Mario Monicelli se n’è andato buttandosi dalla finestra dell’ospedale. Aveva 95 anni e un tumore alla prostata in fase terminale. Ha scelto di andarsene all’improvviso, per sua scelta, come per sua scelta ha criticato, attraverso la commedia, tutta la storia dell’Italia. Se ne è andato nello stesso anno in cui è scomparso anche uno dei suoi sceneggiatori preferiti, Furio Scarpelli. Insieme avevano realizzato La Grande Guerra, con il quale diedero vita alla commedia all’italiana. Genere che è rimasto impossibile da imitare, nel mondo, ma anche in Italia. Da anni si dice “tipica commedia all’italiana” per ogni film che fa sorridere. Ma non esiste nulla di più falso. L’unico erede, forse, è stato Paolo Virzì, con il suo Ovosodo, capace di leggere l’italia con ironia e personaggi tra lo strafottente e lo stralunato.
La commedia all’italiana non esiste più. Se ne è andata con Monicelli. Vivono i suoi film e la “sana cattiveria” che riescono ancora a trasmettere, come la supercazzola di Amici Miei, o la goffaggine distruttiva dell’Armata brancaleone, per non dimenticare gli scapestrati ladri de I soliti ignoti.
Monicelli ha partacipato ultimamamente a diversi documentari negli ultimi anni, molto nostalgici, ma in cui non ha mancato di pungere con affermazioni molto dure nei confronti della cultura e del cinema, oggi bistrattati (adesso per esempio abbiamo il caso Bonev, e forse ce lo meritiamo).
L’ultima opera del maestro Monicelli, Le rose del deserto, non è certo un film ai livelli dei precedenti. Ma esiste tutta la tematica che ha sempre attraversato il regista. L’ho trovato malinconico, diviso tra speranza e rasseganzione, con un grande Alessandro Haber, come una prosecuzione de La grande guerra. Un testamento cinematografico che credo importante, un atto d’amore per il cinema da parte di un regista che ha dato tanto.
Con i suoi film ha aiutato l’Italia a diventare grande, a rendersi conto dei propri difetti, a riderci sopra quanto basta per cercare di raddrizzare il tiro.
Oggi quei difetti ci sono ancora. Li abbiamo amplificati per non vederli, per far finta che “tanto tutti sono così“. Ma non era lo scopo di Monicelli. E questo è molto triste.
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Novant’anni di Grande Guerra. Addio Furio Scarpelli
Una padella alzata dalla trincea, le pallottole che sparano alla pentola ed ecco fatto, un grande Alberto Sordi pronto a cucinare le castagne (La Grande Guerra). Questo era Furio Scarpelli, uno dei grandi sceneggiatori che hanno fatto conoscere il cinema italiano nel mondo nel Dopoguerra e durante il boom economico. Un cinema quello di allora fatto spesso con due lire, ma con grandi idee, capace di raccontare un mondo con l’ironica cattiveria che distingueva il periodo.
Scarpelli è scomparso nella notte tra martedì e mercoledì all’età di 90 anni. Lucido fino alla fine, schivo e sempre pungente nei suoi interventi, amava definirsi un narratore, non uno sceneggiatore. Lo dimostrano i lavori che ha firmato per 45 anni insieme all’amico Age, scomparso nel 2005. Insieme Age & Scarpelli sono stati tra i padri fondatori di quella commedia all’italiana che ancora oggi stenta a ridecollare.
Molti i capolavori, non si può citarli tutti, ma i più importanti sì: oltre al già nominato La grande guerra, ci sono anche L’Armata Brancaleone, I mostri, I soliti ignoti, Sedotta e abbandonata. Furono loro gli sceneggiatori che insieme diedero identità ai loro personaggi facendoli parlare anche in dialetto: ne La grande guerra persino Vittorio Gassman fu costretto a parlare lombardo.
Scarpelli ha saputo anche rinnovarsi, firmando anche una delle più grandi opere western di Sergio Leone, Il buono il brutto e il cattivo. Con gli anni dimostro di saper leggere il mondo contemporaneo in maniera impeccabile: i tradimenti di Romanzo Popolare, le famiglie di C’eravamo tanto amati e La famiglia (di Ettore Scola).
Scarpelli era la sceneggiatura. Non quella che oggi viene scambiata per un testo da mettere in scena. Era l’arte di saper raccontare per immagini, di convincere i registi a vedere quello che lui aveva visto, intuito, trascritto e interpretato.
Come scrive Paolo d’Agostini su Repubblica, il miglior modo per far vivere Furio Scarpelli e diffondere il più possibile i suoi film, tutti.