Un altro horror, un altro piccolo interessante esperimento, dai risultati non deludenti. Un film contro i razzisti di tutti i tipi, recenti, passati, o in crescita. District 9 è una bella operazione che ricorda molto i film anni ’50 come tipologia di effetti speciali e come messaggio politico (allora la paura principale erano i comunisti…). Il film, però ricorda anche i film splatter del genere degli anni ’90 o i videogiochi più crudi. Ma non è questo che colpisce durante la visione del film, bensì il fatto che sia ambientato proprio in Sudafrica, dove fino agli ’90 era in atto la segregazione razziale, la stessa attuata nel film nei confronti di questi alieni che vengono isolati, su cui si effettuano esperimenti e che vogliono solo tornare a casa loro. Lo stesso titolo, District 9, si riferisce a come veniva chiamato il ghetto dove venivano messi i neri per lasciare liberi i bianchi di circolare sul resto del territorio.
La paura del diverso è quello che fa proseguire tutto il film, prodotto dal sempre più in forma Peter Jackson, e che è persino stato candidato all’Oscar come miglior film. Non tanto per l’opera in sè, ma per il messaggio universale che viene lanciato: questa voglia dell’uomo di riunire la stessa specie/razza sotto uno stesso tetto, voglia di non integrarsi, di non condividere, paura di perdere le proprie radici e origini. Fino a diventare violento, cattivo, spregiudicato e inutilmente protettivo di un modo di essere che comunque va spesso verso l’autodistruzione.
Non c’è bisogno che arrivino gli alieni, brutti e sporchi e a forma di gambero, per capire che l’integrazione e la tolleranza non sono solo delle parole, ma dei valori fondamentali della sopravvivenza. Quanto accade nel film non è poi così lontano dalla realtà: la segregazione non è il futuro, c’è già stata. E può sempre tornare. Basta essere ciechi o ignoranti. o proseguire su una strada politica che prevede l’isolazionismo.