Al Farah, il campo profughi di Ibrahim Omar Sarhan e luogo della detenzione di Majdi, dei prigionieri politici palestinesi


Meroledì 13 Luglio l’esercito israeliano ha fatto un’incursione notturna all’interno del campo profughi di Al Farah, a nord di Nablus, perquisendo alcune case. Scopo dell’intera operazione, riportano fonti di sicurezza palestinesi, era la ricerca di un attivista del Jihad islamico. Nel corso del Raid israeliano, quella notte tutte le strade per il campo sono state chiuse e i cecchini hanno occupato i tetti delle abitazioni per monitorare la zona. Ibrahim Omar Sarhan, un giovane ragazzo di 21 anni è stato ucciso a sangue freddo dall’esercito israeliano con un solo colpo. E’ stato “accidentalmente confuso” con il ragazzo che in realtà stavano cercando e che alla fine non sono riusciti a trovare. Ebbene si, un ragazzo muore per errore. Ma quanti sono gli errori commessi continuamente dai soldati israeliani, addestrati per uccidere, per generare panico e terrore ovunque si rechino? Quanto può essere considerata un errore la morte di un ragazzo che avviene dopo un’ora esatta di agonia, passata a soffrire per terra, inerte sull’asfalto, come uno scarafaggio schiacciato, di fronte a casa sua? Infatti, il ragazzo dopo essere stato sparato ad una gamba e dopo non aver riconosciuto in lui il soggetto per il quale si ha fatto irruzione all’interno del campo profughi, è stato abbandonato al suo destino, impedendo a qualsiasi soccorso palestinese di raggiungerlo affinché potesse essere raccolto da terra, trasportato urgentemente all’ospedale di Nablus e ricevere le cure di emergenza necessarie per tentare di salvarlo. I soldati hanno impedito che ciò avvenisse, minacciando con le armi ( nulla di nuovo ) la famiglia del giovane ferito, così come anche gli altri abitanti delle case di Al Farah, costretti ad assistere, inesorabilmente, inermi, alla straziante vita del proprio figlio che, attimo dopo attimo, si spegneva di fronte ai loro occhi colmi di dolore. Non aver potuto fare nulla dinnanzi alla morte di Ibrahim è stata anch’essa stessa come una morte per il padre del ragazzo. Con i compagni ci siamo recati ad Al Farah per portare le nostre condoglianze alla famiglia. Una città avvolta nel silenzio di un lutto inaspettato si è prostrata ai nostri occhi. Gli unici suoni confortevoli erano quelli delle voci tenere e bisbigliate di alcuni bambini che, con in mano una rosa rossa o bianca, ordinati su due file, hanno raggiunto l’abitazione del giovane Ibrahim a piccoli passi a piedi ( e noi dietro di loro ), partendo organizzati dallo spiazzale dell’edificio dove si tiene il loro Summer Camp. Una volta entrati nell’abitazione, seduti su tre sedie davanti a noi c’erano il cugino, lo zio e il padre di Ibrahim, quest’ultimo rimasto in silenzio per tutto il tempo, con il capo chino e lo sguardo smarrito, perso nel vuoto. Non è quantificabile il dolore che quel padre porta con sé dentro al petto, per aver visto suo figlio innocente, ennesima vittima di Israele. “Il ragazzo è stato sparato mentre si stava dirigendo in moschea per la preghiera dell’alba” dice lo zio, l’unico ad avere la forza per poter parlare e raccontare il fatto. Intanto, il governatore Tubas ha condannato il raid israeliano e l’uccisione a sangue freddo di Ibrahim, dichiarando che l’esecuzione del giovane palestinese costituisce una gravissima violazione della Quarta convenzione di Ginevra, del diritto internazionale e delle convenzioni sui diritti umani.
Tutto ciò è avvenuto ad Al Farah, un paesino famoso in passato per essere stato il luogo dove venne costruita una struttura durante il protettorato inglese, utilizzata successivamente dal 1982 al 1995, dal governo israeliano come luogo di detenzione amministrativa per i prigionieri politici, principalmente giovani e studenti attivi e mobilitati. All’interno di questo campo di detenzione, i prigionieri subivano alcune pesanti torture fisiche e psicologiche, bendati per interi giorni sotto il sole rovente o sotto la pioggia pesante, con quaranta gradi di temperatura o dieci, legati con le mani dietro alla schiena, in quattro a condividere un masso di 40cm x 40cm, contro i quali venivano lanciati alcuni massi di pietra da parte dei soldati israeliani che si appostavano dall’alto, sul cornicione dei bassi edifici di sorveglianza del’area circostante. Oppure cabine di metallo, strette e buie, all’interno delle quali era impossibile muoversi ( gli unici movimenti praticabili all’interno di queste casse dell’orrore era quello di stare in piedi o di sedersi, con le ginocchia strette verso al petto per cercare di addormentarsi, cosa che era impedita a ciascuno di fare poiché i soldati battevano costantemente e violentemente delle spranghe di ferro contro le strutture, così da mantenere svegli chi vi fosse all’interno). Cabine queste, prive di fessure per vedere la luce del giorno, calde e soffocanti, con scarsa quantità di ossigeno sufficiente per l’organismo di qualsiasi essere umano. Tutto ciò era studiato dall’esercito israeliano nel tentativo di sfinirli, martoriarli nel fisico e nella mente, per costringerli a parlare, a confessare ciò che sapevano, a confessare anche ciò che in realtà non sapevano. Majdi, il nostro coordinatore palestinese, cercando di mantenere quel sorriso che lo ha sempre accompagnato, ci guarda dicendo : “ This is my place”; si perché sin da quando era un giovane ragazzo attivista politico è stato deportato in quel campo per ben 15 volte, l’ultima delle quali vi è rimasto per 45 giorni, e in tutte non ha mai ceduto alle intimidazioni delle torture subite, non ha mai confessato, non si è mai rassegnato. E’ inutile cercare di descrivere ciò che ha passato, perché solo lui, e chi altro come lui, può solamente saperlo, riviverlo, rivederlo attraverso il ricordo di quelle immagini che i propri occhi possono ancora proiettare nella mente. Oltre alle torture, i prigionieri disponevano di poco cibo e poca acqua, in compenso venivano concesse loro 4 sigarette al giorno di marca escoté, che in israeliano vuol dire, guarda caso, “chiudi la bocca” Non credo fosse un modo gentile e premuroso per dire ai prigionieri di smettere di fumare considerato il fatto che il fumo nuoce gravemente alla salute. Majdi racconta ancora con molta ironia di come si fosse venuto a creare un giro “ illecito e corrotto” di contrabbando, proprio di quelle sigarette che venivano loro concesse, le quali non venivano fumate bensì mantenute astutamente nei pacchetti e scambiate con i soldati israeliani in cambio di cibo e acqua : “ We were the ones who created the corruption in this detention camp !”
Ora questo campo è riabilitato a centro sportivo e museo, in possesso dell’autorità palestinese.

Queste due storie, la prima recente, la seconda del passato, hanno entrambe in comune la sofferenza generata dalla violenza. Sono entrambe il frutto dello stesso Apartheid messo in atto dallo stato di Israele.
Questo è Al Farah, campo profughi a nord di Nablus, Cisgiordania, questo è ciò che succede in Palestina.
Free Palestine !

Lotta senegalese tra sport e folklore

Oggi a Dakar in molti non dormiranno. Molti passeranno la notte in strada a festeggiare, soprattutto qui a Guedawaye. Tutto questo perché quella di oggi è una giornata molto importante per lo sport del Paese. Nel tardo pomeriggio di oggi -domenica- è infatti finita la stagione di lotta senegalese, uno sport che raccoglie le passioni e l’entusiasmo della stragrande maggioranza dei senegalesi. In confronto, la dedizione degli italiani al calcio sembra solamente un leggero interesse.

Nello stadio di Dakar è quindi andata in scena davanti a migliaia di tifosi sulle tribune e a milioni in tv un gran finale di stagione tra Tyson, atleta di quasi 140 chili e 39 anni, e il giovane Balla Gaye II che ha bloccato la città dalle 5 del pomeriggio fino alle 21.

Una lunghissima maratona in cui lo sport giocato ricopre solo una piccola parte. Prima del combattimento (ne erano in programma 6) bisogna effettuare un lungo e folcloristico rituale di preparazione. Buffi riti religiosi si mischiano al classico riscaldamento muscolare sotto gli occhi delle tribune e con il pubblico in delirio.

L’incontro più atteso, quello per cui molti senegalesi hanno sborsato gran parte del loro stipendio per assistere è durato veramente poco. Balla Gaye ha infatti battuto il suo rivale Tyson in 10 secondi esatti. Non è stato un KO, sia chiaro, perché in questo tipo di lotta -dalle regole un po’ complesse- è necessario semplicemente buttare a terra (nella sabbia) l’avversario e Tyson, a quanto dicono, ha subito una delle peggiori umiliazioni della sua vita. Dopo solo qualche pugno in faccia, infatti, è stato scaraventato di faccia nel terreno.

Noi saremmo dovuti andare allo stadio ma alla fine abbiamo seguito la gara a casa di amici e, vedendo come sono andate le cose, abbiamo fatto un’ottima scelta. Non appena Balla Gaye ha vinto, subito è esplosa la festa. I suoi supporter hanno letteralmente invaso il prato dello stadio e la polizia, caschi in testa e manganelli in pugno, ha cercato di proteggere il neo-campione. La televisione nazionale ha mostrato distese di tifosi a terra che si sono sentiti male, forse per il caldo o forse non hanno retto l’emozione.

E dopo la gara inizia la festa per le strqde della città. Un lungo carosello di auto, taxi, pullman e uomini di corsa si sono incamminati verso il quartiere di appartenenza di Balla Gaye che, guardacaso, è proprio Guedawaye, dove abitiamo noi. Trovare un taxi è stata un’impresa e anche il viaggio verso casa non è stato dei migliori. La strada era spesso invasa da improvvisi blocchi di tifosi e alcuni di questi, forse un po’ troppi, hanno cercato di scroccarci un passaggio con maniere a volte discutibili.

La festa è proseguita per tutta la notte mischiandosi anche con i festeggiamenti per il ramadan che inizierà proprio tra poche ore. 

Marco

P.S. Da domani passeremo una settimana nel villaggio di Mboro, a nord di Dakar. Non avremo internet e per questo il blog non verrà aggiornato. Vi aspetto domenica per i nuovi racconti dal Senegal

Basta un poco di musica e…

Non ci vuole molto per divertirsi in Africa. Bastano un pallone e quattro sassi e ogni strada diventa San Siro, con una tanica rotta i bambini possono passarci ore intere e serve solo un po’ di musica per trasformare qualunque posto in una discoteca. Se poi c’è un computer, una connessione ad internet ed un paio di casse sembra di essere su una spiaggia di Rimini. Ed è proprio così che oggi l’ufficio del C.E.S.E.S -dopo aver parlato per oltre un’ora di mafia- si è trasformato in una grande sala da ballo.

Ed è impressionante la bravura di ognuno di loro. Io sinceramente credo che i senegalesi -o gli africani in genere- abbiano articolazioni che la maggior parte degli occidentali si possono solamente sognare. Riescono a muoversi con una tale sinuosità che ogni ballo si trasforma in una danza estremamente sensuale. Abbiamo registrato alcuni video ma purtroppo al momento non riusciamo a caricarli, quindi cercate su you tube qualche danza per capire quello di cui stiamo parlando.

A questo punto potete facilmente immaginare l’impresa titanica di insegnare a noi qualche passo di queste danze. Noi, tronchi di pino occidentali, riuscivamo a muoverci con la sensualità di un toner da stampante.

Ma dopo i nostri goffi tentativi, le parti si invertono. Tocca a noi cercare di insengar loro qualche ballo. E qui viene il bello. La nostra conoscenza delle danze popolari italiane è piuttosto arrugginita (quasi completamente corrosa) e quindi…ci siamo buttati sul facile facile. Il “gioca joue”, i vatussi, qualche ballo di gruppo e così via. E questo è proprio il caso in cui gli allievi superano il maestro. A loro bastava vedere per una volta il ritmo ed era come se conoscessero quella canzone da anni.

Ed è proprio questa un’altra incredibile caratteristica dell’Africa: la spontaneità. «Siete in Africa, abbandonate ogni timidezza» ci dice Luciana, la cooperante che ci ha organizzato questo viaggio in Senegal. Lasciando le zone turistiche è estremamente difficile imbattersi in atteggiamenti falsi o costruiti. Non fraintendetemi: non sto dicendo che sono “tutti amiconi” con noi, che nessuno ci vede come “polli da spennare” ma che qui tutto è estremamente spontaneo ed improvvisato. Anche per questo gli orari sono semplicemente indicativi e risulta piuttosto difficile riuscire ad organizzare qualcosa di fisso. Ma vivere senza l’angoscia dell’orologio è forse un male

Certo non bastano 3 giorni per assimilare i ritmi e la spontaneità del continente nero, ma tra un mese chissà.

Marco

Senegalesi quasi italiani e italiani sempre più senegalesi

Non c’è voluto molto a rompere il ghiaccio con i ragazzi del “Club Italia” del liceo di Limamoulaye. Gerard, Assan, Ramatulai, Omar, Salamataba e tutti gli altri ragazzi hanno scelto di diventare un po’ più italiani dedicando al nostro Paese 5 ore di lezione a settimana per imparare lingua e cultura. I frutti sembrano essere molto buoni: quasi tutti capiscono senza problemi ogni nostro discorso. Abbiamo iniziato a parlare e chiacchierando ci si rende conto che, alla fine, non siamo poi così diversi. L’anno prossimo alcuni di loro inizieranno l’università. Sebani e Ramatulai andranno a studiare lingue per imparare ancora meglio l’italiano mentre Leau si iscriverà a giurisprudenza.

Dalle foto un po’ sbiadite che ricoprono i muri e che raffigurano i più bei monumenti del nostro Paese e anche da quello che dicono si capisce che dell’Italia amano proprio la nostra millenaria storia e la ricchissima cultura. Cercano poi di farci assaggiare un po’ della loro provando ad insegnarci qualche parola in Wolof, la lingua ufficiale del Senegal, ma la voglia di conoscersi è tale da far rapidamente naufragare il tentativo.

Pranziamo con alcuni di loro a casa nostra e veniamo presto raggiunti anche da tutti gli altri ragazzi del club. Avremmo dovuto tenere una “lezioncina” di italiano molto leggera, facendo loro ascoltare canzoni più o meno recenti di artisti italiani (qui i ragazzi si sono fermati a Max Pezzali e Toto Cutugno) ma uno dei numerosi black out che affliggono i sobborghi della città ci ha costretti a cambiare programma. E così abbiamo fatto qualche gioco in lingua fino a quando non ci siamo spostati in spiaggia. Dakar, infatti, è una penisola nell’oceano Atlantico e le sue coste sono un’infinita distesa di sabbia sferzata da un vento caldo e da potenti onde. La spiaggia è anticipata da una ristretta pineta che, ad onor del vero, è zeppa di rifiuti abbandonati o incendiati. Ma una volta superata la pineta, i piedi affondano nella soffice sabbia rossiccia che si estende per diverse decine di metri fino al mare. Nessuno fa il bagno a causa delle altissime onde ma la spiaggia è comunque invasa da persone. Tutti uomini -le uniche ragazze sono le “nostre toubab”- e tutti impegnati in attività sportive. Calcio, flessoni, addominali ma soprattutto lotta. La lotta senegalese è infatti uno degli sport più seguiti nel paese (un po’ come il nostro calcio). I lottatori riempiono gli stadi e anche i ragazzi più piccoli conoscono i fondamenti di questa arte allenandosi per diverse ore al giorno.

E dato che Las, la nostra guardia del corpo, è anche un lottatore semi professionista, ne approfittiamo per imparare qualcosina sulla lotta. Jacopo riesce ad ottenere buoni risultati mentre il povero Michele è stato messo K.O. in 3 secondi netti. Ma la lotta non è solo azione. Ogni incontro è preceduto da una coreografia e il nostro tentativo di impararla catalizza l’attenzione di mezza spiaggia.

Rientriamo a casa e a cena ci rendiamo conto che, mentre i ragazzi del club Italia cercano di diventare un po’ più italiani, anche noi siamo già diventati un po’ più senegalesi. Mangiare spaghetti al sugo seduti sulla natta (il tappeto tipico senegalese) tutti dalla stessa bol (la grossa pentola usata qui) non è proprio un qualcosa da italiani modello 🙂

Marco

Benvenuti nella “vera Africa”

«Regardez bien: cette c’est l’authentique Afrique» (Guardatevi bene intorno perché questa è la vera Africa). Con queste parole Las, la nostra personale “body guard”, ci ha accolti all’aeroporto di Dakar. Il continente nero, tuttavia, ha deciso di accoglierci in modo piuttosto inusuale: con un violento acquazzone. E così, mentre la città lentamente si svegliava -erano le 6 del mattino- il nostro furgone sfrecciava per le vie allagate della città. Ci è voluta una buona mezzora per raggiungere quella che sarà la nostra casa per il prossimo mese e mentre il minivan affrontava il traffico, il profilo di Dakar cambiava lentamente. I palazzi rifiniti con cura lasciano il posto a case di pochi piani in cemento, l’asfalto cede il posto alla terra battuta (fango nel nostro caso), molte auto vengono rimpiazzate da carretti trainati da cavalli e i bordi delle strade si ricoprono lentamente di sabbia e rifiuti. Siamo nelle Banlieue!

Stremati da un viaggio che è durato quasi 18 ore, la nostra prima giornata in Senegal inizia dormendo. Sonnecchiando riparati dalle zanzariere e accarezzati dal soffio dei ventilatori la mattina è trascorsa tranquilla fino all’improvviso e repentino risveglio. La “colpa” è stato il camion della nettezza urbana che ci ha anche fatto vedere la prima, vera, grande particolarità di Dakar. Un lungo colpo di clacson ha accompagnato il suo arrivo (proprio sotto le finestre del nostro palazzo!) e in pochi istanti per le strade si sono riversati uomini, donne e bambini che trascinavano la spazzatura da depositare nel camion. Ci sono voluti almeno una ventina di minuti prima che tutti gettassero i propri rifiuti perchè, a causa delle strade strette e in terra battuta, il mezzo non può raggiungere ogni zona del quartiere e quindi la raccolta avviene solo in alcune vie ben precise.

Intanto, piacevolmente sdraiati sul classico tappeto senegalese sul quale si fa praticamente di tutto, abbiamo aspettato l’arrivo del pranzo. Una lunga attesa terminato solo verso le 14.30 (che sarebbero le 16.30 italiane, quindi immaginate la fame!) quando è arrivata la nostra cuoca. Abbiamo mangiato come perfetti senegalesi -a terra e dalla stessa grande pentola- il piatto tipi del paese: il ceebu jep, una pietanza a base di riso, pesce e verdure.

Nel pomeriggio -che in realtà è già sera- abbiamo fatto il nostro primo giro per Guedawaye lungo la via del mercato. Oltre ai colori e ai profumi, quello che colpisce è la quantità di persone che si aggira per le strade. E’ un brulicare incessante quello che per tutto il giorno anima le vie della periferia. Anche ora -a tarda notte- il viale sotto il balcone dal quale sto scrivendo è continuamente percorso da persone, soprattutto giovani e anche qualche bambino. E sono proprio i più piccoli ad essere i “padroni della strade” fino a quando non cala la notte. Colpisce anche la loro disponibilità. Con la goffa (finta) discrezione che solo un bambino può avere, mentre camminiamo per le strade una continua nuvola di bimbi si affolla attorno a noi per salutare, stringerci la mano o per essere immortalati dallo scatto di una macchina fotografica. E tutti questi bambini hanno una sola, continua parola in bocca: toubab. “Toubab” è infatti il termine con cui gli occidentali, o più in generale le persone dalla pelle bianca, vengono indicati. E nei sobborghi di Dakar non si incontrano tutti i giorni persone così diverse. Proprio per questo sono indimenticabili le espressioni di stupore che si stampano sui volti dei bimbi che per la prima volta incontrano persone così strane e diverse.

Ma dopo questa giornata di relax domani -che è già oggi in realtà- inizia il “vero lavoro”. Primo appuntamento della giornata l’incontro con i ragazzi del “club Italia” del liceo del quartiere e poi…be’, tornate domani e lo scoprirete!

Marco

Italia, arrivederci!

Forse dovrei andare a letto, ma il sonno stasera proprio non vuole arrivare.

Tra poche, pochissime ore, inizierà questo lungo viaggio in Senegal. Sarà uno dei viaggi più importanti della mia vita, forse proprio il più importante.

In questo momento faccio fatica non solo a scrivere come mi sento ma anche e soprattutto a capirlo io stesso. E’ un mix tra eccitazione e paura, tra tensione e stupore. Questo viaggio, in effetti, sarà un po’ un salto nel buio in un Paese lontano e sconosciuto ma penso, anzi ne sono certo, che il mese che passerò in Senegal mi cambierà profondamente. Con questo blog cercherò -con i miei 6 compagni di viaggio- di raccontarvi il Senegal per come lo conoscerò. Per questo motivo chiedetemi qualunque cosa: dubbi, curiosità, notizie sono più che graditi. Oltre a cercare di rispondervi mi aiuterete a valutare aspetti che forse non avrei considerato. Quindi non siate timidi, mi raccomando!

E per salutare ognuno di voi vi faccio un piccolo regalo. Vi mostro le 3 location principali di questo viaggio. La prima -e principale- sarà Guediawaye, un “quartiere” della periferia di Dakar dove risiederemo per la maggior parte del tempo. Un altro lungo periodo sarà a Mboro, un villaggio lungo la costa del Paese, a nord della capitale mentre il terzo luogo sarà Joal-Fadiouth, un paese di pescatori non molto lontano dal confine con il Gambia.

Quando leggerete queste poche righe, io probabilmente sarà in volo. Partirò alle 13.35 da Malpensa con un aereo marchiato Royal Air Marocc (un po’ di pubblicità gratuita dai!) e dopo una sosta di circa 10 ore a Casablanca dovrei arrivare a Dakar all’alba di martedì.

Si accettano scommesse su quante valigie arriveranno a destinazione! 🙂

Marco

Il “trauma” di preparare le valigie

 

Arrivati a questo punto, non si può parlare più di «quanti giorni mancano alla partenza» ma «tra quante ore si parte?». Mentre sto scrivendo, mancano esattamente 48 ore e una ventina di minuti prima che un aereo lasci la pista di Malpensa con a bordo me, Caterina, Fabrizio, Silvia, Michele, Veronica, Jacopo e i nostri faraonici bagagli.

Ma come sa ogni viaggiatore, queste sono le ore più difficili. Quelle in cui il tuo pensiero è già arrivato a destinazione ma il corpo deve affrontare una sfida degna di un racconto epico: preparare le valigie.

Come raccontavo qualche giorno fa, avendo quasi 4 quintali di franchigia non dovremmo avere nessuno dei problemi che normalmente affliggono chi viaggia in aereo. In realtà è l’esatto contrario, e “la colpa” è di molti di voi! 🙂

Grazie alle vostre infinite donazioni, 392 chili di bagaglio sono diventati pochi, troppo pochi. E così, dopo aver selezionato i materiali da portare subito – lasciando il “surplus” per una spedizione autunnale- la sfida si è ripresentata. Ma non temete. Come ogni viaggiatore che si rispetti non abbiamo lesinato ogni tipo di violenza contro i nostri bagagli per far entrare fino all’ultima maglietta, all’ultimo libro, all’ultimo quaderno o all’ultimo giocattolo.

Effettivamente abbiamo anche abbondato un po’, sforando il limite di peso del biglietto ma speriamo nella comprensione di chi lunedì mattina ci peserà le valigie. Incrociamo le dita!

Marco

P.S. Alla fine di computer ne abbiamo trovati ben 2! Grazie

 

 

Un traguardo irraggiungibile…anzi no!

Quando abbiamo prenotato i biglietti aerei non ci sembrava vero: a nostra disposizione c’erano ben 392 chili di bagaglio! Sembrava chiaramente un errore! Così ho preso in mano il telefono per chiamare il call center della compagnia aerea e capire quale sarebbe stata la reale franchigia dopo il loro grossolano errore. La risposta che mi hanno dato mi sembrava così assurda che ho richiamato e richiamato. L’ho fatto per tre volte e poi mi sono “rassegnato”: «Non possono aver sbagliato tutti e 3 i ragazzi!» e quindi è vero che ognuno di noi ha a disposizione 56 chili di bagaglio (tra stiva e cabina)!.

Per questo motivo abbiamo iniziato una raccolta materiali per raggiungere l’inarrivabile obiettivo di 3 quintali di aiuti da portare in Senegal. In realtà, l’inarrivabile obiettivo non era poi così inarrivabile. Mail, sms, passaparola e telefonate ci hanno fatto giungere una quantità enorme di oggetti. Spesso, mentre ritiravo pacchi e sacchetti (alcuni di dimensioni veramente abnormi), mi sono sentire dire «sono poche cose ma se possono aiutare…» e così tante “piccole cose” si sono trasformate in una montagna di vestiti, giocattoli, libri e cancelleria. Sinceramente, devo ammetterlo, mi sono (positivamente) stupito di questa enorme generosità che, però, ha generato un problema paradossale: e se raccogliamo troppo?

Per questo motivo ho parlato con Luciana, la cooperante di CESES che è a Dakar, e con lei abbiamo deciso cosa fare. Nei nostri 14 bagagli che andranno in stiva la priorità sarà data ai libri. Questo perchè a Dakar i ragazzi che stanno imparando la nostra lingua hanno bisogno di materiali per esercitarsi e potenziare la loro conoscenza e inoltre servono anche grammatiche per aumentarne il numero. Subito dopo i libri, in valigia avranno spazio i vestiti per i quali dovremo organizzare un intelligente sistema di distribuzione lontano dalle logiche (a volte inefficaci) delle grandi organizzazioni umanitarie. Dati questi presupposti, daremo meno importanza alla cancelleria perchè è reperibile anche in Senegal e ai giocattoli che, in questo momento, non sono essenziali per il progetto.

Comunque al momento la situazione è ancora sotto controllo e prima di arrivare al fantomatico “traguardo irraggiungibile” ci sono ancora un bel po’ di chili da riempire. Sono ancora indeciso se farvi vedere o no le condizioni della stanza di casa mia che ho trasformato in magazzino…deciderò nei prossimi giorni! 🙂

In ogni caso, a parte riempire ogni bagaglio fino all’ultimo grammo a nostra disposizione, di certo non butteremo via nulla! Se ci saranno avanzi terremo tutto da parte perchè nei prossimi mesi ci sarà modo di inviare in Africa questo surplus e molto altro ancora. Quindi non buttate via nulla neanche voi, mi raccomando!

Marco

P.S. Stiamo ancora cercando un computer portatile da donare ad un ragazzo (per quello un posticino in valigia lo troviamo sicuramente). Se qualcuno di voi può aiutarci mi chiami al 3495984066. Grazie!

Alcuni palestinesi ed internazionali si ritrovano a Bil’in in occasione delle proteste del venerdi’ per combattere l’esistenza dl muro israeliano

Ogni venerdi’ a Bil’in, un paesino a pochi minuti di strada dalla citta’ di Ramallah, sono anni ormai in cui vengono organizzate delle manifestazioni per protestare contro il muro eretto da Israele, per rivendicare il diritto di poter calpestare e riottenere la propria terra in barba alle insaziabili violenze gratuite commesse dai soldati e all’altrettanto compiaciuta quanto appagata sensazione di indifferenza dei coloni che impassibili, come se fossero spettatori paganti di uno spettacolo teatrale organizzato appositamente per loro, per il loro divertimento, rimangono a guardare cio’ che accade, in silenziosa disparte.                                                                                                                      Le proteste iniziano sempre dopo pranzo, verso l’una e mezza circa; in quest’occasione la folla si e’ radunata di fronte alla sede principale, luogo d’incontro per attivisti palestinesi e internazionali, muniti di slogan di protesta, di bandiere della palestina, del fronte popolare palestinese e alcune in particolare con l’immagine di una foto di Marwan Barghuthi, una delle figure piu’ riconociute del movimento di resistenza per la liberzione della palestina dall’assedio di Israele, capo politico e militare, arrestato nel 2002, imprgionato nelle carceri israeliane e condannao a cinque ergastoli.                                                                                                       La manifestazione muove i primi passi lungo la strada che affaccia alla sede. Si intonano dei cori, si urla : ” One, two, trhee, four, occupation no more! Five, six, seven, eight, Israel fascist state!”. Avanti al gruppo, un uomo palestinese guida la marcia verso il muro con un megafono sempre vicino alla propria bocca. Lo scenario paesaggistico che fa da sfondo a questo quadro e’ bellissimo, la terra arida delle colline si mischia al colore verde delle foglie degli ulivi secolari, testimoni di mille battaglie, di mille proteste per la liberta’ di un popolo ormai sfinito da questi lunghissimi, interminabili anni di sofferenza, di segregazione dal mondo, di rabbia e tristezza accumulata nel tempo, di apartheid.

Nell’aria e’ possibile respirare l’energia che viene sprigionta dalle motivazioni dei partecipanti, un’energia che alza la sabbia da terra ad ogni passo mosso, che permette di arrivare al muro, faccia a faccia con i soldati israeliani che lo controllano, protetti dall’ elmetto che indossano dietro all’estesa parete di cemento dietro alla quale stanno ben barricati, sicuri di avere il famoso coltello dalla parte del manico. Difronte al muro, sempre lo stesso uomo con il megafono continua instancabilmente a parlare, sottolinea con parole forti il diritto di poter camminare pacificamente sulla propria terra, assicura che nulla puo’ accadere finche’ non si varchera’ il confine segnato dalla presenza del filo spinato che anticipa di qualche metro il muro. “This is our land! Don’t be afraid!” grida al megafono, invitava le persone a camminare lungo il perimetro tracciato dal filo spinato perche’ “non si deve avere alcun timore”, non si deve avere paura di camminare per casa propria. La manifestazione, una volta stazionatasi in un punto preciso, di fronte al muro e ai soldati, che minacciosi intimidiscono di spararci gas lacrimogeni contro se non si fosse deciso di lasciar perdere tutto quanto, non cede a compromessi ne’ a minacce. Una volta capito che le loro richieste non hanno alcuna risonanza tra la folla di manifestanti, non passa molto tempo prima di vedere la prima gettata di gas lacrimogeni, sparati codardemente ad altezza d’uomo, che in poco tempo una volta toccata terra esplodono e diffondono nell’aria circosante il gas nocivo, costringono tutti a retreggiare affannosamente, intossicano, stordiscono e copromettono le percezioni, irritano fastidiosamente la pelle. La manifestazione prosegue e nuovi spari di gas lacrimogeni vengono effettuati, sempre mirati ad altezza d’uomo, cosi’ da aumentare la probabilita’ che se non si stesse male per l’inalazione forzata nei polmoni delle sotanze chimiche tossiche dei gas (nella peggiore delle ipotesi si muore asfissiati dall’intossicazione -come e’ successo a una ragazza palestinese nel corso di una manifestazione svoltasi in passato, intrappolata  nella nube di gas-), si puo’ sempre morire perche’ colpiti dalle munizioni che possono raggiungere ed impattare molto violentemente in mezzo al petto, o provocare danni irreparabili alla salute, come la perdita di un arto ad esempio, se colpiscono il corpo in qualche altro punto. L’agitazione che sorge nel bel mezzo degli spari dei gas lacrimogeni viene subito superata e sostituata (una volta che l’aria circostante ritorna respirabile), dalla voglia di riprovare, di non mollare la causa con tanta fragilita’, come i soldati israliani vorrebbero invece che accadesse.

…Un compagno si e’ trovato nella situazione di dover caricarsi sulle spalle un uomo che correndo si era probabilmente slogato seriamente un ginocchio, cosi’ che i numerosi effetti collaterali a cui eravamo tutti esposti hanno avuto un impatto maggiore nel caso delle sue condizioni, affaticandolo doppiamente nello sforzo di dover correre e respirare quella merda con un peso non indifferente che lo rallentava. Fortementemente provato dall’ accaduto, bisogna riconoscere un grande atto di coraggio, di rischio a fin di bene, per aiutare una persona in quel momento in difficolta’, per soccorrerla ed evitarle dieci brutti minuti di implacabile sofferenza verso la quale avrebbe potuto fare ben poco o nulla nelle condizioni in cui si trovava . Il suo nome e’ Roberto Di Maio, un esempio di sana moralita’ per chiunque in quel momento.

La manifetazione giunge al termine dopo un’ora e mezza circa, o poco piu’. Tutti si incamminano per ripercorrere la stessa strada dell’andata, cosi’ da poter andare a riposarsi e soprattutto bere acqua ghiacciata per reidratarsi dopo l’enorme quantita’ di liquidi corporei gettati in sudore, a causa del sole che, scottante come sempre, sfianca di certo.

Una volta finita la protesta, il muro rimane sempre li’, a determinare il confine, i soldati israeliani pure, a controllarlo con le loro armi. Un altro venerdi’ di protesta a Bel’in e’ passato ma non sara’ l’ultimo, perche’ la causa verso la quale si combatte(senza armi) non guarda date di calendario ne’ tantomeno le lancette degli orologi.

Free Palestine

Volontari di cultura

Manca esattamente una settimana e poi il mio lungo viaggio in Senegal inizierà. Io, Fabrizio, Caterina, Jacopo, Veronica, Michele e Silvia avremo a disposizione circa un mese per scoprire un Paese così lontano e sconosciuto.

Oggi potrei iniziare a raccontarvi il programma generale, quello che faremo, le persone che incontreremo, i posti che visiteremo ma mi chiedo: perchè rovinarvi la sorpresa? Assaggerete il Senegal piano piano, un passo alla volta, giorno dopo giorno attraverso i miei occhi, quelli dei miei intraprendenti compagni di viaggio, quelli di Luciana e Riccardo (i cooperanti che ci aspettano a Dakar) e anche quelli degli stessi senegalesi.

Un fatto però voglio spiegarvelo fin da subito. Il lungo viaggio di volontariato che andremo ad affrontare, però, non sarà come i soliti a cui siamo abituati a pensare. Spesso, infatti, dicendo “volontariato in Africa” o “cooperazione internazionale” il pensiero corre subito alla costruzione di case, pozzi, ponti e così via. Ma noi non faremo nulla di tutto questo. Non andremo a “rubare il lavoro” ai senegalesi per il semplice fatto che non crediamo avrebbe senso. Al di là delle teorie politiche, si tratta di una questione di opportunità. Considerate che  per prenotare un volo aereo per raggiungere Dakar servono -se siete fortunati- almeno 500 euro e che uno stipendio medio in Senegal è intorno ai 50 euro al mese. Sarebbe folle -e forse un po’ ipocrita- spendere l’equivalente di 10 mesi di lavoro per soli 30 giorni.

Quindi cosa faremo? Be’, noi siamo universitari di scienze politiche, non muratori o ingegneri. Quello che porteremo noi, quindi, è quello con cui abbiamo a che fare tutti i giorni: la cultura. Gandhi diceva che “l’educazione è ciò che libera” e sull’onda di questo il progetto di CESES, l’organizzazione non governativa con la quale andremo in Senegal, punta molto sulla cultura, l’istruzione e l’educazione dei giovani della periferia di Limamoulaye, a nord est della capitale. Progetti che vi presenteremo nel corso del viaggio (e per i quali, ovviamente, potrete contribuire) che hanno fatto nascere l’esigenza per i ragazzi di Dakar di incontrare loro coetanei italiani. Proprio per questo questo motivo noi, che abbiamo comunque obiettivi ben precisi da portare avanti -tra qualche giorno ve ne parlerò- passeremo molto del nostro tempo tra i ragazzi della zona: studenti, bambini, orfani.

E dato che saremo “ospiti” di un grande Paese straniero, ovviamente, non ci presenteremo a mani vuote! Con noi partiranno circa 3 quintali di aiuti per i quali, se volete, potete ancora contribuire. Libri, giocattoli, matite, quaderni e vestiti saranno i benvenuti e stiamo disperatamente cercando un computer portatile per Djibril, un ragazzo che vi faremo sicuramente conoscere. Se ci potete aiutare contattatemi al numero 3495984066.

Per il momento non vi dico altro ma se siete curiosi leggete qui (ah, la foto non mi rende onore! XD).

Seguiteci per tutto il viaggio e non ve ne pentirete!

Marco