Meroledì 13 Luglio l’esercito israeliano ha fatto un’incursione notturna all’interno del campo profughi di Al Farah, a nord di Nablus, perquisendo alcune case. Scopo dell’intera operazione, riportano fonti di sicurezza palestinesi, era la ricerca di un attivista del Jihad islamico. Nel corso del Raid israeliano, quella notte tutte le strade per il campo sono state chiuse e i cecchini hanno occupato i tetti delle abitazioni per monitorare la zona. Ibrahim Omar Sarhan, un giovane ragazzo di 21 anni è stato ucciso a sangue freddo dall’esercito israeliano con un solo colpo. E’ stato “accidentalmente confuso” con il ragazzo che in realtà stavano cercando e che alla fine non sono riusciti a trovare. Ebbene si, un ragazzo muore per errore. Ma quanti sono gli errori commessi continuamente dai soldati israeliani, addestrati per uccidere, per generare panico e terrore ovunque si rechino? Quanto può essere considerata un errore la morte di un ragazzo che avviene dopo un’ora esatta di agonia, passata a soffrire per terra, inerte sull’asfalto, come uno scarafaggio schiacciato, di fronte a casa sua? Infatti, il ragazzo dopo essere stato sparato ad una gamba e dopo non aver riconosciuto in lui il soggetto per il quale si ha fatto irruzione all’interno del campo profughi, è stato abbandonato al suo destino, impedendo a qualsiasi soccorso palestinese di raggiungerlo affinché potesse essere raccolto da terra, trasportato urgentemente all’ospedale di Nablus e ricevere le cure di emergenza necessarie per tentare di salvarlo. I soldati hanno impedito che ciò avvenisse, minacciando con le armi ( nulla di nuovo ) la famiglia del giovane ferito, così come anche gli altri abitanti delle case di Al Farah, costretti ad assistere, inesorabilmente, inermi, alla straziante vita del proprio figlio che, attimo dopo attimo, si spegneva di fronte ai loro occhi colmi di dolore. Non aver potuto fare nulla dinnanzi alla morte di Ibrahim è stata anch’essa stessa come una morte per il padre del ragazzo. Con i compagni ci siamo recati ad Al Farah per portare le nostre condoglianze alla famiglia. Una città avvolta nel silenzio di un lutto inaspettato si è prostrata ai nostri occhi. Gli unici suoni confortevoli erano quelli delle voci tenere e bisbigliate di alcuni bambini che, con in mano una rosa rossa o bianca, ordinati su due file, hanno raggiunto l’abitazione del giovane Ibrahim a piccoli passi a piedi ( e noi dietro di loro ), partendo organizzati dallo spiazzale dell’edificio dove si tiene il loro Summer Camp. Una volta entrati nell’abitazione, seduti su tre sedie davanti a noi c’erano il cugino, lo zio e il padre di Ibrahim, quest’ultimo rimasto in silenzio per tutto il tempo, con il capo chino e lo sguardo smarrito, perso nel vuoto. Non è quantificabile il dolore che quel padre porta con sé dentro al petto, per aver visto suo figlio innocente, ennesima vittima di Israele. “Il ragazzo è stato sparato mentre si stava dirigendo in moschea per la preghiera dell’alba” dice lo zio, l’unico ad avere la forza per poter parlare e raccontare il fatto. Intanto, il governatore Tubas ha condannato il raid israeliano e l’uccisione a sangue freddo di Ibrahim, dichiarando che l’esecuzione del giovane palestinese costituisce una gravissima violazione della Quarta convenzione di Ginevra, del diritto internazionale e delle convenzioni sui diritti umani.
Tutto ciò è avvenuto ad Al Farah, un paesino famoso in passato per essere stato il luogo dove venne costruita una struttura durante il protettorato inglese, utilizzata successivamente dal 1982 al 1995, dal governo israeliano come luogo di detenzione amministrativa per i prigionieri politici, principalmente giovani e studenti attivi e mobilitati. All’interno di questo campo di detenzione, i prigionieri subivano alcune pesanti torture fisiche e psicologiche, bendati per interi giorni sotto il sole rovente o sotto la pioggia pesante, con quaranta gradi di temperatura o dieci, legati con le mani dietro alla schiena, in quattro a condividere un masso di 40cm x 40cm, contro i quali venivano lanciati alcuni massi di pietra da parte dei soldati israeliani che si appostavano dall’alto, sul cornicione dei bassi edifici di sorveglianza del’area circostante. Oppure cabine di metallo, strette e buie, all’interno delle quali era impossibile muoversi ( gli unici movimenti praticabili all’interno di queste casse dell’orrore era quello di stare in piedi o di sedersi, con le ginocchia strette verso al petto per cercare di addormentarsi, cosa che era impedita a ciascuno di fare poiché i soldati battevano costantemente e violentemente delle spranghe di ferro contro le strutture, così da mantenere svegli chi vi fosse all’interno). Cabine queste, prive di fessure per vedere la luce del giorno, calde e soffocanti, con scarsa quantità di ossigeno sufficiente per l’organismo di qualsiasi essere umano. Tutto ciò era studiato dall’esercito israeliano nel tentativo di sfinirli, martoriarli nel fisico e nella mente, per costringerli a parlare, a confessare ciò che sapevano, a confessare anche ciò che in realtà non sapevano. Majdi, il nostro coordinatore palestinese, cercando di mantenere quel sorriso che lo ha sempre accompagnato, ci guarda dicendo : “ This is my place”; si perché sin da quando era un giovane ragazzo attivista politico è stato deportato in quel campo per ben 15 volte, l’ultima delle quali vi è rimasto per 45 giorni, e in tutte non ha mai ceduto alle intimidazioni delle torture subite, non ha mai confessato, non si è mai rassegnato. E’ inutile cercare di descrivere ciò che ha passato, perché solo lui, e chi altro come lui, può solamente saperlo, riviverlo, rivederlo attraverso il ricordo di quelle immagini che i propri occhi possono ancora proiettare nella mente. Oltre alle torture, i prigionieri disponevano di poco cibo e poca acqua, in compenso venivano concesse loro 4 sigarette al giorno di marca escoté, che in israeliano vuol dire, guarda caso, “chiudi la bocca” Non credo fosse un modo gentile e premuroso per dire ai prigionieri di smettere di fumare considerato il fatto che il fumo nuoce gravemente alla salute. Majdi racconta ancora con molta ironia di come si fosse venuto a creare un giro “ illecito e corrotto” di contrabbando, proprio di quelle sigarette che venivano loro concesse, le quali non venivano fumate bensì mantenute astutamente nei pacchetti e scambiate con i soldati israeliani in cambio di cibo e acqua : “ We were the ones who created the corruption in this detention camp !”
Ora questo campo è riabilitato a centro sportivo e museo, in possesso dell’autorità palestinese.
Queste due storie, la prima recente, la seconda del passato, hanno entrambe in comune la sofferenza generata dalla violenza. Sono entrambe il frutto dello stesso Apartheid messo in atto dallo stato di Israele.
Questo è Al Farah, campo profughi a nord di Nablus, Cisgiordania, questo è ciò che succede in Palestina.
Free Palestine !