Eccomi qui

Lunedì 1 febbraio 2010.

Sveglia alle 6:00, check-in a Milano Malpensa alle 7:15 e imbarco in direzione Berlino.
Si atterra e sembra di essere in Siberia. Ghiaccio e neve ovunque.
Una spesa veloce.
Distrutto dai festeggiamenti per la partenza “in cerca di fortuna” crollo sul divano alle 11:00 di sera.

Martedì 2 febbraio

Primo giorno passato.
Abito con altri due ragazzi italiani in un appartamentino su due piani.
Uno dei miei coinquilini ha un cane. Un incrocio tra un pitbull e un dalmata. Il cane è australiano, quindi  gli si parla in inglese.
Esco a prendere una sim tedesca sperando che funzioni tutto.
Anche perchè le istruzioni, per me, sono illeggibili.
Passeggio un paio d’ore e le poche persone che si vedono in strada sono irriconoscibili. Sciarpe, baveri e cappelli a nascondere etnie, colori, origini.
Entro in un bar e ordino un Chai Latte. Chai Tea con miele, cannella e latte. Buonissimo.
Il wireless è gratuito praticamente ovunque.
La sera White Trash Fast Food. Concerto garage e birre.
Tornando a casa parte una guerra a palle di neve.
La cerniera della mia unica giacca cede.

Mercoledì 3 febbraio

Sfido le intemperie e aspetto che delle simpatiche donnine thailandesi mi riparino la giacca.
Capirci non è stato facile. Un loro conoscente al telefono ci faceva da interprete.
Per ora ho uno strato di maglioni e felpe.
Sopravviverò.

Credo che mi piacerà stare a Berlino.
Sono uno di quegli ex-studenti da 110e lode che della laurea non se ne fanno nulla.
Ma mi piace scoprire cose nuove. Andare all’avventura.
Dopo tanto tempo negli Stati Uniti e troppo tempo in provincia di Varese, eccomi a cercare fortuna in Germania.
Come i migranti di una volta.

Solo che pensare a stessi come dei migranti quando c’è EasyJet è veramente difficile.

Berlin, Rykestraße.

Questo è l’Erasmus

A proposito dell’ultimo e assai recente post, oggi sulla rete incontro un filmato spagnolo a dir poco esplicativo di quella che in potenza potrebbe essere la vita Erasmus e che sicuramente rispecchia quella che è l’idea che tutti gli studenti hanno dell’Erasmus, o per lo meno quelli che non ci sono mai stati e che vedono gli altri partire.

Inutile dire che quando dico ad amici e colleghi di facoltà che io, studente Erasmus, sto studiando, la reazione sia: “Studi?! Sei l’unica persona che và in Erasmus e che studia! vai a divertirti!”. La mia risposta è che non si preoccupino, ci si diverte già abbastanza e che un pò di tempo per lo studio è meglio riservarlo, anche perchè penso che lo stesso divertimento fatto esclusivamente di uscite e di feste se sovrasfruttato diventi monotono.

Comunque ecco il video: parla della fornitura e della preparazione necessaria per tutti gli studenti che si apprestano a partire per l’Erasmus, ovviamente in chiave comica, ma non troppo. Non ne ho rintracciato la fonte ed è in spagnolo quindi si addice perfettamente alla mia situazione. Evidentemente gli spagnoli conoscono più di altri questa situazione, visto il numero impressionante di studenti che tutti gli anni invadono la Spagna conoscendone la movida. Penso che si possa intendere per la maggior parte. Lascio solo un suggerimento: “borracho” significa ubriaco.

http://www.youtube.com/watch?v=hg0wb1VFKOA

Chiuso in casa

Ebbene sì. Anche qui ce l’ho fatta a chiudermi in casa per qualche settimana per recuperare il tempo passato e perduto in vista degli esami, alcuni già affrontati, altri che si avvicinano. L’unica variante, o se si vuole l’unico svago, alle mura dell’appartamento per qualche giorno è stata l’affollata biblioteca della facoltà.

Così da qualche settimana son state poche le occasioni di vivere la vita di Malaga: giusto per accorgemi che le vie del centro sono meno affollate del solito, sarà il “freddo” o il periodo di esami; che in qualche periodo dell’anno nel Guadalmedina, il fiume che passa per la città, si può vedere l’acqua scorrere, così raro che non a  caso viene chiamato “rio seco”; o essere sorpreso da una pioggia fitta, chiedere un passaggio verso casa ad una signora e ascoltarla lamentarsi per tutto il tragitto del clima e del freddo, mentre i vetri si appannano senza che lei riesca ad impedirlo: “es una locura!”. “E’ un’assurdità, con questa pioggia e questo freddo non si può lavorare!”  dice lei. Fuori intanto 15 gradi.

Quindi mentre fuori la vita continua è arrivato finalmente anche il tempo di piegare la testa sui libri. Perchè l’Erasmus fortunatamente e giustamente non è una vacanza. E’ o quanto meno può essere un esperienza fantastica, sicuramente importante per la propria crescita e per confrontarsi con sè stessi, comunque vada. Si può decidere di condurla in modi diversi: spesso da queste parti può tentare la cultura del “No pasa nada, estoy en Erasmus”. Che fondamentalmente significa: non fa niente, non importa, sono in Erasmus e mi godo la vita, quella più facile diciamo. Il rischio in effetti c’è: tanti ragazzi da tutto il mondo, tante occasioni di divertimento, tante feste a casa di persone che non hai mai visto prima. O qualche distrazione spiritualmente più alta: tante cose nuove da scoprire e conoscere, vivendo una vita e un paese che non è il tuo. Così alla fine la vittima può essere quello per cui teoricamente sei partito: lo studio.

Ora io non mi metto tra gli studenti modello, anzi ne sono ben lontano. Diciamo che tiro a campare, vado avanti senza troppa gloria, ma vado avanti, E così anche qui: di certo non sono finanziato nè dall’Unione Europea nè dall’Università Insubria e ancor meno dai miei genitori per fare un anno di vacanza. Pertanto cerco di fare il mio dovere e di non allungare  quella che è la già  lunga carriera  dello studente di medicina.

Ciò nonostante penso ancor più di quello che già faccio normalmente: come sarebbe meglio impiegare il mio tempo? Domanda che non avrà mai risposta lo so, suppongo non esista. Ma quello che intendo è in questo caso: ho la fortuna di trovarmi in un paese  che non è il mio, di conoscere molte persone con le loro storie tutte diverse, di vedere paesaggi mai visti, di vivere atmosfere, situazioni e culture sconosciute. E’ mio dovere, oltre a quello vero che è lo studio, sfruttare questa occasione? Di certo penso vorrebbe dire sprecarla se mantenessi tutte le stesse abitudini che ho a casa. Da un lato si può pensare: non importa se ci metto un anno di più a finire l’università, avrò molto tempo da dedicare al lavoro, sfruttiamo quest’occasione che non mi capiterà più. Dall’altra: sono fortunato, non ho avuto bisogno di lavorare grazie alle condizioni di benessere in cui vivo e che qualcuno attraverso sacrifici mi ha dato, giusto è che io ripaghi adempiendo all’unico dovere che ho senza perdere tempo e mi renda utile anch’io in questo mondo.

In questi mesi ho visto studenti Erasmus che hanno deciso deliberatamente di vivere quest’anno a Malaga come un anno di vita extrascolastica, chiamiamola così, mentre altri chiusi in casa o perennemente in biblioteca ligi al proprio dovere di studente.

Forse la soluzione sta nel mezzo, come spesso accade. Le due cose, con un minimo di intelligenza e con qualche rinuncia, possono coesistere. Nel frattempo sacrifico ancora per qualche giorno il caffè per le vie del centro con gli amici per rimanere sugli amati libri, facendo qualche passo verso il mio futuro, si suppone, di medico.

Rompete le righe

 

 

(Giostra, Londra - Foto di Marco Guimarães)

(Giostra, Londra - Foto di Marco Guimarães)

Ma chi sono gli italiani di Londra? So bene chi sono quelli che ho incontrato io, certo. Più difficile è però scoprire i tratti generali di un insieme così elastico, così eclettico, confuso. Possiamo prendere gli italiani nati a Londra da genitori che lasciarono l’Italia nel secolo scorso e che hanno avuto a loro volta figli e nipoti. Però non basta. Allora, prima di rompere le righe (ma non per sempre) da questa città ho rivolto la domanda a padre Carmelo, alla chiesa italiana di Clerkenwell Road. Volevo avere un colpo d’occhio su questa marea di vite che sfugge alle statistiche, che non affolla le cronache, che non appassiona quelli che non hanno mai varcato il recinto di casa. E con padre Carmelo si va sul sicuro, perché da lui sono passati e passano in parecchi. Ne battezza i figli, ne confessa i peccati. Celebra le messe per i loro morti, sepolti in una terra che non è quella natia. A volte smista fra i parrocchiani le bottiglie di olio, il vino, i torroni fatti arrivare dall’Italia, che per molti ancora significano il sapore della propria storia, anche se ormai li trovi in qualsiasi supermercato della città. Lui arrivò a Londra nel 1971. “Era un altro mondo – ricorda -. Per entrare nel Regno Unito dovevo dimostrare che cosa venivo a fare, io come tutti gli altri migranti. Ti contavano i soldi in tasca e, se dicevi che stavi andando a raggiungere un parente, le autorità lo chiamavano e chiedevano conferma. L’aspetto legale era molto duro, si doveva andare a fare la registrazione dalla polizia…”. Quarant’anni fa. Il Regno Unito non era un paese comunitario. E non c’era il mordi e fuggi dei turisti, dei lavoratori, degli studenti. Per dire: padre Carmelo rammenta che in quegli anni non rispettare la coda alla fermata degli autobus o alla biglietteria dei cinema era ancora un tabù per gli inglesi. Ora, di notte, c’è l’assalto alla diligenza per infilarsi dalla porta posteriore su bus strapieni da cui rischi di essere lasciato a terra. Quasi subito padre Carmelo iniziò a lavorare come cappellano nelle carceri inglesi per assistere i detenuti italiani. “Negli anni Settanta – racconta – ho visto qualche italiano in carcere per droga, poi negli anni Ottanta sono diventati tantissimi. Fu un periodo veramente brutto, centinaia di decessi dovuti ad Aids e overdose. Erano ragazzi che venivano da tutta Italia, in particolare dal Piemonte, dalla Sardegna, dal Veneto”. Uno scorcio che non dice certo tutto sul paesaggio italiano a Londra, ma che resta scolpito bene nel background di molte famiglie immigrate qui negli ultimi decenni. Poi i tempi sono cambiati. “Londra ha sempre catalizzato molti studenti. Per la lingua, per la libertà, per l’arte”. Le frontiere si sono aperte, la tecnologia ha liquefatto i tabù. “Negli ultimi dieci anni ho registrato un nuovo fenomeno di giovani italiani inviati dalle loro società, spesso banche, o che da soli sono arrivati in cerca di lavoro. C’è per esempio, a Londra, una marea di medici italiani, di architetti, di avvocati, per non parlare di quelli che si occupano di finanza. E ho la chiesa piena di persone che hanno fra i 25 e i 40 anni”. Alla St Peter’s Church, cuore italiano nella metropoli britannica, da un paio di anni sembra che si siano moltiplicati i corsi pre-matrimoniali bilingue. Italiano e inglese. “Almeno 150 coppie all’anno – riferisce padre Carmelo -, due terzi circa vanno a sposarsi in Italia e poi tornano qua…”. E poi, appena sopra la sagrestia, vicino alla chiesa ci sono gli uffici delle Acli, che danno assistenza alla comunità in lingua italiana. Ci sono i corsi di lingua. La messa della domenica è il momento del ritrovo collettivo per quella parte di italiani che hanno fede.  Ma perchè vengono e restano? “Perchè non trovano nulla di quello che cercano in Italia, anche se una parte di loro non vede l’ora di tornarci”.

Volevo prendere freddo. E anche: un processo kafkiano, parte uno.

Il condizionatore insistente, il getto d’aria troppo a lungo puntato addosso, e l’aria della stanza che diventa soffocante. Con la giacca aperta, il vento sottile si insinua sotto i vestiti, mentre vago senza meta precisa nei dintorni di casa.
Un onigiri (i “tramezzini” di riso giapponesi) al convenience-store sotto casa, tanto per.
La giacca aperta su una t-shirt un po’ lisa, sottili rivoli dagli occhi.

Un brivido fino alle ossa che rende i pensieri cristallini.

Tokyo cambia molto il suo aspetto allo scoccare della mezzanotte, o poco dopo.
Dopo l’ultima corsa, i pochi rimasti (spesso ubriachi nella maniera “sociale” tipicamente giapponese) che non possono o non vogliono pagare un taxi, nella civilissima Tokyo che quasi non sa cosa siano i borseggi e i furti, possono permettersi di cadere addormentati in un bar. O quando il clima lo permette, o quando l’ubriachezza non lascia altra soluzione,  sul ciglio della strada.
E se hanno la foruna di avere un amico lucido a portata di mano, questo spesso lo scosta dal vomito e dal centro della carreggiata, lo accudisce, gli mette la giacca addosso come coperta e aspetta insieme a lui il primo treno del mattino, verso le cinque.
Ormai ci ho fatto il callo, e scene del genere mi colpiscono meno dei primi mesi, ma di tanto in tanto provo a immaginare di addormentarmi a Milano sui navigli, in mezzo alla strada, e mi diverto con le possibile conseguenze.

Molti scelgono di addormentarsi nelle stazioni, che nella maggior parte dei casi sono riscaldate e aperte all-night, se non sono abbastanza fortunati da riuscire ad addormentarsi sull’ultimo treno.

La città è tappezzata di cartelli simili a questo.

manner200812_picC’è un cartello “PLEASE DO IT AT HOME” per quasi ogni comportamento considerato disdicevole per gli standard autoctoni.  La maggior parte ritrae fedelmente le scene in cui si imbatteranno i divertiti visitatori stranieri, a caccia di foto bizzarre da condividere con gli amici, mentre l’effetto sulle citate cattive abitudini è quantomeno opinabile.

Ma non voglio parlare di questo.

Finalmente mi imbatto in prima persona nel macchinoso, incomprensibile, deleterio sistema sanitario (pubblico???) giapponese.

Un briciolo di sfortuna, e sono costretto a cercare assistenza medica. Dopo l’arrivo, si ha l’obbligo, se non si è visitatori temporanei, di iscriversi all’anagrafe sanitaria nazionale entro 14 giorni presso la circoscrizione di appartenenza, a meno di non essere in possesso di una assicurazione sanitaria privata.

Quello che sono riuscito a capire è che in pratica il servizio sanitario giapponese copre parzialmente le spese sostenute dal cittadino, che avvengono presso strutture che sono nel 90% dei casi private o privatizzate.

In quanto (praticamente) nullatenente, pago la quota minima, circa 150 euro per un anno di copertura, che mi assicureranno una copertura delle spese del 70%, ma il meccanismo è fatto a scatole cinesi, così come i caratteri infiniti sugli incartamenti che a suo tempo avevo compilato.

Tokyo è costellata di piccolissime cliniche private, ma per il tipo di assistenza di cui ho bisogno mi serve uno specialista.

Decido di andare al Saint Luke, il più grande ospedale internazionale di Tokyo, su consiglio di un amico. Per quanto il mio giapponese sia migliorato molto durante questi primi sei mesi, ritengo di non essere ancora all’altezza di certe sfere.
Il fatto che l’ospedale “internazionale” pubblicizzi sul suo sito un servizio di interpretariato a pagamento per i pazienti stranieri non lascia intendere troppo di buono.

Traduzione dal giapponese, per motivi di comprensibilità al vasto pubblico 🙂

-Pronto

-Pronto. Buongiorno, avrei bisogno di assistenza medica. Parlo giapponese ma non perfettamente, lei parla inglese?

-A littoru. A littl…. Moushiwake gozaimasen, sukosi dake hanaserundeskedo..

La gentile addetta si scusa diverse, innumerevoli volte, e mi passa una collega che dovrebbe parlare l’inglese molto bene.

Di inglese nemmeno l’ombra, ma un ottimo keigo (il sistema di linguaggio onorifico estremamente difficile anche per i giapponesi stessi) abbandono ogni speranza e passo al giapponese, dizionario alla mano, non si sa mai.
Scopro che per essere ammessi alla visita preliminare bisogna pagare circa 50euro, una tassa istituita per non allontanare i “potenziali clienti” dalle piccole cliniche, in favore degli ospedali più grandi.

In parole povere, se l’ospedale dove vuoi andare è troppo specializzato e potresti cercare una piccola clinica da qualche parte a cui non è giusto sottrarre il pane, ti punisco per eccesso di zelo.
sul momento mi pare una follia ma acconsento.

Un rapido flash-forward.

Il medico mi riceve, dopo innumerevoli incartamenti costellati di keigo e sorrisi da etichetta.

Mi guarda per 30 secondi, prima di dirmi che cancella la mia visita, il mio caso non è coperto dalla mia assicurazione sanitaria nazionale, e nel loro ospedale non mi tratteranno.

Mi consiglia di rivolgermi “privatamente” a una struttura privata.

Fine della parte uno.

Vic

Vic. Comune di 40.000 abitanti a 70km da Barcellona, conosciuto dai piú per i suoi insaccati e la splendida fiera medioevale, é da giorni sulle prime pagine dei giornali e in testa all’agenda politica regionale e nazionale.

La giunta comunale, formata da 3 partiti assai diversi tra loro (socialisti, destra catalanista e sinistra repubblicana, che ve ne pare?), ha deciso di interrompere l’iscrizione al registro del padrón per tutti gli immigrati extracomunitari senza documenti in regola.

300px-Vic_(Barcelona)._Plaza_Mayor

La Plaça Major de Vic

Il padrón é un registro amministrativo dove constano i residenti di un municipio, e l’iscrizione a esso da diritto a una copertura medica minima gratuita, eventuali sussidi di disoccupazione etc…, oltre che servire a fini statistici e di controllo.

La legge in vigore  prevede che “qualunque persona che viva in Spagna ha il diritto e dovere di iscriversi al padrón del municipio in cui risiede abitualmente”.

Il comune di Vic, stanco dell’invasione di immigrati irregolari, della saturazione delle scuole, della continua richiesta di sussidi di disoccupazione, dalle code di chi viene, si iscrive, si fa operare a un ginocchio e se ne va, e della crescita della criminalitá, ha optato per questa decisione,  scatenando una leggendaria bagarre politica e sociale. Madrid ha ordinato di riprendere il processo regolarmente, mentre il governo catalano si é mostrato piú interessato e disposto a studiare il caso , avvertendo una crescente insofferenza della popolazione locale nei confronti della mancanza assoluta di controllo che negli ultimi anni c’é stata nella politica d’immigrazione. Xenofobia e razzismo sono le parole piú gettonate. Di certo c’é che il precedente é stato creato e molti comuni si stanno muovendo nella stessa direzione, indipendentemente dall’appartenenza politica.

Gli effetti psicologici oltre che economici della crisi che sta colpendo la Catalunya piú di qualsiasi altra regione e la vicinanza delle elezioni rendono lo scenario imprevedibile e agitato.

E loro, gli immigrati, che dicono? “Gli andiamo bene solo quando gli serviamo”. Il paradosso é che la Catalunya, da sempre caratterizzata da una mentalitá aperta e all’avanguardia nella politica sociale,  ha tratto grandi benefici dall’immigrazione interna decenni fa ed esterna piú recentemente (quanto ci piace la multiculturalitá di Barcellona),  sembra stanca di un modello che ha smesso di funzionare e vuole ora la prioritá assoluta per “la gent de la terra“.

Vignetta di Leonard Beard

Vignetta di Leonard Beard

In attesa di vedere l’evoluzione (involuzione) dell’argomento, vi mando un saluto dal paese dove i controllori aerei possono arrivare a prendere 700.000€ all’anno [sic] o ti puoi ritrovare con orario e stipendio dimezzato e continuare a ritenerti fortunato perché non fai parte dell’ormai 20% di disoccupati (perdonate lo scivolone autobiografico).

Will we survive?

Olé!!

La febbre del gioco

 

Bookmakers a bordo pista

Bookmakers a bordo pista

Quando ho letto quella notizia sullo scommettitore “beffato” da una delle società di bookmakers più grandi del regno, mi è venuta in mente quella sera a Wimbledon. La notizia riguarda un signore inglese che ha azzeccato le 24 città in cui il giorno di Natale sarebbe nevicato, ma per un errore chi ha preso la puntata non ha spiegato al cliente che quella non poteva essere una scommessa multipla. Insomma, non ha vinto quei 7 milioni di sterline che si era già sognato in tasca, grazie ad appena 5 pounds di “investimento”. A Wimbledon io non avrei mai vinto quella somma, scommettendo alle corse dei levrieri. Cani, esattamente come fossero i cavalli delle Bettole. Alla periferia sud di Londra, non lontano dal tempio del tennis, c’è uno stadio apposito. Atmosfera molto inglese. Anziane signore a prendere le scommesse allo sportello ufficiale, anziani bookmakers a contendersi i clienti a bordo pista sotto tre ombrelli di colori diversi. Intorno un viavai di umanità varia che – all’apparenza – di raffinato ha ben poco. Beh, avevo puntato 2 pounds sul cane numero 3, ma la signora dello sportello ha segnato 2. Non me ne ero accorto, finché il 3 non ha battuto proprio il 2 al fotofinish. E ho visto sfumare 5 pounds facili facili. Niente di che, ma per chi passa da Londra questa specie di febbre per la scommessa è un aspetto interessante da notare. Ci sono agenzie di bookmakers praticamente in ogni strada principale, quasi una vetrina accanto all’altra, sono più dei negozi che vendono pane. Si può scommettere sullo sport, calcio in testa. Ma anche sulla politica, sull’attualità ancora da venire, sulle classifiche musicale. E anche, perché no, sulle previsioni del tempo. Mai entrato in uno di questi negozi, troppo pericoloso per le mie tasche. Ma una serata con gli amici al Greyhound Stadium di Wimbledon non poteva mancare. Le corse dei cani non mi hanno particolarmente affascinato, il pubblico dello stadio – una specie di ippodromo per gente ruspante – merita però una visita.

I banchi "ufficiali" dove si raccolgono le puntate

I banchi “ufficiali” dove si raccolgono le puntate

– 30

Ogni volta che dico ai connazionali italiani che vivo in Canada, la prima cosa che mi viene chiesta con un misto di orrore e stupore e’: “Ma quanto freddo fa in Canada?!”

Certo, non siamo ai Caraibi ed e’ senza dubbio vero che su gran parte del territorio, le temperature scendono parecchio al di sotto dello zero; ma Vancouver e la vicina isola sono una sorta di “oasi canadese”, dove le temperature sono miti per gran parte dell’anno. La citta’ si affaccia sull’Oceano Pacifico ed e’ circondata dal “Coastal Mountain Range” e questa fortunata posizione geografica evita che le temperature invernali siano cosi estreme come quelle della costa est del Paese.

Ormai comunque, ci sono abituata e mi fa sorridere pensare che alcune persone in Italia pensino che io viva in un igloo e che il mio vicino di casa sia un orso polare! 🙂

Quest’inverno, in particolare, non fa molto freddo e sembra che il tempo si stia prendendo gioco della citta’, che tra 30 giorni ospitera’ i giochi olimpici invernali.

E’ da quando sono arrivata qui nel 2007 che Vancouver e’ in fermento per le Olimpiadi di quest’anno; ovunque ci sono cantieri aperti, nuove costruzioni, nuovi mezzi di trasporto che collegano le diverse zone della citta’. Dopo Torino, tocca a Vancouver; ma gli abitanti di Vancouver  – i Vancouverites – , a dispetto dei vari disagi di strade interrotte e lavori in corso, non si scompongono piu’ di tanto e mantengono il loro spirito molto “west coast” paziente ed accomodante, perche’ sanno che questa e’ anche la loro occasione per mostrarsi al mondo. Nonostante Vancouver sia sempre, o quasi, la prima citta’ nelle classifiche mondiali per la qualita’ della vita, sento nell’aria il desiderio e l’entusiasmo che accompagna l’attesa di volersi far conoscere, per uscire da quella definizione un po’ sterile e quasi spocchiosa di “citta’ migliore al mondo”.

Le immagini dei parchi di Vancouver, delle sue montagne e del mare che la circonda entreranno nell’immaginario collettivo e finalmente, la gente capira’ un po’ di piu’ perche’ questa citta’ e’ sempre sul podio dei vincitori.

Happy 2010 a tutti!

Vancouver Skyline

Quella brutta fortuna

Stufo di fissare la parete della mia stanza sono uscito.

La mezza vecchia, così mi va di additarla, scendeva faticosamente i gradini del soprapassaggio della stazione di Shimokitazawa.
I capelli arruffati, di un grigio spento, la riga di lato e l’eccesso di sebo, come rami colpiti dal vento.
Una gonna troppo lunga per le sue gambe, toccava quasi i gradini. Aggiungeva un tocco di mestizia al suo incedere affannoso.
Un gradino per volta, passo dopo passo, incerto, ma senza sorreggersi al corrimano.
Il volto segnato dagli anni, le linee della fronte che raccontano molto, ma poco di lieto, e quegli occhi scuri che guizzano indagatori, scrutando la mia barba folta, la mia figura.
Un rumore improbabile tra le sue labbra, credo parole.

Attorno Shimokitazawa brulica di teen-agers, di indies che cantano le loro canzoni insignificanti e stupende.
La vecchia, e i suoi sessant’annieoltre probabili portati molto male, si mescolano nel colore, che li avvolge. Che li occulta, abbracciandoli.
Mi piace pensare che nel non vederla più il colore l’abbia presa. Ringiovanita, e con un sorriso nuovo ed ingenuo.
L’ingenuità, quel grande lusso, il primo ad andare perso. E, invano, per il resto della vita senziente cerchiamo di riempirne il vuoto. Con gli oggetti, coi colori.
Con i sentimenti che vogliamo illuderci discernere così a fondo, solo per non accorgerci che.

Io. In piedi davanti alle scale dell’uscita sud.
Mina nelle cuffie mi distoglie dal fiume di gyaru.
“Io e te da soli”. Sembra così ovvio.

L’attesa, e poi.