vivere in Senegal -come spero di avervi fatto capire con questo blog- è estremamente differente dal nostro e, sotto alcuni aspetti, oserei dire migliore. Certo è che la comodità dell’acqua corrente, la sicurezza dell’elettricità senza black out o il miracolo della carta igienica un po’ mi sono mancati ma mi sono reso conto che non solo è possibile vivere benissimo anche senza tutte queste nostre comodità ma che milioni di persone lo fanno. Non che prima non lo sapessi, ovvio, ma quando provi una cosa con mano l’effetto è molto più profondo. E così, mangiare per terra da uno stesso piatto, lavarsi con secchi d’acqua, il muezzin che canta alle 5 del mattino o il vivere a lume di candela sono diventati la normalità per me.
Ma c’è di più. La sera prima di partire ho passato molto tempo sul balcone della nostra casa e, sferzato da un fresco vento, mi guardavo intorno; il container arrugginito in fondo alla strada, i cavalli legati davanti al campo da calcio, la chiesa del quartiere, le oceaniche pozzanghere, i bambini che giocano in mezzo alla via, la sabbia, le capre al pascolo e mille altri dettagli si sono stampati nella mia mente perchè -solo in quel momento me ne sono reso veramente conto- di lì a poco non li avrei più rivisti per molto tempo. E se ora guardo fuori dalla finestra di camera mia, per le strade di bambini che giocano non se ne vedono proprio, la sabbia è “diventata” l’erba delle aiuole, asfalto e cemento ricoprono quasi ogni centimetro di terra e gli animali per strada si sono trasformati in automobili. Capite bene che guardare fuori dalla finestra metta un’immensa tristezza. Un sentimento che cresce ancora di più quando vedi due passanti che si incrociano, quasi si sfiorano, ma non si degnano di nessun cenno.
E infatti, abitando in quello che è il Paese più bello del mondo, sono proprio le persone a mancarmi di più del Senegal. Anche se un mese non è poi così lungo, il rapporto instaurato con alcuni di loro è stato così profondo che, più che amici, sono diventati quasi fratelli. Salutarli non è stato facile e, detto con sincerità, gli occhiali da sole hanno reso tutto molto più facile.
Durante il viaggio di ritorno, in aereo ho chiacchierato per molto tempo con la persona seduta accanto a me raccontandole della mia esperienza. Dopo avermi ascoltato, come se fosse un dottore, mi ha detto «è chiaro che ti sei ammalato». Di quale malattia si tratti non è difficile intuirlo: il mal d’Africa, la sensazione di grande nostalgia che provano le persone che tornano dal continente nero. Da notare che non si trattava di un dottore qualunque ma di una suora missionaria in Africa da 13 anni…quindi c’è da fidarsi 🙂
Ma c’è un fatto, un dettaglio, che riesce a mitigare questa incurabile malattia. E’ la consapevolezza che il mio allontanamento dal Senegal è solo momentaneo. Sono mille i sogni e i progetti che balenano nella mente mia e degli altri ragazzi -toubab e senegalesi- e che cercheremo di realizzare in futuro, magari anche con il vostro aiuto.
Alla fine, abbiamo pur sempre 20 anni!
Marco
P.S. Anche se ormai non sono più in Senegal, ho ancora una discreta mole di storie da raccontarvi…quindi tornate anche nei prossimi giorni!