Film, la “Top 5” del 2012

Lo so è da tanto che non scrivo su questo blog. Tra i buoni propositi dell’anno nuovo c’è anche questo, tenere più aggiornato lo spazio dedicato al cinema, ai film, alle serie tv. O a quello che ispira la narrazione per immagini, perché come recita il sottotitolo del blog “Il cinema è ovunque“.
Per rispettare questo buon proposito eccovi la mia personalissima “top 5” dei film del 2012. Non sono le opere uscite durante l’anno, ma quelle che ho visto e che mi hanno colpito. Quelle che reputo imperdibili per il 2012:

  1. Another Earth” di Mike Cahill (Trailer): teso, romantico, avvincente, per nulla superficiale. Una fantascienza legata al presente, senza dover essere per forza estrema nelle immagini. Sentimenti reali, più vicini di qualsiasi pianeta.
  2. L’amore che resta” di Gus Van Sant (Trailer). Rapporti tra giovani emarginati raccontati con tatto, eleganza e singolare schiettezza. Per nulla banale o superficiale, un modo per riscoprire anche una tenerezza dimenticata.
  3. Warrior” di Gavin O’Connor (Trailer). Rabbia e amore, rispetto e correttezza. Un film avvincente, teso, che sottolinea i rapporti tra padre e figli, tra fratelli che si amano e odiano, dove l’invidia e l’altruismo sono separate da un filo molto sottile.
  4. Blue Valentine” di Derek Cianfrance (trailer). Un “normale” rapporto di coppia, dall’innamoramento alla frustrazione, dalla gioia all’impotenza della vita che travolge i sentimenti.
  5. Drive” di Nicolas Winding Refn (Trailer). Il genere per definizione. Tutte le regole del noir stravolte dalle singolare rappresentazione dell’azione, che lascia più spazio alle emozioni che alla spettacolarità. Un mix dirompente.

Batman e l’insicurezza umana del mito

Quando il male ha le sue motivazioni, le sue paure, le sue vendette. Il cattivissimo Bane entra di diritto nella sfera dei grandi cattivi protagonisti della saga di Batman. Con colpevole ritardo dei distributori italiani è arrivato anche da noi Il cavaliere oscuro – Il ritorno, di cui si conosceva praticamente tutto. Ci siamo goduti lo stesso il film, tre ore di grande cinema per un regista che ormai un culto: Christopher Nolan come Terence Malick, Michael Mann, o Paul Thomas Anderson. Ogni loro film è un evento.
Lo stesso nuovo Batman non delude le attese con un protagonista forse meno dark che negli episodi. Ma poco importa. Quello che in questa saga ha sempre affascinato sono i cattivi, gli antagonisti. Sul nuovo Bane, l’uomo con la maschera, c’erano tante aspettative, troppe forse. Tanto che, nonostante la forte presenza scenica di Tom Hardy, sembra essere in difetto: motivazioni e spessore ci sono, decisamente sopra la media rispetto ai “cattivi” di altri film, ma se paragonato a un Jocker o al precedente “Due facce”, sembra mancare qualcosa, una insicurezza che rendeva decisamente più “umani” gli altri personaggi e che ci portava lo spettatore a identificarsi anche con l’antagonista.
Questione di dettagli. Il nuovo Batman non è perfetto, ma è un grande film, la cui saga ha rivoluzionato i Cinecomis. E togliamoci dalla testa le letture politiche e le accuse di fascismo, non c’entrano assolutamente nulla. I film di Batman, tutti e tre, sono un inno alla creazione dei miti e degli eroi, figure di cui il mondo ha da sempre bisogno. In tutte le sue sfaccettature.

L’aldilà di Eastwood non è un altro mondo

hereafter_xlgL’aldilà secondo Clint Eastwood. È questo Hereafter, niente di più. Nessuna presa di posizione religiosa, nessuna imposizione concettuale, ma solo l’analisi della morte tra i vivi, della vita tra i morti. Mesi fa avevo letto che sarebbe stato un thriller-horror e pensando a film di Eastwood come Debito di Sangue sono rimasto affascinato all’idea, pensando a un nuovo Seven.
Man mano che passavano i mesi e arrivavano notizie sul film, mi sono aspettato qualcosa di diverso: non un film con una semplice storia, ma un racconto senza risposte. E così è stato, alla fine Eastwood dice di prenderla con più leggerezza, la morte, ma è il primo ad averne timore e rispetto allo stesso tempo.
Hereafter a molti fa paura, non nella rappresentazione, ma per viene rifiutato per il contenuto, giudicato semplicistico. Chi lo giudica banale, forse non considera che Eastwood è ormai un artista e come tutti gli artisti le opere vanno contestualizzate in un percorso.  Personalmente preferisco pensare a questo film come un approfondimento di Milion Dollar Baby e Gran Torino, dove la morte è il tema principale. Come Invictus lo è stato per Changeling, dove il tema stava del rapporto tra generazioni.
Storie diverse che hanno a che fare con la realtà. Con temi forti. Che fanno discutere. Nessuna delusione, quindi, in Hereafter, ma uno sforzo per capire una visione della morte che vada al di là del paranormale. Anzì, che rimane tra noi.

Facebook, ci sarà sempre un “ma” nella vita

the-social-network_locandina-itaCome i combattimenti di Fight Club, come l’horror di Seven, come la fantascienza di Alien3, The Social Network mette insieme tutti gli elementi di David Fincher in un serratissimo film su una vera e propria tragedia di vecchio stampo, in stile shakespiriano: amori, tradimenti, vendette. Senza morti, almeno non fisicamente. Tutto in chiave moderna, in una lettura che per molti è anche scontata e normale vita quotidiana. Tutto si riassume in una frase che le donne dicono a Mark in più momenti: “Non sei stronzo, è che fai di tutto per esserlo“. Come se il mondo intero non volesse essere così come si mostra (perchè Facebook è questo, mettersi in mostra), ma solo un modo per far sentire la propria presenza, per vivere delle nuove relazioni, anche più semplici, più dirette, davanti a uno schermo.
Mark, infatti, riesce a essere se stesso solo davanti al suo blog, quando viene mollato da Erika. Per tutto il resto del film (e della sua vita?) è imperscrutabile. Il resto è un’ottima narrazione, ricca di suspance, con dialoghi perfetti dal punto di vista cinematografico.
The social network è la dimostrazione che è possibile raccontare la vita delle persone senza essere stucchevoli o falsi (ogni riferimento alle fiction italiane è una caso…), senza essere per forza lineari, senza dover sempre iniziare da quando il protagonista è vecchio e morente, senza dove  fare stupidi flashbak in dissolvenza, senza trovare sempre lacrime facili di pentimento del protatonista. Non c’è nessun pentimento in Mark: “Se voi foste gli inventori di Facebook, avreste inventato Facebook”, recita a coloro che lo accusano di aver rubato l’idea del sito.
Ma un desiderio di affermazione può non essere una rivalsa sociale, nonostante il successo ottenuto. Puoi avere tutti i soldi del mondo, tutti i mezzi tecnologici del mondo. Ma ne è valsa la pena? Sì, con una postilla: un “ma” ci sarà sempre nella vità. Per tutti.

Robin Hood, ecco il nuovo “Gladiatore”

robin_hoodIl nuovo Gladiatore dieci anni dopo. Vero. Robin Hood diventa tale solo dopo 90 minuti di film. Vero. Russell Crowe non ha il fisico del ruolo, nel senso classico dell’immaginario. Vero. Il regista Ridely Scott cita se stesso più volte, usa lo stesso montatore (Pietro Scalia) che ha inventato il montaggio d’azione più imitato del cinema recente, proprio con Il Gladiatore. Vero.
Ma allora cosa fa del nuovo Robin Hood un bel film? Sicuramente l’alchimia tra attore e regista e poi, sicuramente, il tocco inglese di Scott, che da Alien a Blade Runner, fino ai recente American Gangster ha saputo far emergere quelle storie di valori forti, combinando azione, storia e passione.
Robin Hood racconta la nascita di un mito. Non ci sono calzamaglie verdi, non ci sono scorribande nella foresta “per dare ai poveri“, non ci sono false schermaglie d’amore. Chi si aspetta Errol Flynn rimane sicuramente deluso. Chi cerca un nuovo Kevin Costner (negli anni ’90 all’apice del successo proprio in questo ruolo) prenderà un granchio. Crowe prosegue nel suo percorso di personaggi scontrosi, al limite dell’essere presi a schiaffi. Ma con un senso di giustizia che è universale per tutti. Il tutto con al fianco una più che mai affascinante Cate Balchett.
È vero che il film non è un capolavoro. È un film d’azione di mestiere. La durata, quasi due ore e mezza, non si fa sentire. Per usare un termine tanto in voga negli ultimi anni è un reboot (quando una saga viene riazzerata nel racconto in base a nuove regole e con nuovi obiettivi narrativi). Ridley Scott, fin dalle scritte iniziali, spiega di voler raccontare come è nata una leggenda: non usa i tempi classici della narrativa perchè preferisce scandagliare la nascita del mito di Robin Hood, umanizzandolo. Ed è proprio questo che lo fa diverso da altri film d’azione. Rimane nelle regole, ma si permette delle digressioni.
Nel Gladiatore Crowe cercava vendetta per il figlio ucciso. In questo film interpreta un figlio rimasto orfano. Una peculiarità tra i due film che non è certo casuale. Come non è casuale vi siano continue citazioni al vecchio film. Scott non lo rinnega, lo cita. Da anni si parla di un seguito del Gladiatore, ma nessuno ha trovato ancora la storia giusta. Robin Hood, per tematica (la ricerca della giustizia) ne è il seguito ideale, esattamente dopo 10 anni.

Come arrivare a tifare per un rapinatore

nemico-pubblico

Lo avrei voluto vedere al cinema. Li ho visti tutti i film di Michael Mann. Questa volta mi sono dovuto accontentare di un dvd a noleggio. Ma l’esperienza è stata comunque entusiasmante. Nemico pubblico è un nuovo grande film del regista dell’altrettanto grande The Heat – la sfida. Anche se più in sottotono, la sfida tra due uomini dall’opposta morale continua a essere al centro della cinematografia di Mann, ormai uno dei pochi veri autori americani, insieme a Terence Mallik (I giorni del cielo e La sottile linea rossa).

Con Nemico pubblico, il regista racconta la storia di John Dillinger (interpretato da un Johnny Depp che pare abbia fatto un patto col diavolo, da vent’anni non invecchia di niente), una sorta di Robin Hood degli anni ’30 che svuotava le banche per combattere il sistema, spesso distribuendo ai poveri i proventi delle rapine, senza comunque disdegnare la bella vita e i bei vestiti. Dall’altra parte un agente della nascente Fbi che gli dà la caccia, interpretato da un bravo Christian Bale, un’altra giovane promessa del cinema americano.

Come in The Heat (vero capolavoro di Mann, assolutamente da rivedere), il regista racconta rapine e sparatorie con un taglio decisamente personale, con leggere sospensioni temporali del racconto che fanno il suo cinema, entra nei personaggi e nelle loro contraddizioni fino all’angoscia. Lo stesso Dillinger diventa un eroe, tifiamo per lui, nonostante si possa immaginare la fine che farà. È un altro cinema quello di Mann, capace di mescolare classicismo a modernità.

Molti mi dicono che questo film al cinema li abbia annoiati. Certo, se ci si aspetta una visione ipercinetica di rapine e sparatorie, o una visione rivisitata del seppur bello Sherlok Holmes, si rimane delusi. Il cinema di Mann è una visione personale, in cui lo spettatore dovrebbe essere capace di perdersi, cercando le emozioni dei personaggi, nel cinema, quello vero, non televisivo o da videoclip.  

Assolutamente da segnalare una colonna sonora da manuale. Ecco un assaggio: 

Up, una storia universale oltre la tecnologia

up-nuova-locandina1Quando per la prima volta vidi La bella e la bestia pensai che non fosse un gran bel film. Fu nominato all’Oscar nella categoria delle migliori pellicole. La prima volta nella storia del cinema per un cartone animato. Col tempo, crescendo, mi sono ricreduto. Oggi la storia si ripete. Anche Up è tra i nominati come miglior film agli Oscar 2010. Con l’unica personale differenza che appena l’ho visto ho pensato fosse un capolavoro, esattamente come quasi tutti gli ultimi film della Disney-Pixar (da Monster&Co a Wall-E). In tutti c’è dietro quel gran genio di John Lasseter, creatore di tutti i più grandi successi d’animazione digitale degli ultimi 20 anni, fin dal lontano Toy Story, il primo lungometraggio del genere.

Up conferma l’unica regola cara a Lasseter: l’importanza della storia, della narrazione, rispetto alla tecnologia. Un insegnamento che molti dicono di rispettare, ma che pochi osservano. Solo la Disney oggi sembra essere tornata ai fasti di una volta, dopo la crisi creativa degli anni ’80, proprio grazie alle storie e non semplicemente all’animazione digitale.

Up racconta di Carl Fredricksen, uno scorbutico 78enne, che sembra uscito direttamente dall’altro capolavoro del 2009 che è Gran Torino, che rimasto vedovo decide di realizzare il sogno che per una vita ha coltivato con la moglie: andare in viaggio alle cascate Paradiso. Per realizzarlo parte con tutta la propria casa, sollevata da palloncini, abbandonando alle proprie spalle tutto il mondo intorno a lui che stava cambiando.

Veloce, intelligente, dinamico, commovente, il film ha diverse letture: dall’avventura per i più piccoli, alla complessità del rapporto con la morte. Up, insieme a Wall-E, fa parte di quei capolavori del Cinema, capaci di far pensare all’evolversi della condizione umana, anche attraverso storie che sono delle vere favole. Lassater è la mente dietro a ogni storia, a ogni produzione, qualche volta ha curato anche la regia come in Wall-E, ma alla fine lui e la Disney non sono altro che i fratelli Grimm del nostro tempo: raccontano favole capaci con la finzione di toccare temi e corde dell’animo umano che troppo spesso vengono sopite dalla frenesia di tutti i giorni (o semplicemente dalla monotonia della tv).

Up non cerca di essere un film eccezionale. Ma proprio per questo lo è: una grande idea, una rappresentazione perfetta, dietro una regia che non lascia nulla al caso (i primi dieci minuti sono da manuale, quasi senza parole, solo musica e sentimenti); tutto per confezionare quello che è sicuramente uno dei migliori film dell’ultimo decennio. Per tutte le età.

Tra le nuvole tutto troppo perfetto

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Due volte al cinema in una settimana. Per chi come me aveva abituato gli occhi al televisore di casa, questo è un vero avvenimento. Peccato che, dopo il bel Avatar, l’aspettativa di tanto entusiasmo sia stata smorzata da un film che, seppur bello, abbia reso non come si sperava. Non fraintendiamo, Tra le nuvole di Jason Reitman, è decisamente sopra la media, è un bel film, godibile e intelligente. Ma dopo un inizio molto originale, cattivo, scoppiettante, nella seconda parte scade in un moralismo che poco aiuta quella vena di cattiveria già avviata con Juno dal giovane regista. Certo, anche quel film aveva un moralismo di fondo. Moralismo che però si confondeva con la speranza e che soprattutto affrontava il tema della “vita”.

Tra le nuvole osserva le relazioni umane, le seziona, le comprime, fino a farle esplodere in due personaggi solo apparentemente agli opposti. Il film racconta del tagliatore di teste che combatte il sistema per poter licenziare di persona i dipendenti delle aziende in crisi, piuttosto che essere sostituito da un sistema di chat. Un lavoro, quello del tagliatore di teste, che prende piede soprattutto grazie alla crisi economica e che ha un obiettivo: evitare possibili cause legali all’azienda che licenzia. Clooney nella parte è come al solito fenomenale, il regista usa lo stesso stile fresco e giovane di Juno. Musiche ottime.

Ma quella seconda parte di film, dove il tagliatore di teste Clooney è costretto a fare i conti con i suoi di rapporti personali che aveva “licenziato” anni prima, scade nel banale. Mentre in Juno vi era originalità anche nelle scelte finali della protagonista, in Up in the air (titolo originale del film) proprio il finale non riserva particolari sorprese, tutto è in linea con una classica commedia drammatica. La speranza c’è, la tristezza anche. Tutto è perfetto, forse troppo.

L’anima gentile di quattro ore e mezza di battaglia

red-cliffQuattro ore e mezza di film. Un fiume di immagini che scorreva sul televisore. Unico neo della visione di Red Cliff – La battaglia dei tre regni è stata visione domestica. Il nuovo film di John Woo avrebbe meritato una visione cinematografica, ma non spezzata in due come proposta in Dvd o riassunta al cinema in due ore e mezza, bensì in una serata sola, in un’unica proiezione.

Il regista racconta la battaglia che nel secondo secolo dopo cristo ha portato all’unificazione della Cina. Lo fa in un crescendo di intrighi e battaglie, con una abbondanza di rallenty e montaggi paralleli che sono sempre stati il cavallo di battaglia del suo cinema. Certo non siamo ai livelli estetici di capolavori come The killer o Face Off, qui John Woo è leggermente più contenuto a favore della Storia, ma La battaglia dei tre regni è un racconto quasi shakesperiano, ricco di tradimenti e passioni, intrighi e spie, ma anche con un grande rispetto dell’onore e della battaglia.

Immancabili le citazioni all’Arte della guerra, il testo che ha guidato tutti gli strateghi della storia e che ancora oggi viene applicato, sotto diverse forme, in più campi della vita.

Libertà, indipendenza, rispetto della proprio storia, rifiutando i dominatori-oppressori, sono i temi principali del film. Inutile, superfluo e stupido qualsiasi rimando al cinema italiano di Barbarossa che come tematica non ha niente a che vedere con il film cinese: nella pellicola italiana non c’è alcun sentimento, solo propaganda; nel film cinese, nonostante si legga comunque la propaganda, si percepiscono i sentimenti, anche ai non addetti ai lavori. Questo perchè si raccontano storie e sentimenti universali, come l’amore e l’odio, al di là della rivalsa sociale: si raccontano vite.

A tutto ciò si aggiunge una regia grandiosa che John Woo aveva alquanto estremizzato negli ultimi due Mission Impossible. Qui torna a dominare la sua regia al meglio, rendendola funzionale a un racconto che, seppur nella sua crudezza, ha una grande anima gentile.

I bastardi che non dimenticano

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Quentin Tarantino si conferma uno dei pochi grandi registi in circolazione, insieme naturalmente all’intramontabile Michael Mann. Bastardi senza gloria è un grande film, nonostante le licenze storiche che si prende. Licenze che sono il fondamento di una narrazione “da riscatto” per le vittime. Un capolavoro di cui il regista dell’altrettanto grande Le iene ne è consapevole, tanto da farsi i complimenti da solo alla fine del film.

I bastardi di Tarantino sono perfetti, cattivi, scorretti fino ad arrivare alla macchietta, ma senza raggiungere l’estremismo violento di Kill Bill. La storia degli otto ebrei e del loro comandante che chiede a ognuno lo scalpo di cento nazisti, è un piacere per gli occhi e per le orecchie. Come al solito, il punto migliore sono i dialoghi: Tarantino riesce a rendere credibili dei monologhi che in mano ad altri registi farebbero venire il latte alle ginocchia; li rende vivi e tramite quel fiume di parole crea dei personaggi, come il nazista in questione, da manuale, cattivi che fanno venire i brividi per la loro consapevole lucidità.

Il regista ha realizzato come al solito un omaggio a quello che secondo lui è cinema: le pellicole di serie B che già aveva omaggiato nel sottovalutato Jackie Brown e altri capolavori; qui omaggia/copia un film anni ’70 di Enzo Castellari. Il risultato è un film di serie A, una grande opera che è capace di porre domande come “Ma è possibile che gli ebrei non si siano mai ribellati?” senza vergognarsi di voler mostrare la rabbia per la repressione subita.

Bastardi senza gloria è molto americano, è vero, è impossibile, è storicamente falso. Ma è cinema allo stato puro.