Ennio Morricone è un mito, anche se il libro di Antonio Monda non gli rende giustizia. “Lontano dai sogni” è stato un gran bel regalo di Natale, inaspettato e che mi ha fatto passare qualche giorno nel grande Cinema.
Un libro intervista al “compositore”, come lui stesso dice di voler essere ricordato, che spazia dai ricordi delle collaborazioni con Sergio Leone, fino al consolidato rapporto di oggi con Peppuccio Tornatore. In totale Morricone ha composto più di 450 musiche da film, oltre a opere assolute, musiche che vivono anche da sole e che stanno riscuotendo un discreto successo). A 83 anni si capisce dall’intervista che è ancora lucido, che ha voglia di vivere e che ha una propria etica del lavoro, rispetto per la musica da cinema, e soprattutto la capacità di adeguarsi agli artisti che aiuta a diventare grandi. Il tutto senza perdere il proprio individualismo, il proprio tocco.
Cosa non va allora nel libro? Semplicemente le domande. I libri intervista sono normalmente bellissimi per definizione. Ma in questo “Lontano dai sogni”, si capisce che l’intervistatore ha un timore quasi reverenziale che gli impedisce di rendere maggiormente omogeneo tutto l’intervento. Non basta mettere in ordine cronologico gli incontri. Serve contestualizzarli. Invece, le domande si susseguono e gli argomenti saltano o si ripentono con poca continuità.
Il libro è comunque bello, non è ai livelli di “Conversazioni con Billy Wilder” (domande di Cameron Crowe) o il bellissimo Hicthcock secondo Hicthcock (domande di Truffaut), oppure il più recente Woody Allen, Conversazioni su me e tutto il resto. Tutte opere che danno carattere e debolezze dell’autore, libri lunghi, fatti con registi di fama. Non era certo semplice rendere protagonista un compositore. Ma l’impresa di promuoere anche un artigiano del cinema, che lavora in sezioni collaterali della settima arte, era riuscita a un inglese qualche anno fa: uno scrittore, Michael Ondaatje, che intervista uno storico direttore della fotografia, Walter Munch ne Il cinema e l’arte del montaggio. Questo si che è un capolavoro d’intervista.
È morto Blake Edwards, padre di Hollywood Party
L’inizio di Hollywood Party. Una delle più belle scene di film commedia della stroia del cinema. Regia di Balke Edward che con Peter Selers ha firmato una serie di film indimenticabili. Personalmente quella scena, tutto l’inizio del film, sono l’apoteosi della commedia. Così vorrei ricordare Edwards, scomparso la notte del 16 dicembre, all’età di 88 anni. Ma il regista ha anche firmato altri capolavori come diversi film della Pantersa Rosa, sempre con Selers, oppure l’indimenticabile Victor Vittoria, o ancora Colazione da Tiffany con una spelndida Audry Hepburn. Un film diverso dal libro di Truman Capote, ma decisamnete grandioso.
Edwards aveva rinnovato la commedia, dando il via anche a quell’autoreferenzialità del cinema poi tipica degli anni ’80, anche se non con gli stessi risultati. Suoi quindi molti capolavori della commedia che aveva realizzatro, ma non aveva mai vinto un Oscar, tanto che nel 2004 l’Accademy cercò di rimediare con un meritato riconoscimento alla carriera. I suoi film rimarranno comunque indimenticabili.
Rapunzel, una piacevole sorpresa
Non andavo al cinema da un bel po’, come al solito uscite rarefatte, ma necessarie. Con la scusa di portare mia figlia di quattro annì, ho visto il mio film natalizio della Disney (in passato immancabile appuntamento del 26 dicembre). E l’ho visto addirittura in 3D! Si tratta di Rapunzel l’intreccio della torre, un film per grandi e piccoli, una vera sorpresa. È l’esempio perfetto dell’incontro del classicismo della Disney con la modernità (non solo tecnica) della Pixar.
La storia di Raperonzolo e dei suoi lunghi capelli magici, imprigionata nella torre da una madrina egoista, diventa un’avventura alla scoperta della libertà e di se stessi, contro la paura di quello che non si conosce.
Avvincente, divertente, spassoso, mai compiaciuto nel racconto, conferma la rinascita dell’animazione.
Il 3D, inoltre, non è per niente invasivo, è sempre utilizzato in maniera intelligente e adatto alla narrazione. Spettacolare in questo caso la scena delle lanterne, ma non solo. Lo è anche la semplice farfalla che sveglia Flynn, il protagonista maschile (tra l’altro disegnato basandosi su Harrison Ford e Errol Flynn) e tanti altri particolari.
Sempre spassosi i personaggi di contorno, le cosiddette spalle. Dai tempi delle teiere de La bella e la bestia, hanno assunto un protagonismo sempre maggiore e spesso salvano il film. Come fecero la scimmietta e il pappagallo in Aladin, a cui Rapunzel si rifà molto, in questo nuovo film rubano spesso la scena il camaleonte Pascal e il cavallo Maximus.
Rapunzel, anche se è uscito presto nelle sale italiane, avrà un percorso lungo, soprattutto nel periodo di Natale e grazie al passaprola di grandi e piccoli, maschi e femmine, non ci sono distinzioni. E aspettatevi qualche lacrimuccia…
La politica è solo un patto tra postulanti
“La politica è solo un patto tra postulanti“. Che schifo. Leggendo i giornali di questi giorni, con le dichiearazioni di guerra tra Fini e Berlusconi, che dicono tutto e il contrario di tutto, non può non venirmi in mente il bel serial tv I pilastri della terra, tratto dal gigantesto libro omonimo di Ken Follet. Lì c’erano intrghi, tradimenti, diplomazia e addirittura omicidi in nome della politica.
Quella frase assume nel corso del serial, ambientato nel Medioevo in Inghilterra, un significato sempre più dispregiativo. Tanto lo assume oggi, dove i giornali e i media vengono usati dai diversi leader politici per parlarsi e minacciarsi, per acquisire potere e contrattare poltrone e incarichi. Come se la corruzione fosse solo uno scambio di soldi, non le promesse di un futuro lungimirante, in politica o in altro. Come se la politica fosse definita come merce di scambio, non come fine ultimo per il miglioramento del modo di vivere.
La politica è invece vista come mero patto, accordo, contratto, tra due parti che fanno solo i propri interessi, o gli interessi di un potere in mano a pochi.
La politica è solo un patto tra postulanti. Che schifo.
Monicelli, la commedia all’italiana non c’è più
Mario Monicelli se n’è andato buttandosi dalla finestra dell’ospedale. Aveva 95 anni e un tumore alla prostata in fase terminale. Ha scelto di andarsene all’improvviso, per sua scelta, come per sua scelta ha criticato, attraverso la commedia, tutta la storia dell’Italia. Se ne è andato nello stesso anno in cui è scomparso anche uno dei suoi sceneggiatori preferiti, Furio Scarpelli. Insieme avevano realizzato La Grande Guerra, con il quale diedero vita alla commedia all’italiana. Genere che è rimasto impossibile da imitare, nel mondo, ma anche in Italia. Da anni si dice “tipica commedia all’italiana” per ogni film che fa sorridere. Ma non esiste nulla di più falso. L’unico erede, forse, è stato Paolo Virzì, con il suo Ovosodo, capace di leggere l’italia con ironia e personaggi tra lo strafottente e lo stralunato.
La commedia all’italiana non esiste più. Se ne è andata con Monicelli. Vivono i suoi film e la “sana cattiveria” che riescono ancora a trasmettere, come la supercazzola di Amici Miei, o la goffaggine distruttiva dell’Armata brancaleone, per non dimenticare gli scapestrati ladri de I soliti ignoti.
Monicelli ha partacipato ultimamamente a diversi documentari negli ultimi anni, molto nostalgici, ma in cui non ha mancato di pungere con affermazioni molto dure nei confronti della cultura e del cinema, oggi bistrattati (adesso per esempio abbiamo il caso Bonev, e forse ce lo meritiamo).
L’ultima opera del maestro Monicelli, Le rose del deserto, non è certo un film ai livelli dei precedenti. Ma esiste tutta la tematica che ha sempre attraversato il regista. L’ho trovato malinconico, diviso tra speranza e rasseganzione, con un grande Alessandro Haber, come una prosecuzione de La grande guerra. Un testamento cinematografico che credo importante, un atto d’amore per il cinema da parte di un regista che ha dato tanto.
Con i suoi film ha aiutato l’Italia a diventare grande, a rendersi conto dei propri difetti, a riderci sopra quanto basta per cercare di raddrizzare il tiro.
Oggi quei difetti ci sono ancora. Li abbiamo amplificati per non vederli, per far finta che “tanto tutti sono così“. Ma non era lo scopo di Monicelli. E questo è molto triste.
Leslie Nielsen si porta via il vero cinema demenziale
Nessuno può dire di non aver mai visto almeno una scena de L’aereo più pazzo del mondo o di Una pallottala spuntata. Leslie Nielsen, tra i protagonisti del primo e anima della seconda trilogia, è scomparso domenica 28 novembre, all’età di 84 anni, in seguito alle complicazioni di una polmonite.
Personalmente non credo fosse un grande attore, ma sicuramente ha avuto il grande merito di aver trovato la linea attraverso il cinema demenziale, più che comico. Ne L’aereo pià pazzo del mondo interpretava il dottor Rumack, stranito medico dalle cure improbabili, soprattutto con il panico da disastro aereo.
Più memorabile la serie Una pallottola spuntata, ricca di scene esilaranti che anche singolarmente avevano una propria dignità: dalla famosissima scena del “sesso sicuro”, all’incontro con la regina Elisabetta (poi citata anche da Mr.Bean e molti altri).
Facebook, ci sarà sempre un “ma” nella vita
Come i combattimenti di Fight Club, come l’horror di Seven, come la fantascienza di Alien3, The Social Network mette insieme tutti gli elementi di David Fincher in un serratissimo film su una vera e propria tragedia di vecchio stampo, in stile shakespiriano: amori, tradimenti, vendette. Senza morti, almeno non fisicamente. Tutto in chiave moderna, in una lettura che per molti è anche scontata e normale vita quotidiana. Tutto si riassume in una frase che le donne dicono a Mark in più momenti: “Non sei stronzo, è che fai di tutto per esserlo“. Come se il mondo intero non volesse essere così come si mostra (perchè Facebook è questo, mettersi in mostra), ma solo un modo per far sentire la propria presenza, per vivere delle nuove relazioni, anche più semplici, più dirette, davanti a uno schermo.
Mark, infatti, riesce a essere se stesso solo davanti al suo blog, quando viene mollato da Erika. Per tutto il resto del film (e della sua vita?) è imperscrutabile. Il resto è un’ottima narrazione, ricca di suspance, con dialoghi perfetti dal punto di vista cinematografico.
The social network è la dimostrazione che è possibile raccontare la vita delle persone senza essere stucchevoli o falsi (ogni riferimento alle fiction italiane è una caso…), senza essere per forza lineari, senza dover sempre iniziare da quando il protagonista è vecchio e morente, senza dove fare stupidi flashbak in dissolvenza, senza trovare sempre lacrime facili di pentimento del protatonista. Non c’è nessun pentimento in Mark: “Se voi foste gli inventori di Facebook, avreste inventato Facebook”, recita a coloro che lo accusano di aver rubato l’idea del sito.
Ma un desiderio di affermazione può non essere una rivalsa sociale, nonostante il successo ottenuto. Puoi avere tutti i soldi del mondo, tutti i mezzi tecnologici del mondo. Ma ne è valsa la pena? Sì, con una postilla: un “ma” ci sarà sempre nella vità. Per tutti.
Il paradosso di Facebook
The social network, un successo a metà. Il film di David Fincher che ricostruisce la nascita di Facebook, tra amori e tradimenti, non ha sbancato il botteghino italiano. In questi primi giorni di programmazione si è fermato al terzo posto della classifica, facendosi battere dalla commedia Maschi contro femmine, ormai da tre settimane nella sale italiane. Il film americano ha incassato 814.932 euro contro 1.365.173 della pellicola di Fausto Brizzi. Quest’ultimo film arriva quindi gli 11,2 milioni di euro e si appresta a raggiungere l’altro film italiano record di incassi, Benvenuti al sud, già arrivato a superare i 27 milioni.
La sfida horror di Roberto Saviano
C’è una regola nel cinema: quello che non mostri sullo schermo è quello che fa più paura. Ed è così anche nella vita. Abbiamo tutti paura del buio perchè non sappiamo cosa vi si nasconda. Quello che ha fatto lunedì sera Roberto Saviano nel monologo a Vieni via con me è ancora più encomiabile proprio per questo. Le polemiche sollevate dalla Lega Nord sui fatti espressi dallo scrittore servono solo a distogliere l’attenzione da quello che era il concetto espresso da Saviano, ovvero che le mafie si combattono conoscendole.
Dire quale sia il rituale di affiliazione, farlo recitare a degli attori, dire quali sono le gerarchie delle mafie, fare tutto ciò di fronte a milioni di spettatori, significa portare alla luce quell’aspetto nascosto di cui tutti hanno paura. Farlo conoscere, far vedere cosa c’è nel buio, cosa si muove. Significa accendere la luce per mostrare l’incubo e poterlo affrontare.
Come in un film film horror. Peccato che qui non vi sia alcuna finzione. Per molti, soprattutto addetti ai lavori, Saviano non ha detto niente di nuovo, ma quanti di quei 9 milioni di spettatori sapevano qualcosa del rito di affiliazione e delle infiltrazioni così estese anche al nord? Ora lo sanno. Conoscono il buio. E forse ne abbiamo meno paura. Almeno un poco.
Saviano sta “solo” facendo informazione. Quella che altri non fanno. Usa il mito, il racconto, per combattere il mito stesso. Usando anche un’arma in più, la televisione.
Mister D non c’è più. “Padre” di Fellini e Serpico
Mister D se ne è andato. Aveva 91 anni e 500 film sulle spalle come produttore. Gli ultimi trent’anni a Hollywood. Aveva lasciato l’Italia, dopo aver dato tutto alla rinascita del cinema nostrano nel Dopoguerra con il neorealismo e con la classica commedia all’italiana. Dino De Laurentiis è morto a Los Angeles, ormai era la sua casa. E anche qui ha fatto dei capolavori, dopo i tanti film di Fellini, come La Strada o Le notti di Cabiria, che personalmente adoro. Poco importa che abbia sposato Silvana Mangano o altri pettegolezzi sulle sue tre mogli, o altro.
Se devo ricordare un film che più mi ha colpito non posso non citare il grande Serpico, il primo film negli States. Un grande Al Pacino, una grande regia di Sidney Lumet. Un poliziotto duro dai modi molto fine (una citazione per tutte: “Sembri un buco di culo con la dentiera!“).
Mister D, così lo chiamavano per rispetto a Los Angeles, ha portato un po’ di anima europea nel cinema americano. Il figlio e il nipote, unici eredi cinematografici, Aurelio e Luigi, oggi producono soprattutto i cinepanettoni. Sembra che vogliano adottare la stessa filosofia di utilizzare gli introiti di quei film per produrre capolavori. Diceva Mister D: “Dicono che faccio film commerciali. E Fellini dove lo mettiamo?”. Speriamo.
Un assaggio di Serpico: