Basilicata da costa a costa: l’estate continua…

papaleogassmanmezzogiornobrigugliagazzeDivertente, trascinante, ironico, intelligente e soprattutto non banale. Basilicata coast to coast l’ho visto poco dopo essere stato in ferie, in Toscana, ma poco conta. È un film dove si respira l’estate e per una sera è stato come non avere pensieri, spegnere il cervello (ancora) in maniera intelligente. 
È un un’opera prima di un “vecchio” attore, Rocco Papaleo, diventato famoso per molte parti secondarie in film come quelli di Pieraccioni, oppure, meglio ancora, nella mitica serie tv dell’89, Classe di Ferro. Mi piace da allora.
Papaleo ha curato la regia e le musiche di questo singolare film, senza nascondere comunque il fascino del genere road movie. Per road, si intende davvero road, visto che i protagonisti, quattro amici che hanno messo su il complesso delle “Pale eoliche”, decidono di affrontare i nodi della propria vita attraversando la regione da del titolo da costa a costa, a piedi. 
Il tutto per partecipare a un concorso con esibizione sul palcoscenico, la prima volta dopo anni di prove in garage. Con loro una brava e antipatica Giovanna Mezzogiorno, giornalista che non crede più in nulla (le aveva interpretato anni fa un ruolo tanto opposto da essere quasi una continuazione, quello di Ilaria Alpi).
Il film è ricco di storie, ma il nodo comune a tutti è quella musica tanto strana da far parlare solo il cuore, le parole che si intrecciano e che perdono significato in testi solo apparentemente stupidi. Nel gruppo anche Max Gazzè, muto, che parla solo col basso.
Dire che il film è bello è affrettato. Dire che i paesaggi sono scontati è banale. Dire che la storia funziona è semplicistico. Dire che l’insieme ha un’atmosfera genuina che pochi altri film italiani riescono a far trasparire (ormai troppo costruiti nelle griglie di una commedia troppo scontata e vecchia), è quello che si avvicina di più alla verità. 
Proprio quello che non si vede è la potenza del film: la passione e il cuore che il gruppo, che i protagonisti, che il regista, mettono insieme per poter portare a termine un’impresa.

I parenti sono come i tacchi, scomodi ma utili

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Ebbene sì, sono tornato al cinema, anche se con uno schermo che era grande come uno di quei nuovi super televisori. Ma fa niente. Il buio della sala è comunque inimitabile, non riproducibile

in un salotto o in una cantina. Ho visto un Ken Loach dei vecchi tempi. Almeno per tre quarti del film. È quello a cui mi ha fatto pensare La nostra vita di Daniele Lucchetti, storia di un muratore (Elio Germano) costretto dalla vita a trasformarsi, a passare da vittima a carnefice della società. Una grande interpretazione dell’attore che ha vinto anche la Palma d’Oro a Cannes e una regia di Lucchetti che era ai livelli di Loach, il regista operaio inglese, autore dello storico Riff Raff e di molti altri film di denuncia della condizione lavorativa di operai, poveri e immigrati.

La prima mezz’ora è davvero angosciante (la scena del funerale è da manuale, senza retorica). Forse perché l’ho visto lontano da casa. Forse perché la moglie del protagonista aspetta un bambino e non ce la fa. Ma la visione è sicuramente non da soap opera. Tutto è un crescendo credibile di tragedia e sofferenza: lui deve affrontare come può la perdita della moglie, rimane da solo con tre figli e l’unico che lo aiuta è lo spacciatore vicino di casa (un Luca Zingaretti irriconoscibile). C’è sempre anche la famiglia, i fratelli, che non lo abbandonano (“i parenti sono come i tacchi, sono scomodi ma aiutano”). Totale assenza delle istituzioni e dello Stato, a cui il protagonista non pensa nemmeno lontanamente di rivolgersi, né per il lavoro, né per un aiuto coi bambini.

Peccato per il finale. Consolatorio. Non lo nego, mi ha fatto andare a casa tranquillo. E forse ne avevo bisogno. Ma non è da Ken Loach e soprattutto è poco reale. Un lieto fine che dà speranza, è vero, ma che crea un distacco dalla storia, come se fosse una favola. Come insegna proprio il regista inglese, non deve per forza finire in tragedia, ma nemmeno dare una risposta a tutti i costi. Il film poteva chiudersi anche qualche scena prima e lasciare allo spettatore la possibilità di scegliere il finale nella propria testa.

La nostra vita rimane comunque un bel film. E conferma che il cinema italiano, come ha dimostrato anche Virzì con La prima cosa bella, è vivo e pensa. Merito anche degli sceneggiatori: gli storici Rulli e Petraglia che in passato hanno firmato tanti capolavori, come La meglio gioventù.

I due lati opposti del cinema italiano

la-prima-cosa-bella-poster-italia_midIl giorno e la notte. Non saprei come altro definire le visioni “tardive” (in dvd) di questi giorni. Proprio mentre a Cannes viene premiato il cinema italiano con La nostra vita di Daniele Lucchetti, mi sono dedicato a recuperare due film che credevo entrambi importanti. La prima cosa bella di Paolo Virzì e Baciami ancora di Gabriele Muccino.
Su Virzì premetto che non sostengo lo stereotipo che lo vedrebbe l’erede della commedia all’italiana, l’erede di Dino Risi (omaggiato dal regista nel film). Sarebbe una gabbia in cui chiuderlo. Virzì ha un suo stile e lo dimostra. La prima cosa bella è un grande film, capace di far ridere e piangere, con una grande Mastrandrea (che parla con accento livornese!). La storia è un bell’affresco dell’Italia, non solo degli anni ’70, ma di quel presente che non lascia scampo, pieno di labirinti e passioni senza uscita. È poetico e delicato, ironico e graffiante. Virzi, fin da Ovosodo si è dimostrato l’unico in grado di fare della comicità non volgare, ma nello stesso tempo capace di far pensare, riflettere, su una società in evoluzione e in continua esigenza di una direzione. Lasciando una speranza vera alla fine della visione, non artefatta e fiabesca di una muccinata.
Purtroppo poi, esaltato dalla visione di Virzi, ho inserito il dvd di Baciami ancora sperando che il videoclip di Jovanotti fosse solo un assaggio dell’opera di Muccino. Niente. Ma nel senso vero del termine. Il film è una girandola di tradimenti, misogino fin nel midollo della pellicola, dove il regista-autore, sembra voler trovare una giustificazione per forza scontata al malessere delle coppie che crescono. Muccino, sempre lui perchè il film inevitabilmente è suo, dà un finale a L’ultimo bacio rendendo stupido anche il film di 10 anni fa che si salvava proprio per quel non finale che ognuno leggeva come voleva. L’ultimo bacio, purtroppo diede il via a quella serie di film generazionali di cui oggi non sentiamo più il bisogno (fino ad arrivare a quelli “mocciosi”), ma almeno aveva il pregio di essere registicamente fresco e soprattutto di essere il primo. Baciami ancora è vecchio. È una grande e lunga soap opera, come ha definito chi mi stava vicino. Ma una soap che con le nuove serie tv americane non ha niente a che vedere. Di questo film si salvano solo la Belvedere e Favino. Grandi e bravi. Ma non basta.
Due film, il giorno e la notte. E speriamo che il giorno prosegua a lungo perchè il cinema italiano, nonostante la classe dirigente non ci creda (come ha detto Elio Germano a Cannes), sta vivendo un bel momento di produzione intellettuale. Muccinate e cinepanettoni a parte.

Draquila, sangue a rabbia a un anno dal terremoto

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“Ci avevo creduto anche io che il governo stesse reagendo”. “Tenevo a bada il mio antiberlusconismo”. “In Abruzzo si capisce come si può costituire una dittatura”. Sono solo alcune frasi che in questi giorni Sabina Guzzanti ha utilizzato per spiegare il suo ultimo film, Draquila – L’Italia che trema, un documentario in pieno stile Michael Moore (sembra tra l’altro siano grandi amici).

Stando alle prime sequenze visibili sul suo sito (il film esce il 7 maggio), l’autrice mette da parte l’ironia e il sarcasmo che l’hanno sempre contraddistinta (ma non tutto) per raccontare in 93 minuti quello che è successo in un anno, dopo il terremoto che ha colpito l’Abruzzo nel 2009. I sentimenti che scatenano i primi spezzoni sono rabbia, confusione e delusione.

La Guzzanti ha realizzato 700 ore di interviste, montate come i documentari di Moore: veloci, dinamici, con tante vignette e grafici. Domande insistenti, semplici e irritanti per gli intervistati proprio per la loro schiettezza. La Guzzanti dice non aver realizzato un film contro Berlusconi, ma contro un modo di fare che sta uccidendo l’Italia: sceglie di mettere di far sentire le risate dei costruttori poche ore dopo il terremoto, costruttori che pensano già agli affari che faranno; sceglie di far vedere anche l’assenza dell’opposizione in Italia, presente in Abruzzo con una tenda vuota in ogni stagione, con dentro solo un panino che ammuffisce; sceglie di intervistare coloro che hanno ricevuto le nuove case con tanto di spumante nel frigo; sceglie di raccontare come un padre abbia perso due figli perché ha ascoltato la televisione che lo rassicurava su quanto stava accadendo, piuttosto che “ascoltare” l’istinto e uscire di casa.

Il film andrà a Cannes come evento speciale e avrà una risonanza internazionale. Bertolaso ha già detto che non sarà una bella immagine per l’Italia, Berlusconi ha detto che c’è troppa libertà di stampa. La Guzzanti, attraverso il proprio blog, ha risposto solamente citando una frase di Voltaire: «Non sono d’accordo con quello che dici, ma darei la vita perché tu lo possa dire».

La Guzzanti sempre sul sito ha scritto che facendo questo film ha “scoperto di amare questo paese”. In un’intervista all’Espresso ha spiegato il perché: “Perché come l’Aquila questo paese lo stiamo distruggendo. E come spesso accade, ti accorgi di quanto ami qualcuno e di quanto sia prezioso, solo quando lo stai perdendo”. Una motivazione che da sola vale la visione del film.

Torna l’incubo del Mostro di Firenze

mostroIl Mostro di Firenze terrorizzò l’Italia. Gli investigatori hanno brancolato nel buio per quasi due decenni, dal ’68 all’84. Sono stati commessi 8 duplici omicidi. Impensabile proporre senza edulcorazioni una fiction di questo tipo in Italia. La Rai e Mediaset ne avrebbero fatto una storia d’amore, con tanto di lieto fine.

Purtroppo (ma solo perché sono da soli) Fox Channel Italy si conferma essere l’unica vera rete italiana che investe in prodotti cinematografici di qualità, coraggiosi e senza troppe autocensure, vero problema della tv generalista italiana, una tv che non si censura di fronte a talk show che rasentano il feticismo, ma che nella finzione (fiction) vuole raccontare solo storie d’amore buoniste in cui i cattivi sono sempre delle macchiette.

Il Mostro di Firenze (fiction) fa paura come lo fece nella realtà. Chi ricorda quel periodo, rivedendo la serie tv in sei puntate le cui prime due sono state trasmesse giovedì 12 novembre da Fox, non può non ricordare le emozioni, i timori, l’angoscia di quel periodo in cui si aveva persino paura uscire di casa.

Il regista Aurelio Grimaldi di orrore se ne intende. Non avevo molta fiducia in un suo successo dell’operazione, ma è riuscito a trasportare quell’angoscia di “Caos calmo” anche in questa storia. Un  prodotto tv che finalmente diventa cinema. Certo non perfetto, anche a causa degli attori non sempre all’altezza, come Nicole Grimaudo “monoblocco” che sembra appena uscita da una puntata di Ris – Delitti Imperfetti in cui tutti gli attori recitano con lo stesso tono e la stessa faccia.

Il mostro di Firenze rimane comunque un buon prodotto, una serie tv che, almeno alle prime puntate, promette molto bene. Anche per il futuro della serie tv italiana. Fox aveva già dato dimostrazione di saperci fare con Romanzo Criminale, la serie. Ora il Mostro. Le tv generaliste o cambiano stile (recitazione, regia, ripresa, fotografia) oppure è meglio si mettano a produrre telenovelas, per utilizzare volutamente un termine anni ’80: soap opera o serial sarebbe già un complimento.

Metti che… La sconosciuta

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Metti che il cinema italiano sforni ogni tanto (ma proprio ogni tanto) un capolavoro.

Metti che quel capolavoro sia scritto e diretto da un premio Oscar.

Metti che Giuseppe Tornatore abbia ancora una freschezza nell’immagine e nel racconto, non omologata alla narrazione televisiva.

Metti che La sconosciuta sia solo un film di genere.

Metti che i film di genere (e soprattutto se noir) sappiano raccontare l’attualità meglio delle inchieste.

Metti che la poetica e la retorica (seppur bella) del Pianista sull’oceano e del Cinema Paradiso abbiano lasciato il posto alla cruda realtà.

Metti che con pochi soldi, tante idee e molto stile, si possa fare un ottimo film.

Metti che l’immigrazione sia anche integrazione e non solo sfruttamento.

Metti che i mostri esistano ma non siamo mai noi.

Metti che tutto questo sia reale.

Metti che faccia male vedere il film di Tornatore.

Metti che i capolavori esistono, mascherati da piccoli film.

Italia sì: Fortapàsc

Fortapàsc di Marco Risi

Fortapàsc di Marco Risi

«In questo paese non ci sono giornalisti-giornalisti. C’è spazio solo per giornalisti-impiegati».
La forza di un film come Fortapàsc è l’attualità. Un’attualità tanto agghiacciante da far dimenticare che l’ultimo film di Marco Risi sia una ricostruzione storica, l’assassinio del giornalista de “Il Mattino” Giancarlo Siani, avvenuto nel 1985.
Negli Stati Uniti questo genere di film lo chiamano Biopic. Da noi non hanno una definizione, le storie dei grandi personaggi storici vengono raccontate senza emozioni, e con sole finalità politiche, dalla tv. Sono le fiction, sono il brutto cinema, senza alcuna anima.
Tutto questo non è Fortapàsc.
Qualcuno ha accusato il film di essere troppo fiction. Magari la fiction televisiva (Montalbano a parte) fosse così spietata, netta, reale, originale: nei dialoghi e nelle riprese, ma soprattutto nella potenza del messaggio, non finalizzato alla sola informazione pubblicitaria.
Marco Risi, anche se non ai livelli di
Mery per sempre o de Il muro di gomma, racconta un’Italia ancora attuale, per nulla mutata, con il rischio che si corre oggi di un’informazione assoggettata al potere: appalti, politica, incarichi come favori, carriere come scambi commerciali, che Siani, solo 26enne, ha cercato di smascherare.

Prima o dopo tangentopoli, poco è cambiato.
Fortapàsc è l’Italia di oggi.