Non andavo al cinema da un bel po’, come al solito uscite rarefatte, ma necessarie. Con la scusa di portare mia figlia di quattro annì, ho visto il mio film natalizio della Disney (in passato immancabile appuntamento del 26 dicembre). E l’ho visto addirittura in 3D! Si tratta di Rapunzel l’intreccio della torre, un film per grandi e piccoli, una vera sorpresa. È l’esempio perfetto dell’incontro del classicismo della Disney con la modernità (non solo tecnica) della Pixar.
La storia di Raperonzolo e dei suoi lunghi capelli magici, imprigionata nella torre da una madrina egoista, diventa un’avventura alla scoperta della libertà e di se stessi, contro la paura di quello che non si conosce.
Avvincente, divertente, spassoso, mai compiaciuto nel racconto, conferma la rinascita dell’animazione.
Il 3D, inoltre, non è per niente invasivo, è sempre utilizzato in maniera intelligente e adatto alla narrazione. Spettacolare in questo caso la scena delle lanterne, ma non solo. Lo è anche la semplice farfalla che sveglia Flynn, il protagonista maschile (tra l’altro disegnato basandosi su Harrison Ford e Errol Flynn) e tanti altri particolari.
Sempre spassosi i personaggi di contorno, le cosiddette spalle. Dai tempi delle teiere de La bella e la bestia, hanno assunto un protagonismo sempre maggiore e spesso salvano il film. Come fecero la scimmietta e il pappagallo in Aladin, a cui Rapunzel si rifà molto, in questo nuovo film rubano spesso la scena il camaleonte Pascal e il cavallo Maximus.
Rapunzel, anche se è uscito presto nelle sale italiane, avrà un percorso lungo, soprattutto nel periodo di Natale e grazie al passaprola di grandi e piccoli, maschi e femmine, non ci sono distinzioni. E aspettatevi qualche lacrimuccia…
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Basilicata da costa a costa: l’estate continua…
Divertente, trascinante, ironico, intelligente e soprattutto non banale. Basilicata coast to coast l’ho visto poco dopo essere stato in ferie, in Toscana, ma poco conta. È un film dove si respira l’estate e per una sera è stato come non avere pensieri, spegnere il cervello (ancora) in maniera intelligente.
È un un’opera prima di un “vecchio” attore, Rocco Papaleo, diventato famoso per molte parti secondarie in film come quelli di Pieraccioni, oppure, meglio ancora, nella mitica serie tv dell’89, Classe di Ferro. Mi piace da allora.
Papaleo ha curato la regia e le musiche di questo singolare film, senza nascondere comunque il fascino del genere road movie. Per road, si intende davvero road, visto che i protagonisti, quattro amici che hanno messo su il complesso delle “Pale eoliche”, decidono di affrontare i nodi della propria vita attraversando la regione da del titolo da costa a costa, a piedi.
Il tutto per partecipare a un concorso con esibizione sul palcoscenico, la prima volta dopo anni di prove in garage. Con loro una brava e antipatica Giovanna Mezzogiorno, giornalista che non crede più in nulla (le aveva interpretato anni fa un ruolo tanto opposto da essere quasi una continuazione, quello di Ilaria Alpi).
Il film è ricco di storie, ma il nodo comune a tutti è quella musica tanto strana da far parlare solo il cuore, le parole che si intrecciano e che perdono significato in testi solo apparentemente stupidi. Nel gruppo anche Max Gazzè, muto, che parla solo col basso.
Dire che il film è bello è affrettato. Dire che i paesaggi sono scontati è banale. Dire che la storia funziona è semplicistico. Dire che l’insieme ha un’atmosfera genuina che pochi altri film italiani riescono a far trasparire (ormai troppo costruiti nelle griglie di una commedia troppo scontata e vecchia), è quello che si avvicina di più alla verità.
Proprio quello che non si vede è la potenza del film: la passione e il cuore che il gruppo, che i protagonisti, che il regista, mettono insieme per poter portare a termine un’impresa.
Draquila, sangue a rabbia a un anno dal terremoto
“Ci avevo creduto anche io che il governo stesse reagendo”. “Tenevo a bada il mio antiberlusconismo”. “In Abruzzo si capisce come si può costituire una dittatura”. Sono solo alcune frasi che in questi giorni Sabina Guzzanti ha utilizzato per spiegare il suo ultimo film, Draquila – L’Italia che trema, un documentario in pieno stile Michael Moore (sembra tra l’altro siano grandi amici).
Stando alle prime sequenze visibili sul suo sito (il film esce il 7 maggio), l’autrice mette da parte l’ironia e il sarcasmo che l’hanno sempre contraddistinta (ma non tutto) per raccontare in 93 minuti quello che è successo in un anno, dopo il terremoto che ha colpito l’Abruzzo nel 2009. I sentimenti che scatenano i primi spezzoni sono rabbia, confusione e delusione.
La Guzzanti ha realizzato 700 ore di interviste, montate come i documentari di Moore: veloci, dinamici, con tante vignette e grafici. Domande insistenti, semplici e irritanti per gli intervistati proprio per la loro schiettezza. La Guzzanti dice non aver realizzato un film contro Berlusconi, ma contro un modo di fare che sta uccidendo l’Italia: sceglie di mettere di far sentire le risate dei costruttori poche ore dopo il terremoto, costruttori che pensano già agli affari che faranno; sceglie di far vedere anche l’assenza dell’opposizione in Italia, presente in Abruzzo con una tenda vuota in ogni stagione, con dentro solo un panino che ammuffisce; sceglie di intervistare coloro che hanno ricevuto le nuove case con tanto di spumante nel frigo; sceglie di raccontare come un padre abbia perso due figli perché ha ascoltato la televisione che lo rassicurava su quanto stava accadendo, piuttosto che “ascoltare” l’istinto e uscire di casa.
Il film andrà a Cannes come evento speciale e avrà una risonanza internazionale. Bertolaso ha già detto che non sarà una bella immagine per l’Italia, Berlusconi ha detto che c’è troppa libertà di stampa. La Guzzanti, attraverso il proprio blog, ha risposto solamente citando una frase di Voltaire: «Non sono d’accordo con quello che dici, ma darei la vita perché tu lo possa dire».
La Guzzanti sempre sul sito ha scritto che facendo questo film ha “scoperto di amare questo paese”. In un’intervista all’Espresso ha spiegato il perché: “Perché come l’Aquila questo paese lo stiamo distruggendo. E come spesso accade, ti accorgi di quanto ami qualcuno e di quanto sia prezioso, solo quando lo stai perdendo”. Una motivazione che da sola vale la visione del film.
“Non voglio vivere in un mondo senza sentimenti”
Una lentezza squisita. Non saprei come altro definire il magnetico film di Tom Ford, A single man. Devo ammettere che l’ho preso a noleggio, con qualche dubbio, poco convinto di vedere un bel film, ma comunque curioso di scoprire cosa aleggiava dietro quest’opera realizzata da un già affermato stilista.
Ammetto però che fin dalla prima mezz’ora avevo capito di essere di fronte a un grande film: la storia di questo uomo rimasto senza il compagno nel 1962, che cerca di svegliare inutilmente la società con i propri insegnamenti, non è mai banale. A partire dalla fotografia, fredda, asettica, ghiacciata, quando il mondo è senza sentimenti. Con dei colori bellissimi quando lui stesso (un grande Colin Firth) trova l’amore e la passione intorno a lui, sotto ogni forma.
Come dice lui stesso mentre osserva maliziosamente due giocatori di tennis a petto nudo, di fronte alla paura di un attacco atomico, “Non voglio vivere in un mondo senza sentimenti”. La tesi di tutto il film, a partire da un’ipotesti opposta. Con un finale che, seppur prevedibile, diventa bellissimo nella sua purezza ed essenzialità.
A Single Man è di una tristezza infinita, come potrebbe dire qualcuno, ma solo in apparenza. È un film con una speranza perché qualsiasi strada prenda l’amore in questione, la serenità può essere raggiunta.
Metti che… la guerra e l’assuefazione
Metti che un piccolo film abbia una vita lunga
Metti che sia un’opera sulla guerra che non ha senso
Metti che The hurt locker confermi che per chi combatte la guerra sia una droga
Metti che sia stato prodotto nel 2008
Metti che solo nel 2010 si parli veramente di questo film dopo 6 premi Oscar
Metti che la guerra in Iraq sia vista attraverso gli occhi degli artificieri
Metti che siano guardati ogni giorno mentre disinnescano bombe
Matti che il “nemico” potrebbe essere ovunque
Metti che il “nemico” siano loro
Metti che agli stessi artificieri non interessi chi sia il nemico
Metti che loro non sappiano cosa siano i giochi di potere della guerra
Metti che a loro interessi solo sentirsi vivi, rischiare la vita, dare un senso a quel che fanno
Metti che l’adrenalina entri loro in circolo tanto da farli sentire vuoti senza di essa
Metti che nemmeno un figlio piccolo dia loro la forza di tornare a casa
Metti che solo la droga ti fa perdere questo senso delle proporzioni
Metti che la vera droga sia la guerra
Metti che il regista sia una donna Kathryn Bigelow
Metti che lei avrebbe voluto firmarsi K.Bigelow per evitare critiche, ma non l’ha fatto
Metti che il film sia un capolavoro, sulla guerra e del cinema
Metti che sia costato pochi soldi, a dispetto del seppur bel Avatar
Metti che il Cinema esista ancora
Metti che le idee ci siano
Metti che la realtà spesso sia lo stesso cinema
Metti che vi sia d’aver paura davvero!
Come arrivare a tifare per un rapinatore
Lo avrei voluto vedere al cinema. Li ho visti tutti i film di Michael Mann. Questa volta mi sono dovuto accontentare di un dvd a noleggio. Ma l’esperienza è stata comunque entusiasmante. Nemico pubblico è un nuovo grande film del regista dell’altrettanto grande The Heat – la sfida. Anche se più in sottotono, la sfida tra due uomini dall’opposta morale continua a essere al centro della cinematografia di Mann, ormai uno dei pochi veri autori americani, insieme a Terence Mallik (I giorni del cielo e La sottile linea rossa).
Con Nemico pubblico, il regista racconta la storia di John Dillinger (interpretato da un Johnny Depp che pare abbia fatto un patto col diavolo, da vent’anni non invecchia di niente), una sorta di Robin Hood degli anni ’30 che svuotava le banche per combattere il sistema, spesso distribuendo ai poveri i proventi delle rapine, senza comunque disdegnare la bella vita e i bei vestiti. Dall’altra parte un agente della nascente Fbi che gli dà la caccia, interpretato da un bravo Christian Bale, un’altra giovane promessa del cinema americano.
Come in The Heat (vero capolavoro di Mann, assolutamente da rivedere), il regista racconta rapine e sparatorie con un taglio decisamente personale, con leggere sospensioni temporali del racconto che fanno il suo cinema, entra nei personaggi e nelle loro contraddizioni fino all’angoscia. Lo stesso Dillinger diventa un eroe, tifiamo per lui, nonostante si possa immaginare la fine che farà. È un altro cinema quello di Mann, capace di mescolare classicismo a modernità.
Molti mi dicono che questo film al cinema li abbia annoiati. Certo, se ci si aspetta una visione ipercinetica di rapine e sparatorie, o una visione rivisitata del seppur bello Sherlok Holmes, si rimane delusi. Il cinema di Mann è una visione personale, in cui lo spettatore dovrebbe essere capace di perdersi, cercando le emozioni dei personaggi, nel cinema, quello vero, non televisivo o da videoclip.
Assolutamente da segnalare una colonna sonora da manuale. Ecco un assaggio:
District 9, un horror politico per razzisti
Un altro horror, un altro piccolo interessante esperimento, dai risultati non deludenti. Un film contro i razzisti di tutti i tipi, recenti, passati, o in crescita. District 9 è una bella operazione che ricorda molto i film anni ’50 come tipologia di effetti speciali e come messaggio politico (allora la paura principale erano i comunisti…). Il film, però ricorda anche i film splatter del genere degli anni ’90 o i videogiochi più crudi. Ma non è questo che colpisce durante la visione del film, bensì il fatto che sia ambientato proprio in Sudafrica, dove fino agli ’90 era in atto la segregazione razziale, la stessa attuata nel film nei confronti di questi alieni che vengono isolati, su cui si effettuano esperimenti e che vogliono solo tornare a casa loro. Lo stesso titolo, District 9, si riferisce a come veniva chiamato il ghetto dove venivano messi i neri per lasciare liberi i bianchi di circolare sul resto del territorio.
La paura del diverso è quello che fa proseguire tutto il film, prodotto dal sempre più in forma Peter Jackson, e che è persino stato candidato all’Oscar come miglior film. Non tanto per l’opera in sè, ma per il messaggio universale che viene lanciato: questa voglia dell’uomo di riunire la stessa specie/razza sotto uno stesso tetto, voglia di non integrarsi, di non condividere, paura di perdere le proprie radici e origini. Fino a diventare violento, cattivo, spregiudicato e inutilmente protettivo di un modo di essere che comunque va spesso verso l’autodistruzione.
Non c’è bisogno che arrivino gli alieni, brutti e sporchi e a forma di gambero, per capire che l’integrazione e la tolleranza non sono solo delle parole, ma dei valori fondamentali della sopravvivenza. Quanto accade nel film non è poi così lontano dalla realtà: la segregazione non è il futuro, c’è già stata. E può sempre tornare. Basta essere ciechi o ignoranti. o proseguire su una strada politica che prevede l’isolazionismo.
Metti che… Paranormal Activity
Metti che abbiamo paura di ogni cosa che non consociamo
Metti che tutti abbiamo un demone che ci perseguita
Metti che il tuo demone lo schiaffi in un film
Metti che terrorizzi milioni di persone
Metti che Paranormal activity sia un’opera non originalissima, con poca storia e tanta suggestione
Metti che la paura esista e che sia amplificata dall’effetto di massa di un cinema o dalla pubblicità
Metti che sei senza soldi e ti inventi di far paura come ai tempi dei primi horror
Metti che il punto di riferimento sia il bel Bacio della Pantera e non solo lo scontato The blair witch project
Metti che tu sia anche bravo creare l’atmosfera, a non far vedere mai la violenza
Metti che mostri solo una goccia di sangue, ma è come fosse un lago
Metti che risposte non ce ne siano e qualunque risposta sarebbe banale
Metti che non realizzi un capolavoro
Metti che con 10 mila euro fai un film e ne incassi oltre 100 milioni
Metti che le idee siano quelle che contano
Metti che il Cinema sia fatto di queste idee
Metti che il cinema italiano non lo sia
Metti che il fenomeno di Paranormal Activity abbia molto da insegnare
Metti che la paura esista e vada esorcizzata
Metti che gli horror siano la nostra porta catartica
Metti che sarebbe meglio non guardare questo film da soli…
Avatar 3D, il fascino di entrare in un nuovo mondo
Due volte al cinema in due settimane. Un record se si considera gli ultimi due anni di visione domestica. Due anni in cui il cinema è cambiato ed Avater 3D ne è la prova. Il film di James Cameron è nei cinema da quasi un mese, ha battuto ogni record di incasso, e le sale sono ancora stracolme con lunghe attese per le prenotazioni, come accadde solo per Titanic, sempre diretto dal genio furbo di Cameron. Ma non è questo che ha fatto cambiare il Cinema. Lo ha fatto il 3D, e non uno qualunque, bensì quello di Avatar.
Quando i fratelli Lumiere inventarono il Cinematografo, inteso come concetto di visione di gruppo a pagamento, mostrarono treni che andavano incontro agli spettatori, posti esotici mai visti che lasciavano ammaliato chi osservava. E soprattutto soddisfatto. Avatar fa la stessa cosa: porta lo spettatore in un nuovo mondo, sconosciuto, alieno, invitante, affascinante, costruito nei minimi dettagli. Il mondo di Pandora, dove si svolge la vicenda narrata nel film, diventa reale proprio grazie a quella finestra che rende tutte le immagini tridimensionali.
La storia non è certo originale o nuova. Ma non lo era neppure il Titanic (non poteva certo non affondare). I detrattori di Avatar dicono che non racconta niente di originale. Nessun film lo fa. Le storie che l’uomo ha bisogno di sentirsi raccontare sono sempre le stesse. Avatar narra del riscatto di una società attraverso la forza di un singolo che riscopre, anche attraverso una storia d’amore, il proprio contatto con tutto ciò che lo circonda e che trova letteralmente il proprio posto nel mondo. Quanti film raccontano ciò? Tanti, tra cui molti capolavori del cinema.
Avatar ha il grande pregio di utilizzare il 3D non in maniera esibizionista o come un gioco per dispiegfare mezzi tecnologici mai visti. Il 3D è semplice e dopo pochi minuti dall’inizio ci si dimentica pure degli occhialini (seppur fastidiosi, soprattutto per chi porta altri occhiali). Tutta l’emozione della storia viene amplificata da un senso di realtà accentuato da una profondità mai vista prima al cinema. Pandora diventa reale, i suoi paesaggi (che mi hanno molto ricordato i quadri di Magritte) esistono veramente, sono tangibili. I protagonisti sono in sala sala di fianco a te. Le piante si colorano e vivono nel cinema. Tutta la sala diventa Pandora. Si rimane senza fiato e senza parole di fronte all’apprendimento del protagonista Jake che scopre il mondo di Pandora insieme allo spettatore.
Sarà anche il film più costoso della storia del Cinema, sarà quello che incasserà di più. Ma da questo punto, da Avatar, non si torna più indietro. Esisterà sempre il cinema a due dimensioni, come esistono ancora i fumetti o i giornali di carta, ma la frontiera di ciò che è possibile è stata spostata, non impercettibilmente, ma in maniera netta e tangibile.
In due anni il cinema è cambiato. E non ci vuole questa “astinenza” per capirlo. Avatar è reale quanto lo è il mondo di Pandora.
L’anima gentile di quattro ore e mezza di battaglia
Quattro ore e mezza di film. Un fiume di immagini che scorreva sul televisore. Unico neo della visione di Red Cliff – La battaglia dei tre regni è stata visione domestica. Il nuovo film di John Woo avrebbe meritato una visione cinematografica, ma non spezzata in due come proposta in Dvd o riassunta al cinema in due ore e mezza, bensì in una serata sola, in un’unica proiezione.
Il regista racconta la battaglia che nel secondo secolo dopo cristo ha portato all’unificazione della Cina. Lo fa in un crescendo di intrighi e battaglie, con una abbondanza di rallenty e montaggi paralleli che sono sempre stati il cavallo di battaglia del suo cinema. Certo non siamo ai livelli estetici di capolavori come The killer o Face Off, qui John Woo è leggermente più contenuto a favore della Storia, ma La battaglia dei tre regni è un racconto quasi shakesperiano, ricco di tradimenti e passioni, intrighi e spie, ma anche con un grande rispetto dell’onore e della battaglia.
Immancabili le citazioni all’Arte della guerra, il testo che ha guidato tutti gli strateghi della storia e che ancora oggi viene applicato, sotto diverse forme, in più campi della vita.
Libertà, indipendenza, rispetto della proprio storia, rifiutando i dominatori-oppressori, sono i temi principali del film. Inutile, superfluo e stupido qualsiasi rimando al cinema italiano di Barbarossa che come tematica non ha niente a che vedere con il film cinese: nella pellicola italiana non c’è alcun sentimento, solo propaganda; nel film cinese, nonostante si legga comunque la propaganda, si percepiscono i sentimenti, anche ai non addetti ai lavori. Questo perchè si raccontano storie e sentimenti universali, come l’amore e l’odio, al di là della rivalsa sociale: si raccontano vite.
A tutto ciò si aggiunge una regia grandiosa che John Woo aveva alquanto estremizzato negli ultimi due Mission Impossible. Qui torna a dominare la sua regia al meglio, rendendola funzionale a un racconto che, seppur nella sua crudezza, ha una grande anima gentile.