Sono ore in cui tutti i giornali del mondo ricordano non solo Steve Jobs, ma la sua filosofia di vita, il suo credo, la sua determinazione nell’inseguire i sogni. Non mi posso definire un appassionato della Apple, non conosco tutto come i suoi cultori. Ma una cosa so per certo: il mondo dell’animazione era in crisi e la Pixar, agli inizi degli anni ’90, rivoluzionò letteralmente questo settore.
Questa azienda, poi acquisita dalla Disney, venne fondata proprio da Jobs, rilevando il reparto di animazione computerizzata di George Lucas. Alla Pixar, Jobs diede indicazioni precise, anche qui, su quello che era il futuro del settore: l’animazione digitale, il tutto con l’aiuto dell’altro genio che è John Lasseter. La Disney stava perdendo colpi, nessuno andava più a vedere al cinema i film in cartone animato. La Pixar comincio con dei cortometraggi, indimenticabili, come quello della lampadina che schiaccia la pallina da tennis. Lampadina poi diventata anche logo dell’azienda. La Disney si accorse delle potenzialità della società e la sostenne anche economicamente.
Fino al grande passo. Toy Story, la vera innovazione, il lungometraggio di animazione digitale che ha rivoluzionato il cinema. Sono passati quasi vent’anni e oggi nelle sale i film che incassano di più sono proprio quelli in animazione digitale: domina ancora la Pixar (come detto acquisita dalla Disney), ma ci sono anche la Dreamworks, la Fox e molti altri che hanno investito milioni di dollari nel raccontare le storie di animazione con questo sistema.
Non si tratta solo di tecnica però. Jobs e i suoi hanno usato il mezzo per raccontare delle storie, dei sogni, gli stessi che con passione inseguiva proprio Steve Jobs. Anche nel cinema quest’uomo, un profeta per molti, ha fatto sognare milioni di persone con delle semplici intuizioni.
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È morto Blake Edwards, padre di Hollywood Party
L’inizio di Hollywood Party. Una delle più belle scene di film commedia della stroia del cinema. Regia di Balke Edward che con Peter Selers ha firmato una serie di film indimenticabili. Personalmente quella scena, tutto l’inizio del film, sono l’apoteosi della commedia. Così vorrei ricordare Edwards, scomparso la notte del 16 dicembre, all’età di 88 anni. Ma il regista ha anche firmato altri capolavori come diversi film della Pantersa Rosa, sempre con Selers, oppure l’indimenticabile Victor Vittoria, o ancora Colazione da Tiffany con una spelndida Audry Hepburn. Un film diverso dal libro di Truman Capote, ma decisamnete grandioso.
Edwards aveva rinnovato la commedia, dando il via anche a quell’autoreferenzialità del cinema poi tipica degli anni ’80, anche se non con gli stessi risultati. Suoi quindi molti capolavori della commedia che aveva realizzatro, ma non aveva mai vinto un Oscar, tanto che nel 2004 l’Accademy cercò di rimediare con un meritato riconoscimento alla carriera. I suoi film rimarranno comunque indimenticabili.
Monicelli, la commedia all’italiana non c’è più
Mario Monicelli se n’è andato buttandosi dalla finestra dell’ospedale. Aveva 95 anni e un tumore alla prostata in fase terminale. Ha scelto di andarsene all’improvviso, per sua scelta, come per sua scelta ha criticato, attraverso la commedia, tutta la storia dell’Italia. Se ne è andato nello stesso anno in cui è scomparso anche uno dei suoi sceneggiatori preferiti, Furio Scarpelli. Insieme avevano realizzato La Grande Guerra, con il quale diedero vita alla commedia all’italiana. Genere che è rimasto impossibile da imitare, nel mondo, ma anche in Italia. Da anni si dice “tipica commedia all’italiana” per ogni film che fa sorridere. Ma non esiste nulla di più falso. L’unico erede, forse, è stato Paolo Virzì, con il suo Ovosodo, capace di leggere l’italia con ironia e personaggi tra lo strafottente e lo stralunato.
La commedia all’italiana non esiste più. Se ne è andata con Monicelli. Vivono i suoi film e la “sana cattiveria” che riescono ancora a trasmettere, come la supercazzola di Amici Miei, o la goffaggine distruttiva dell’Armata brancaleone, per non dimenticare gli scapestrati ladri de I soliti ignoti.
Monicelli ha partacipato ultimamamente a diversi documentari negli ultimi anni, molto nostalgici, ma in cui non ha mancato di pungere con affermazioni molto dure nei confronti della cultura e del cinema, oggi bistrattati (adesso per esempio abbiamo il caso Bonev, e forse ce lo meritiamo).
L’ultima opera del maestro Monicelli, Le rose del deserto, non è certo un film ai livelli dei precedenti. Ma esiste tutta la tematica che ha sempre attraversato il regista. L’ho trovato malinconico, diviso tra speranza e rasseganzione, con un grande Alessandro Haber, come una prosecuzione de La grande guerra. Un testamento cinematografico che credo importante, un atto d’amore per il cinema da parte di un regista che ha dato tanto.
Con i suoi film ha aiutato l’Italia a diventare grande, a rendersi conto dei propri difetti, a riderci sopra quanto basta per cercare di raddrizzare il tiro.
Oggi quei difetti ci sono ancora. Li abbiamo amplificati per non vederli, per far finta che “tanto tutti sono così“. Ma non era lo scopo di Monicelli. E questo è molto triste.
Leslie Nielsen si porta via il vero cinema demenziale
Nessuno può dire di non aver mai visto almeno una scena de L’aereo più pazzo del mondo o di Una pallottala spuntata. Leslie Nielsen, tra i protagonisti del primo e anima della seconda trilogia, è scomparso domenica 28 novembre, all’età di 84 anni, in seguito alle complicazioni di una polmonite.
Personalmente non credo fosse un grande attore, ma sicuramente ha avuto il grande merito di aver trovato la linea attraverso il cinema demenziale, più che comico. Ne L’aereo pià pazzo del mondo interpretava il dottor Rumack, stranito medico dalle cure improbabili, soprattutto con il panico da disastro aereo.
Più memorabile la serie Una pallottola spuntata, ricca di scene esilaranti che anche singolarmente avevano una propria dignità: dalla famosissima scena del “sesso sicuro”, all’incontro con la regina Elisabetta (poi citata anche da Mr.Bean e molti altri).
Mister D non c’è più. “Padre” di Fellini e Serpico
Mister D se ne è andato. Aveva 91 anni e 500 film sulle spalle come produttore. Gli ultimi trent’anni a Hollywood. Aveva lasciato l’Italia, dopo aver dato tutto alla rinascita del cinema nostrano nel Dopoguerra con il neorealismo e con la classica commedia all’italiana. Dino De Laurentiis è morto a Los Angeles, ormai era la sua casa. E anche qui ha fatto dei capolavori, dopo i tanti film di Fellini, come La Strada o Le notti di Cabiria, che personalmente adoro. Poco importa che abbia sposato Silvana Mangano o altri pettegolezzi sulle sue tre mogli, o altro.
Se devo ricordare un film che più mi ha colpito non posso non citare il grande Serpico, il primo film negli States. Un grande Al Pacino, una grande regia di Sidney Lumet. Un poliziotto duro dai modi molto fine (una citazione per tutte: “Sembri un buco di culo con la dentiera!“).
Mister D, così lo chiamavano per rispetto a Los Angeles, ha portato un po’ di anima europea nel cinema americano. Il figlio e il nipote, unici eredi cinematografici, Aurelio e Luigi, oggi producono soprattutto i cinepanettoni. Sembra che vogliano adottare la stessa filosofia di utilizzare gli introiti di quei film per produrre capolavori. Diceva Mister D: “Dicono che faccio film commerciali. E Fellini dove lo mettiamo?”. Speriamo.
Un assaggio di Serpico:
Novant’anni di Grande Guerra. Addio Furio Scarpelli
Una padella alzata dalla trincea, le pallottole che sparano alla pentola ed ecco fatto, un grande Alberto Sordi pronto a cucinare le castagne (La Grande Guerra). Questo era Furio Scarpelli, uno dei grandi sceneggiatori che hanno fatto conoscere il cinema italiano nel mondo nel Dopoguerra e durante il boom economico. Un cinema quello di allora fatto spesso con due lire, ma con grandi idee, capace di raccontare un mondo con l’ironica cattiveria che distingueva il periodo.
Scarpelli è scomparso nella notte tra martedì e mercoledì all’età di 90 anni. Lucido fino alla fine, schivo e sempre pungente nei suoi interventi, amava definirsi un narratore, non uno sceneggiatore. Lo dimostrano i lavori che ha firmato per 45 anni insieme all’amico Age, scomparso nel 2005. Insieme Age & Scarpelli sono stati tra i padri fondatori di quella commedia all’italiana che ancora oggi stenta a ridecollare.
Molti i capolavori, non si può citarli tutti, ma i più importanti sì: oltre al già nominato La grande guerra, ci sono anche L’Armata Brancaleone, I mostri, I soliti ignoti, Sedotta e abbandonata. Furono loro gli sceneggiatori che insieme diedero identità ai loro personaggi facendoli parlare anche in dialetto: ne La grande guerra persino Vittorio Gassman fu costretto a parlare lombardo.
Scarpelli ha saputo anche rinnovarsi, firmando anche una delle più grandi opere western di Sergio Leone, Il buono il brutto e il cattivo. Con gli anni dimostro di saper leggere il mondo contemporaneo in maniera impeccabile: i tradimenti di Romanzo Popolare, le famiglie di C’eravamo tanto amati e La famiglia (di Ettore Scola).
Scarpelli era la sceneggiatura. Non quella che oggi viene scambiata per un testo da mettere in scena. Era l’arte di saper raccontare per immagini, di convincere i registi a vedere quello che lui aveva visto, intuito, trascritto e interpretato.
Come scrive Paolo d’Agostini su Repubblica, il miglior modo per far vivere Furio Scarpelli e diffondere il più possibile i suoi film, tutti.