Metti Shining in un albergo abbandonato… altroché 3D

shiningCorridoi vuoti, l’eco nella voce, il tempo che trascorre e tutto rimane immobile, fino alla pazzia. Il Grand Hotel del Cmapo dei Fiori a Varese, abbandonato da anni, è un bell’esempio di architettura, esattamene come l’Overlook Hotel del film Shining di Stanley Kubrick. E sarà proprio il terrificante film a essere proiettato nelle stanze dell’albergo varesino che per una sera, si fa per dire, tornerà in vita grazie al terrore, trasformandosi in uno speciale cinema, il prossimo 12 agosto 2010.
Per i presenti sarà terrore allo stato puro perchè il film di Kubrick, dopo trent’anni dalla sua uscita nelle sale cinematografiche (1980), fa ancora decisamente paura. La storia è quella di una famiglia il cui padre, interpretato da un Jack Nicholson, è uno scrittore in cerca di ispirazione. La famiglia dovrà passare l’inverno nelle stanze di quell’albergo, affrontando l’isolamento a cui saranno costretti. Ben presto la pazzia del buon padre di famiglia si manifesta, complice anche il passato suggestivo dell’albergo, dove anni prima si era consumata una strage in famiglia.
Inquietudine allo stato puro per la storia che il regista ha tratto da un libro di Stephen King (a cui non è piaciuto il film). Ho visto Shining tante volte ormai, la prima da adolesciente e non ho dormito per diverse notti. Tutt’oggi, chi non è praparato a questo tipo di visione rischia di spegnere la tv per il terrore a rivederlo di sera, al buio.
Non oso immaginare cosa possa succedere in una visione collettiva in quella che può essere definitita una riproduzione scenografica come il Grand Hotel Campo dei Fiori, come se l’Overlook Hotel uscisse letteralemnte dallo schermo, altrochè il cinema tridimensionale.
Ci manca solo che Jack Nicholson si metta a firmare autografi e la follia di gruppo è assicurata ancor prima che le luci si spengano per la proiezione.
Per i fortunani che andranno a Varese, buona visione. Forse, stavolta, passo la mano… ancora non dormo bene, ma non so.
Ecco un paio di assaggi del film…

I bastardi che non dimenticano

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Quentin Tarantino si conferma uno dei pochi grandi registi in circolazione, insieme naturalmente all’intramontabile Michael Mann. Bastardi senza gloria è un grande film, nonostante le licenze storiche che si prende. Licenze che sono il fondamento di una narrazione “da riscatto” per le vittime. Un capolavoro di cui il regista dell’altrettanto grande Le iene ne è consapevole, tanto da farsi i complimenti da solo alla fine del film.

I bastardi di Tarantino sono perfetti, cattivi, scorretti fino ad arrivare alla macchietta, ma senza raggiungere l’estremismo violento di Kill Bill. La storia degli otto ebrei e del loro comandante che chiede a ognuno lo scalpo di cento nazisti, è un piacere per gli occhi e per le orecchie. Come al solito, il punto migliore sono i dialoghi: Tarantino riesce a rendere credibili dei monologhi che in mano ad altri registi farebbero venire il latte alle ginocchia; li rende vivi e tramite quel fiume di parole crea dei personaggi, come il nazista in questione, da manuale, cattivi che fanno venire i brividi per la loro consapevole lucidità.

Il regista ha realizzato come al solito un omaggio a quello che secondo lui è cinema: le pellicole di serie B che già aveva omaggiato nel sottovalutato Jackie Brown e altri capolavori; qui omaggia/copia un film anni ’70 di Enzo Castellari. Il risultato è un film di serie A, una grande opera che è capace di porre domande come “Ma è possibile che gli ebrei non si siano mai ribellati?” senza vergognarsi di voler mostrare la rabbia per la repressione subita.

Bastardi senza gloria è molto americano, è vero, è impossibile, è storicamente falso. Ma è cinema allo stato puro.

Sherlock Holmes e i maledetti trailer

sherlock-holmes-locandinaEscludiamo la parentesi Barbarossa che non si può considerare Cinema, ma tornare dopo due anni in una sala buia, con un grande schermo che si illumina e prende vita, è come interrompere una dieta rigida fatta di mandarini e yogurt per lanciarsi verso una tavola imbandita di ogni ben di Dio. Complici dell’emozione due cose: i trailer, che per chi ama il cinema e quelle sensazioni sono come una droga, e il film. Quest’ultimo, Sherlock Holmes, non è stato certo un capolavoro, ma sicuramente ha una sua identità. Nonostante sia un blockbuster americano è anche stato diretto e realizzato da un redivivo Guy Rictchie, un giovane regista che alla fine degli anni ’90 aveva diretto due piccoli gioielli come Lock & Stock e The Snatch. Poi il matrimonio con Madonna lo aveva come addormentato, lei si è messa a fare la regista come se gli avesse rubato (male) il talento, l’anima. Lui faceva il marito. In questi anni, lui ha diretto un film che preferisco nemmeno citare (con protagonista la moglie).

Due anni fa si sono lasciati e lui è come rinato. Ha firmato un altro gioiello indipendente dal titolo Rocknrolla e ora Sherlock Holmes, una rivisitazione in chiave moderna del mito creato da Conan Doyle.

Complici anche due interpreti di sicuro fascino, Robert Downey Jr. e Jud Law, Ritchie dirige con sicurezza senza perdere il proprio stile frenetico, soprattutto nella prima parte, e portando nell‘800 la sua Londra sporca di sentimenti corrotti e avidi. Rivisita il mito, lo rende scorbutico e affascinante, togliendo quella patina di eccessiva riflessione che aveva nel tempo reso il mito di Holmes riflessivo e troppo perfetto. A tutto ciò si aggiunge una trama da “fine del mondo” tanto cara ai filmoni americani (che ricorda l’altra bella e sottovalutata pellicola dal titolo V for vendetta) e il film con pop-corn è servito.

Non un capolavoro certo, ma sicuramente un film interessante. Soprattutto per chi ha interrotto un astinenza che durava da oltre 700 giorni.

E ora? Maledetti trailer…


L’Anticristo nella foresta nera dei sentimenti

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Ero da solo in casa. Ho avuto paura. Molta. Ma non era un film horror. Era Lars Von Trier. Definire un suo film con un genere è impresa decisamente ardua, è un regista capace di toccare corde dell’animo umano per cui dire che una sua opera è bella pare una bestemmia. Un pugno nello stomaco farebbe meno male. In questo Antichrist recitano solo due attori, un grande Willem Dafoe e una sorprendente e inquietante Charlotte Gainsburg (già vista recentemente in Nuovomondo di Crialese). È la storia di una coppia che, in seguito alla morte accidentale e tragica del figlio di tre anni, decide di affrontare il dolro di petto: lui psichiatra, apparentemente ha elaborato la perdita, costringe lei ad affrontare le proprie paure nel luogo che più le incute timore, la loro casa nella foresta.

Il sesso come sfogo del dolore, la paura come limite per la conoscenza di se stessi, le maschere che portiamo come riflessi del mondo che vorremmo. Von Trier ha dichiarato di aver scritto il film di getto, di non averlo fatto leggere al proprio analista per paura non volesse più ascoltarlo. Aveva ragione. Antichrist è un film “di pancia” con emozioni contrastanti che solo Le onde del destino era riuscito a rappresentare. Se con Dogville aveva estremizzato la rappresentazione scenica togliendo qualsiasi scenografia per enfatizzare le emozioni e con Dancer in the dark aveva usato la musica come strumento estraniante (ma allo stesso tempo coinvolgente), con Antichrst torna a quel modo di raccontare i mondi complessi dei protagonisti, tra ambiguità, verità e misteri.

Il senso di colpa gioca un ruolo fondamentale in tutta la storia. Per entrambi i personaggi. Non siamo capaci, come spettatori, di staccarci da loro: possiamo provare ribrezzo, disgusto, pietà, compassione. Ma il dolore è nostro, per tutto il film. In quei magistrali cinque minuti iniziali che crediamo terminare nel prologo. In quell’atteggiamento saccente, distaccato, antipatico, del marito. In quella follia di una madre che non è solo postraumatica.

Antichrist è l’essenza dei sentimenti. Lars Von Trier per molti è un genio, per altri un gran furbo che gioca con le emozioni. Rimane il fatto che è un grande provocatore. I suoi film o si amano o si odiano. Non ci sono vie di mezzo. Per le emozioni che generano dire di amarli è molto complicato. Ma rimangono nel cuore.

Il silenzio degli uomini che odiano le donne

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Deve molto al fenomeno editoriale del libro, ma Uomini che odiano le donne è decisamente un bel thriller: avvincente, non banale, che rispetta tutti i canoni del genere. Certo non reinventa nulla, come invece fece quasi vent’anni fa Il silenzio degli innocenti di Jonathan Demme, di cui riprende certe atmosfere, come il i ricordi di Lisbett da bambina, oppure il dialogo finale tra i protagonista e il serial killer. Il libro di Stieg Larsson non l’ho letto, non ancora. Non mi piace leggere i libri dopo aver visto il film. L’ultima volta che lo feci fu con proprio con Il silenzio degli innocenti tratto dal libro di Thomas Harris. In quel caso, poi, mi divorai anche il libro precedente, Il delitto della terza luna (da cui fu tratto un altro mirabile film dal titolo Munhunter, frammenti di un omicidio che mi fece scoprire e adorare il regista Micheal Mann).

Oggi, dopo aver visto il primo film tratto della trilogia di Larsson, mi convinco che romperò ancora la regola e leggerò il libro dopo la visione. Voglio capire le atmosfere, vedere come l’autore ha rappresentato la violenza, se la fascinazione del cinema ha aggiunto o, come spesso capita, tolto qualcosa al libro.

Resta comunque il fatto che quest’opera porta la singolare firma di una coproduzione tra Danimarca e Svezia (anno d’oro per quest’ultima che ha portato all’attenzione internazionale una meravigliosa storia di vampiri, Lasciami entrare, la risposta d’autore a Twilight).
Uomini che odiano le donne

ha quel giusto equilibrio tra storia, intreccio, narrazione, originalità ed emotività che il cinema hollywoodiano ha dimenticato da tempo, abbandonandosi a storie tutte uguali. Il racconto del giornalista incaricato di indagare su un omicidio di 40 anni fa e che grazie alla collaborazione di un hacker professionista, l’androgina Lisbett, scopre un pericoloso serial killer, è rappresentata con intelligenza senza dialoghi che spieghino tutti o immagini superflue e televisive. Fa paura a tratti, è inquietante in altri. Mai ridicolo. E la protagonista, non certo un esempio di classica bellezza, è il caso di dire che buca letteralmente lo schermo.

La politica distruttiva del “Barbarossa”

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Un’opera cinematografica non si giudica dal suo consenso al botteghino. È vero. Ma se a dirlo, come nel caso del Barbarossa, sono gli stessi leghisti che attaccavano, e attaccano, il cinema che prende finanziamenti pubblici e non incassa, le affermazioni sembrano quantomeno rivoltare la frittata a seconda di quale parte si vuole bruciare.

Molte le polemiche che hanno accompagnato l’uscita del film. Vi è sicuramente entrata troppa politica. Non certo per le critiche “di sinistra”, ma per la promozione che ne ha fatto il popolo padano, a partire dai suoi colonnelli.

Proviamo a dimenticare tutto. Renzo Martinelli, il regista, ha dichiarato che un film va giudicato dalle emozioni che è capace di suscitare, che deve avere una funzione maieutica, far pensare, che vada giudicato solo come un film. Bene. Quindi proviamo a utilizzare questi parametri.

Barbarossa non suscita emozioni. O meglio ne suscita molte in chi è predisposto ideologicamente a voler vedere una rivolta contro gli invasori, a chi li vuole vedere decapitati. Il film inizia bene, abbandona gli stilemi della fiction televisiva. Ma l’illusione dura poco. Ben presto entrano in gioco gli echi della “libertà” a tutti i costi. I personaggi diventano macchiette. Alberto Da Giussano non ha alcuna motivazione per combattere, non ha un conflitto interiore che lo porti ad essere alla guida della Compagnia della morte, non ha una ferita che lo spinga a fare quel che fa (se non a metà film quando muoiono i fratelli). Come se rappresentare i fatti di una storia bastasse a giustificare svolte narrative.

Barbarossa ha il grande difetto di essere stato realizzato pensando già a un pubblico di riferimento. Altroché Braveheart, grande film di Mel Gibson. Qui si raccontava una vera ribellione, di un eroe diventato tale suo malgrado, il cui scopo di vendetta è diventato motivo di libertà per molti, fin da subito gli viene ucciso il padre e, con estrema cattiveria, anche l’amata. Alberto da Giussano non è niente di tutto ciò: confonde la pazzia con la ribellione, riuscendo persino in un finale televisivo in cui l’amore trionfa a tutti i costi, anche a scapito di una narrazione. Se Mel Gibson venne accusato di megalomania, di voler diffondere un integralismo cristiano, almeno aveva realizzato un’opera che parlava al mondo intero, non a una nicchia.

La seconda parte del film inoltre (e qui si vede già l’impianto pronto per la suddivisione in due puntate da fiction) potrebbe esistere da sé, senza tutto il lungo preambolo della distruzione di Milano. Sebbene sia la parte più interessante è invece la parte più fredda, in cui le motivazioni dei personaggi vengono lasciate da parte dando eccessivo risalto alla battaglia di Legnano e al giuramento di Pontida che gli spettatori in sala attendono con ansia, a scapito di una storia che non emoziona.

Torniamo al contesto storico in cui è stato realizzato Barbarossa. Oggi. È stato detto che Martinelli non è un regista di regime. È vero. Leni Riefenstahl, la regista di Hitler prima della guerra, era una regista di regime. Conosceva l’obiettivo e lo dichiarava, non lo nascondeva dietro finte emozioni. Le sue immagini sono entrate nella storia del cinema. Nonostante l’ideologia che trasmettevano. Lo stesso non sarà per Barbarossa. Sarà proiettato per anni nei circoli della Lega, sarà oggetto di forte marketing, avrà vita lunga. Ma sarà solo uno strumento di propaganda ideologica.

Fuori… Nemico pubblico nr.1

nemico-pubblico-1-istinto-di-morteTre ore e mezzo. Due film al cinema. Due dvd a noleggio. Tre serate per poterlo vedere degnamente. La visione di un film del genere non è semplice e per i puristi del cinema spezzettare la visione è un insulto. Ma il francese Nemico pubblico nr.1 (in attesa nei cinema dell’altro Nemico pubblico di Michael Mann e con Johnny Depp) è un bell’esempio di gran bel cinema, che non viene certo sminuito da questo tipo di visione spezzettata.

Un film francese, con una piccola (molto piccola) coproduzione italiana. Questa pellicola conferma l’incapacità italiana di affrontare i film biografici. Non per essere insistente, ma da noi questo genere è stato quasi totalmente relegato alla fiction, che oggi sminuisce la potenzialità delle storie. Se poi si considera che è la storia di un malvivente, da noi non verrebbe nemmeno prodotto, né al cinema, né in tv.
Nemico pubblico racconta l’ascesa di Jacques Mesrine, uno dei più efferati criminali francesi che, negli anni ’70, ha letteralmente terrorizzato la Francia. Interpretato da uno strepitoso Vincent Cassel, il personaggio non ha scrupoli, è alla ricerca costante di una ideologia, di una motivazione, dietro cui nascondere la sua sete di protagonismo, di potere, di soldi. Si nasconde dietro il “voler abbattere il sistema”, le banche, le carceri. Accettando con molta facilità invece i richiami del crimine. Unico mezzo per fermarlo: un assassinio a sangue freddo compiuto proprio dalla polizia.

Impensabile in Italia parlare male delle forze dell’ordine. Anche solo per finzione, non a livello documentaristico. Solo questo varrebbe la visione a un pubblico italiano.

Nemico pubblico nr. 1 conferma che il cinema francese è ormai anni luce avanti al nostro. Soprattutto nel genere del poliziesco, in cui qualche anno fa aveva sfornato il capolavoro 36 Quai des Orfèvres.

Le oltre tre ore valgono sicuramente la visione dei due film (anche in bagno!), dai sottotitoli accattivanti, L’istinto della morte e L’ora della fuga.

…in attesa dell’ultimo Nemico Pubblico, dove l’autore americano Micheal Mann (l’ultimo vero grande autore!) di grandi polizieschi come The Heat, ridarà vita a al rapinatore Dillinger.