Ebbene sì, sono tornato al cinema, anche se con uno schermo che era grande come uno di quei nuovi super televisori. Ma fa niente. Il buio della sala è comunque inimitabile, non riproducibile
in un salotto o in una cantina. Ho visto un Ken Loach dei vecchi tempi. Almeno per tre quarti del film. È quello a cui mi ha fatto pensare La nostra vita di Daniele Lucchetti, storia di un muratore (Elio Germano) costretto dalla vita a trasformarsi, a passare da vittima a carnefice della società. Una grande interpretazione dell’attore che ha vinto anche la Palma d’Oro a Cannes e una regia di Lucchetti che era ai livelli di Loach, il regista operaio inglese, autore dello storico Riff Raff e di molti altri film di denuncia della condizione lavorativa di operai, poveri e immigrati.
La prima mezz’ora è davvero angosciante (la scena del funerale è da manuale, senza retorica). Forse perché l’ho visto lontano da casa. Forse perché la moglie del protagonista aspetta un bambino e non ce la fa. Ma la visione è sicuramente non da soap opera. Tutto è un crescendo credibile di tragedia e sofferenza: lui deve affrontare come può la perdita della moglie, rimane da solo con tre figli e l’unico che lo aiuta è lo spacciatore vicino di casa (un Luca Zingaretti irriconoscibile). C’è sempre anche la famiglia, i fratelli, che non lo abbandonano (“i parenti sono come i tacchi, sono scomodi ma aiutano”). Totale assenza delle istituzioni e dello Stato, a cui il protagonista non pensa nemmeno lontanamente di rivolgersi, né per il lavoro, né per un aiuto coi bambini.
Peccato per il finale. Consolatorio. Non lo nego, mi ha fatto andare a casa tranquillo. E forse ne avevo bisogno. Ma non è da Ken Loach e soprattutto è poco reale. Un lieto fine che dà speranza, è vero, ma che crea un distacco dalla storia, come se fosse una favola. Come insegna proprio il regista inglese, non deve per forza finire in tragedia, ma nemmeno dare una risposta a tutti i costi. Il film poteva chiudersi anche qualche scena prima e lasciare allo spettatore la possibilità di scegliere il finale nella propria testa.
La nostra vita rimane comunque un bel film. E conferma che il cinema italiano, come ha dimostrato anche Virzì con La prima cosa bella, è vivo e pensa. Merito anche degli sceneggiatori: gli storici Rulli e Petraglia che in passato hanno firmato tanti capolavori, come La meglio gioventù.