Peccato, nessuna sorpresa per l’Italia alla notte degli Oscar. Vincere di Bellocchio non è stato ammesso perchè trasmesso contemporaneamente in sala cinematografica e on-demand, La prima cosa bella di Virzì non è entrato nella cinquina di miglior film straniero. L’ultima speranza era per Io sono l’amore di Luca Guadagnino, per molti critici e registi americani uno dei migliori film dell’anno. Ci si consola con una nomination ai costumi proprio per il film di Guadagnino.
Risultato: tutto secondo le aspettative con una autocelebrazione del cinema in lingua inglese. Per carità, nessuna critica, spesso le opere da Oscar sono molto interessanti e la macchina del cinema Usa è spesso contraddittoria, fatta di molta promozione.
Sul versante italiano diciamo che si tratta di un’altra conferma di come il nostro cinema sia considerato all’estero, ovvero quasi inesistente. Mentre in Italia la fanno da padrone le commedie con incassi stratosferici (tra l’altro tutte interpretate da comici televisivi come Zalone, Albanese, Aldo Giovanni e Giacomo), all’estero il cinema italiano non viene quasi più preso in considerazione, a parte rari casi. Sembra che, a parte i già citati Bellocchio e Guadagnino, non si sappia raccontare storie internazionali. Su Virzì avevo già espresso forti dubbi: un bel film, ma non dal respiro internazionale.
Tornando agli Oscar, come detto, tutto da programma: 12 nomination al Discorso del re, appena uscito in Italia. 10 alla nuova opera dei Fratelli Coen, Il Grinta. 8 a Inception di Christopher Nolan e The Social Network di David Fincher. Pare proprio che sarà quest’ultimo a farla da padrone. Appuntamento ora la notte del 27 febbraio.
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Monicelli, la commedia all’italiana non c’è più
Mario Monicelli se n’è andato buttandosi dalla finestra dell’ospedale. Aveva 95 anni e un tumore alla prostata in fase terminale. Ha scelto di andarsene all’improvviso, per sua scelta, come per sua scelta ha criticato, attraverso la commedia, tutta la storia dell’Italia. Se ne è andato nello stesso anno in cui è scomparso anche uno dei suoi sceneggiatori preferiti, Furio Scarpelli. Insieme avevano realizzato La Grande Guerra, con il quale diedero vita alla commedia all’italiana. Genere che è rimasto impossibile da imitare, nel mondo, ma anche in Italia. Da anni si dice “tipica commedia all’italiana” per ogni film che fa sorridere. Ma non esiste nulla di più falso. L’unico erede, forse, è stato Paolo Virzì, con il suo Ovosodo, capace di leggere l’italia con ironia e personaggi tra lo strafottente e lo stralunato.
La commedia all’italiana non esiste più. Se ne è andata con Monicelli. Vivono i suoi film e la “sana cattiveria” che riescono ancora a trasmettere, come la supercazzola di Amici Miei, o la goffaggine distruttiva dell’Armata brancaleone, per non dimenticare gli scapestrati ladri de I soliti ignoti.
Monicelli ha partacipato ultimamamente a diversi documentari negli ultimi anni, molto nostalgici, ma in cui non ha mancato di pungere con affermazioni molto dure nei confronti della cultura e del cinema, oggi bistrattati (adesso per esempio abbiamo il caso Bonev, e forse ce lo meritiamo).
L’ultima opera del maestro Monicelli, Le rose del deserto, non è certo un film ai livelli dei precedenti. Ma esiste tutta la tematica che ha sempre attraversato il regista. L’ho trovato malinconico, diviso tra speranza e rasseganzione, con un grande Alessandro Haber, come una prosecuzione de La grande guerra. Un testamento cinematografico che credo importante, un atto d’amore per il cinema da parte di un regista che ha dato tanto.
Con i suoi film ha aiutato l’Italia a diventare grande, a rendersi conto dei propri difetti, a riderci sopra quanto basta per cercare di raddrizzare il tiro.
Oggi quei difetti ci sono ancora. Li abbiamo amplificati per non vederli, per far finta che “tanto tutti sono così“. Ma non era lo scopo di Monicelli. E questo è molto triste.
Mister D non c’è più. “Padre” di Fellini e Serpico
Mister D se ne è andato. Aveva 91 anni e 500 film sulle spalle come produttore. Gli ultimi trent’anni a Hollywood. Aveva lasciato l’Italia, dopo aver dato tutto alla rinascita del cinema nostrano nel Dopoguerra con il neorealismo e con la classica commedia all’italiana. Dino De Laurentiis è morto a Los Angeles, ormai era la sua casa. E anche qui ha fatto dei capolavori, dopo i tanti film di Fellini, come La Strada o Le notti di Cabiria, che personalmente adoro. Poco importa che abbia sposato Silvana Mangano o altri pettegolezzi sulle sue tre mogli, o altro.
Se devo ricordare un film che più mi ha colpito non posso non citare il grande Serpico, il primo film negli States. Un grande Al Pacino, una grande regia di Sidney Lumet. Un poliziotto duro dai modi molto fine (una citazione per tutte: “Sembri un buco di culo con la dentiera!“).
Mister D, così lo chiamavano per rispetto a Los Angeles, ha portato un po’ di anima europea nel cinema americano. Il figlio e il nipote, unici eredi cinematografici, Aurelio e Luigi, oggi producono soprattutto i cinepanettoni. Sembra che vogliano adottare la stessa filosofia di utilizzare gli introiti di quei film per produrre capolavori. Diceva Mister D: “Dicono che faccio film commerciali. E Fellini dove lo mettiamo?”. Speriamo.
Un assaggio di Serpico:
“Oggi sposi”… come dire “Luoghi comuni oggi”
Non ci si annoia (non troppo) a guardare Oggi sposi, l’ultimo film di Luca Lucini, ma sinceramente la commedia italiana ha sfornato di meglio (vedi Diverso da chi?). Dopo aver visto il bel Basilicata coast to coast, Oggi sposi è stata una vera delusione: un cast all star per una storia banale, semplice, prevedibile e dall’intreccio da film corale che non aveva nemmeno tutte le connessioni narrative al punto giusto. Si salva solo l’interpretazione di sue attori: Michele Placido e Filippo Nigro. Ma quando si arriva a scegliere delle cose positive nel complesso di un’opera, vuol dire che in quel “complesso” c’è qualcosa che non va.
Insomma da Luca Lucini, giovane regista che sta crescendo nella scuderia Cattleya, mi aspettavo qualcosa di più, soprattutto dopo le belle prove L’uomo perfetto e Solo un padre. Invece, sembra proprio che quando le star sono troppe, il prodotto perda di consistenza mettendosi troppo al servizio del mercato.
Nella mia tv di casa (purtroppo la sala è tornata a essere un miraggio lontano… ahimè) sono arrivato in fondo al film per “dovere di storia”, per concludere la serata. Mi sa che, però, dovrò imparare ad adottare anche al cinema il decalogo di Pennac sui diritti del lettore, in cui primeggia il diritto di non abbandonare il libro (il film?) quando si vuole.
Basilicata da costa a costa: l’estate continua…
Divertente, trascinante, ironico, intelligente e soprattutto non banale. Basilicata coast to coast l’ho visto poco dopo essere stato in ferie, in Toscana, ma poco conta. È un film dove si respira l’estate e per una sera è stato come non avere pensieri, spegnere il cervello (ancora) in maniera intelligente.
È un un’opera prima di un “vecchio” attore, Rocco Papaleo, diventato famoso per molte parti secondarie in film come quelli di Pieraccioni, oppure, meglio ancora, nella mitica serie tv dell’89, Classe di Ferro. Mi piace da allora.
Papaleo ha curato la regia e le musiche di questo singolare film, senza nascondere comunque il fascino del genere road movie. Per road, si intende davvero road, visto che i protagonisti, quattro amici che hanno messo su il complesso delle “Pale eoliche”, decidono di affrontare i nodi della propria vita attraversando la regione da del titolo da costa a costa, a piedi.
Il tutto per partecipare a un concorso con esibizione sul palcoscenico, la prima volta dopo anni di prove in garage. Con loro una brava e antipatica Giovanna Mezzogiorno, giornalista che non crede più in nulla (le aveva interpretato anni fa un ruolo tanto opposto da essere quasi una continuazione, quello di Ilaria Alpi).
Il film è ricco di storie, ma il nodo comune a tutti è quella musica tanto strana da far parlare solo il cuore, le parole che si intrecciano e che perdono significato in testi solo apparentemente stupidi. Nel gruppo anche Max Gazzè, muto, che parla solo col basso.
Dire che il film è bello è affrettato. Dire che i paesaggi sono scontati è banale. Dire che la storia funziona è semplicistico. Dire che l’insieme ha un’atmosfera genuina che pochi altri film italiani riescono a far trasparire (ormai troppo costruiti nelle griglie di una commedia troppo scontata e vecchia), è quello che si avvicina di più alla verità.
Proprio quello che non si vede è la potenza del film: la passione e il cuore che il gruppo, che i protagonisti, che il regista, mettono insieme per poter portare a termine un’impresa.
I parenti sono come i tacchi, scomodi ma utili
Ebbene sì, sono tornato al cinema, anche se con uno schermo che era grande come uno di quei nuovi super televisori. Ma fa niente. Il buio della sala è comunque inimitabile, non riproducibile
in un salotto o in una cantina. Ho visto un Ken Loach dei vecchi tempi. Almeno per tre quarti del film. È quello a cui mi ha fatto pensare La nostra vita di Daniele Lucchetti, storia di un muratore (Elio Germano) costretto dalla vita a trasformarsi, a passare da vittima a carnefice della società. Una grande interpretazione dell’attore che ha vinto anche la Palma d’Oro a Cannes e una regia di Lucchetti che era ai livelli di Loach, il regista operaio inglese, autore dello storico Riff Raff e di molti altri film di denuncia della condizione lavorativa di operai, poveri e immigrati.
La prima mezz’ora è davvero angosciante (la scena del funerale è da manuale, senza retorica). Forse perché l’ho visto lontano da casa. Forse perché la moglie del protagonista aspetta un bambino e non ce la fa. Ma la visione è sicuramente non da soap opera. Tutto è un crescendo credibile di tragedia e sofferenza: lui deve affrontare come può la perdita della moglie, rimane da solo con tre figli e l’unico che lo aiuta è lo spacciatore vicino di casa (un Luca Zingaretti irriconoscibile). C’è sempre anche la famiglia, i fratelli, che non lo abbandonano (“i parenti sono come i tacchi, sono scomodi ma aiutano”). Totale assenza delle istituzioni e dello Stato, a cui il protagonista non pensa nemmeno lontanamente di rivolgersi, né per il lavoro, né per un aiuto coi bambini.
Peccato per il finale. Consolatorio. Non lo nego, mi ha fatto andare a casa tranquillo. E forse ne avevo bisogno. Ma non è da Ken Loach e soprattutto è poco reale. Un lieto fine che dà speranza, è vero, ma che crea un distacco dalla storia, come se fosse una favola. Come insegna proprio il regista inglese, non deve per forza finire in tragedia, ma nemmeno dare una risposta a tutti i costi. Il film poteva chiudersi anche qualche scena prima e lasciare allo spettatore la possibilità di scegliere il finale nella propria testa.
La nostra vita rimane comunque un bel film. E conferma che il cinema italiano, come ha dimostrato anche Virzì con La prima cosa bella, è vivo e pensa. Merito anche degli sceneggiatori: gli storici Rulli e Petraglia che in passato hanno firmato tanti capolavori, come La meglio gioventù.
La partita del secolo? Italia-Marocco
Si avvicinano i mondiali di calcio e immancabili arrivano le classifiche delle partite più belle, i gol indimenticabili, i momenti salienti dei diversi mondiali. Ma la “partita del secolo” per me non è Italia-Germani 4-3, ricordata anche nell’omonimo film, ma quell’Italia-Marocco che vede protagonista la “banda” di Salvatores in Marrakech Express.
Partita di pochi minuti dove il cinema italiano riesce in quell’impresa di dichiarazione d’amore al calcio che mai era riuscita prima. Persino Aldo Giovanni e Giacomo, nel loro esordio al cinema con Tre uomini e una gamba, non hanno potuto fare a meno di omaggiare quell’incontro. Ecco, quindi, la partita del secolo, nelle due declinazioni.
I due lati opposti del cinema italiano
Il giorno e la notte. Non saprei come altro definire le visioni “tardive” (in dvd) di questi giorni. Proprio mentre a Cannes viene premiato il cinema italiano con La nostra vita di Daniele Lucchetti, mi sono dedicato a recuperare due film che credevo entrambi importanti. La prima cosa bella di Paolo Virzì e Baciami ancora di Gabriele Muccino.
Su Virzì premetto che non sostengo lo stereotipo che lo vedrebbe l’erede della commedia all’italiana, l’erede di Dino Risi (omaggiato dal regista nel film). Sarebbe una gabbia in cui chiuderlo. Virzì ha un suo stile e lo dimostra. La prima cosa bella è un grande film, capace di far ridere e piangere, con una grande Mastrandrea (che parla con accento livornese!). La storia è un bell’affresco dell’Italia, non solo degli anni ’70, ma di quel presente che non lascia scampo, pieno di labirinti e passioni senza uscita. È poetico e delicato, ironico e graffiante. Virzi, fin da Ovosodo si è dimostrato l’unico in grado di fare della comicità non volgare, ma nello stesso tempo capace di far pensare, riflettere, su una società in evoluzione e in continua esigenza di una direzione. Lasciando una speranza vera alla fine della visione, non artefatta e fiabesca di una muccinata.
Purtroppo poi, esaltato dalla visione di Virzi, ho inserito il dvd di Baciami ancora sperando che il videoclip di Jovanotti fosse solo un assaggio dell’opera di Muccino. Niente. Ma nel senso vero del termine. Il film è una girandola di tradimenti, misogino fin nel midollo della pellicola, dove il regista-autore, sembra voler trovare una giustificazione per forza scontata al malessere delle coppie che crescono. Muccino, sempre lui perchè il film inevitabilmente è suo, dà un finale a L’ultimo bacio rendendo stupido anche il film di 10 anni fa che si salvava proprio per quel non finale che ognuno leggeva come voleva. L’ultimo bacio, purtroppo diede il via a quella serie di film generazionali di cui oggi non sentiamo più il bisogno (fino ad arrivare a quelli “mocciosi”), ma almeno aveva il pregio di essere registicamente fresco e soprattutto di essere il primo. Baciami ancora è vecchio. È una grande e lunga soap opera, come ha definito chi mi stava vicino. Ma una soap che con le nuove serie tv americane non ha niente a che vedere. Di questo film si salvano solo la Belvedere e Favino. Grandi e bravi. Ma non basta.
Due film, il giorno e la notte. E speriamo che il giorno prosegua a lungo perchè il cinema italiano, nonostante la classe dirigente non ci creda (come ha detto Elio Germano a Cannes), sta vivendo un bel momento di produzione intellettuale. Muccinate e cinepanettoni a parte.
Draquila, sangue a rabbia a un anno dal terremoto
“Ci avevo creduto anche io che il governo stesse reagendo”. “Tenevo a bada il mio antiberlusconismo”. “In Abruzzo si capisce come si può costituire una dittatura”. Sono solo alcune frasi che in questi giorni Sabina Guzzanti ha utilizzato per spiegare il suo ultimo film, Draquila – L’Italia che trema, un documentario in pieno stile Michael Moore (sembra tra l’altro siano grandi amici).
Stando alle prime sequenze visibili sul suo sito (il film esce il 7 maggio), l’autrice mette da parte l’ironia e il sarcasmo che l’hanno sempre contraddistinta (ma non tutto) per raccontare in 93 minuti quello che è successo in un anno, dopo il terremoto che ha colpito l’Abruzzo nel 2009. I sentimenti che scatenano i primi spezzoni sono rabbia, confusione e delusione.
La Guzzanti ha realizzato 700 ore di interviste, montate come i documentari di Moore: veloci, dinamici, con tante vignette e grafici. Domande insistenti, semplici e irritanti per gli intervistati proprio per la loro schiettezza. La Guzzanti dice non aver realizzato un film contro Berlusconi, ma contro un modo di fare che sta uccidendo l’Italia: sceglie di mettere di far sentire le risate dei costruttori poche ore dopo il terremoto, costruttori che pensano già agli affari che faranno; sceglie di far vedere anche l’assenza dell’opposizione in Italia, presente in Abruzzo con una tenda vuota in ogni stagione, con dentro solo un panino che ammuffisce; sceglie di intervistare coloro che hanno ricevuto le nuove case con tanto di spumante nel frigo; sceglie di raccontare come un padre abbia perso due figli perché ha ascoltato la televisione che lo rassicurava su quanto stava accadendo, piuttosto che “ascoltare” l’istinto e uscire di casa.
Il film andrà a Cannes come evento speciale e avrà una risonanza internazionale. Bertolaso ha già detto che non sarà una bella immagine per l’Italia, Berlusconi ha detto che c’è troppa libertà di stampa. La Guzzanti, attraverso il proprio blog, ha risposto solamente citando una frase di Voltaire: «Non sono d’accordo con quello che dici, ma darei la vita perché tu lo possa dire».
La Guzzanti sempre sul sito ha scritto che facendo questo film ha “scoperto di amare questo paese”. In un’intervista all’Espresso ha spiegato il perché: “Perché come l’Aquila questo paese lo stiamo distruggendo. E come spesso accade, ti accorgi di quanto ami qualcuno e di quanto sia prezioso, solo quando lo stai perdendo”. Una motivazione che da sola vale la visione del film.
La grande ballata di Jovannotti per Muccino
Muccino e Jovanotti, due concezioni dell’amore apparentemente agli antipodi. Il primo senza alcuna speranza, quasi vittima di quel sentimento che schiavizza e fa star male. Il secondo colmo di speranza e sentimenti. Il primo decadente, il secondo romantico. Eppure si sono incontrati. Muccino per il suo nuovo esordio in Italia (dopo aver realizzato negli Stati Uniti ben due film con Will Smith, La ricerca della felicità e Sette anime), ha chiesto al cantautore italiano di realizzare la canzone principale del film, quella che accompagnerà i titoli di coda di Baciami ancora.
Film e canzone hanno lo stesso titolo. Jovanotti senza abbandonare il suo stile ha espresso, con una disarmante e bellissima semplicità, tutta la sua concezione dell’amore, con un testo fatto di immagini, singole parole che evocano pensieri e momenti della vita, senza enfasi, solo momenti, come gli istanti di un film. La stessa tecnica musicale-narrativa che ha fatto grande e unico il suo precedente album.
Il film di Muccino, con gli stessi protagonisti del film che lo ha fatto conoscere al grande pubblico, L’ultimo bacio, uscirà nei prossimi giorni nelle sale. La canzone di Jovanotti è già tra le più scaricate da internet. Quasi scontato il successo del film. Ma mentre Jovanotti, nella sua ballata anni ’50, a cui lui stesso ha dichiarato di essersi ispirato, ha espresso la sua positività per la vita, ho forti dubbi che lo stesso possa fare Muccino. Sono pronto a sorprendermi e mi piacerebbe. Ma quasi dieci anni fa, con L’ultimo bacio scoprii con amarezza che le cose più belle del film erano due: la canzone omonima di Carmen Consoli e la capacità di Muccino di aver svecchiato la macchina cinema (fu un periodo d’oro perchè lo stesso anno lo stesso fece anche il più bello Santa Maradona). Da allora è poi nato un quasi genere cinematografico fatto di adulti mai cresciuti, coppie disfatte, amori impossibili, il cui estremo sono oggi gli inguardabili film di Federico Moccia.
Oggi Baciami ancora. Mi piacerebbe essere smentito. Quasi sicuramente lo andrò a vedere al cinema. Per ora, la canzone, ha colpito nel segno.