Tutta un’altra musica, un libro da vedere

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L’arte è un pregio? Una condanna? La riconosciamo o la inseguiamo ossessivamente per farci dire che siamo degli artisti? Riconosciamo di essere tutti artisti, oppure ci abbandoniamo a una costante ricerca di individualità? È puro cinema il nuovo libro di Nick Hornby, Tutta un’altra musica, e non nel senso di un Ken Follet, autore che negli ultimi 15 anni ha scritto praticamente solo dei libri-film, troppo visivi, come una sceneggiatura. Hornby è meno hollywoodiano, meno spettacolare, ma più umano, più indipendente, più naturale. Ha la stessa fluidità  e naturalezza nei dialoghi dei racconti di Raymond Carver, ma con più respiro, più ironia, più speranza. Restano quel tocco di nostalgia e amarezza che caratterizza tutte le opere di Horby. Le stesse presenti anche in due film tratti dai suoi libri, come Alta Fedeltà (sempre con grande protagonista la passione per la musica) ed About a boy, con protagonista un grande Hugh Grant.

Il libro Tutta un’altra musica è ancora meglio di Non buttiamoci giù, più decadente e dedicato al tema del suicidio. Entrambi non ancora diventati film. Ma che sicuramente lo diventeranno. Horby ha il grande talento di raccontare storie di vita di tutti i giorni, storie di persone normali che si credono speciali, ma che devono solo fare i conti con loro stessi alla ricerca di un posto nel mondo. Una mediazione necessaria per molti, per tutti, artisti e non artisti. Affrontare se stessi e il proprio talento (ognuno ne ha uno) per poter affrontare la propria vita.

Tutta un’altra musica, un libro tutto da vedere.

Radio Rock, il demonio della musica

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Entusiasmante, scoppiettante, ironico, intelligente. Sono molti i termini, tutti assolutamente positivi, per definire un film come I love Radio Rock, un piccolo capolavoro nel genere “corali”. La storia è quella di una delle radio che in Gran Bretagna negli anni ’60 furono costrette a trasmettere da una nave per poter far sentire il rock e il pop al pubblico. L’idea di farne un film è tanto semplice quanto originale nella rappresentazione. La musica è la vera protagonista del film, come la musica era il motore, lo svago, l’atto d’ascolto rivoluzionario, il “frutto” proibito, di una generazione “legata” da rigide autorità conservative.

L’autore e regista Richard Curtis è soprattutto uno sceneggiatore. E si vede. Suo lo script di intelligenti commedie come Quattro matrimoni e un funerale o i due Bridget Jones, aveva dimostrato di saperci fare con film corali. Nella regia, poi, ha esordito quattro anni fa il natalizio Love Actually. Ora con Radio Rock, penalizzato in Italia da un trailer che fa sembrare il film demenziale, Curtis ha confermato la propria capacità di gestire più personaggi, anche con attori del calibro di Philip Saymour Hoffman, oppure con il bel cameo di Emma Thompson, cruciale per tutta la storia.

Evitare assolutamente, quindi, di basare il giudizio del film solo sul trailer ufficiale. Meglio una delle bellissime clip su Youtube, come quella di seguito. Puro ritmo!

New moon, il nuovo Romeo e Giulietta

newmoonGli autori negano, ma la storia è quella di Romeo e Giulietta. La saga di Twilight, i nuovi vampiri che hanno letteralmente fatto impazzire i teen ager di tutto il mondo, è basata sui romanzi di Stephanie Meyer. E nelle sale cinematografiche esce in questi giorni il secondo capitolo dal titolo New Moon. Dopo il successo del primo film, Twilight, costato 35 milioni di dollari incassandone oltre 400 milioni in tutto il mondo, la nuova avventura di Bella ed Edward, lei umana lui vampiro, sembra confermare l’ipotesi che dietro tutto ci sia proprio la storia di Romeo e Giulietta.

New Moon racconta infatti dell’impossibile amore tra Bella ed Edward: lui si vede costretto a lasciarla dopo aver visto che per lei è un pericolo starle vicino. Edward decide di andare a morire a Volterra (le riprese sono state fatte a Montepulciano) dove c’è una stirpe di nobili vampiri. Bella caduta in depressione, reagisce, va a cercare il suo amore credendolo morto.

 

La storia sembra proprio quella scritta dal Bardo, solamente aggiornata alla mitologia dei vampiri. La saga di Twilight ha un grande pregio: non è solo effetti speciali, ma anche introspezione e sofferenza per un amore impossibile; i personaggi sono ben costruiti, piacciono a giovani e meno giovani; lo spazio all’azione è soltanto funzionale al racconto, non esagerato.

Totalmente il contrario di quello che è successo a Harry Potter la cui saga, seppur raccontata da autori diversi, è andata sempre più verso una spettacolarizzazione che ha però raffreddato la storia e le emozioni che avrebbe potuto suscitare i personaggi. Errore che si spera non commetta anche questa nuova saga, decisamente meno politicamente corretta, ma che i grandi produttori hollywoodiani hanno già “addentato”: budget raddoppiato con cambio di regista, Chris Weitz, abituato agli alti costi di produzione. La parola agli spettatori.

Torna l’incubo del Mostro di Firenze

mostroIl Mostro di Firenze terrorizzò l’Italia. Gli investigatori hanno brancolato nel buio per quasi due decenni, dal ’68 all’84. Sono stati commessi 8 duplici omicidi. Impensabile proporre senza edulcorazioni una fiction di questo tipo in Italia. La Rai e Mediaset ne avrebbero fatto una storia d’amore, con tanto di lieto fine.

Purtroppo (ma solo perché sono da soli) Fox Channel Italy si conferma essere l’unica vera rete italiana che investe in prodotti cinematografici di qualità, coraggiosi e senza troppe autocensure, vero problema della tv generalista italiana, una tv che non si censura di fronte a talk show che rasentano il feticismo, ma che nella finzione (fiction) vuole raccontare solo storie d’amore buoniste in cui i cattivi sono sempre delle macchiette.

Il Mostro di Firenze (fiction) fa paura come lo fece nella realtà. Chi ricorda quel periodo, rivedendo la serie tv in sei puntate le cui prime due sono state trasmesse giovedì 12 novembre da Fox, non può non ricordare le emozioni, i timori, l’angoscia di quel periodo in cui si aveva persino paura uscire di casa.

Il regista Aurelio Grimaldi di orrore se ne intende. Non avevo molta fiducia in un suo successo dell’operazione, ma è riuscito a trasportare quell’angoscia di “Caos calmo” anche in questa storia. Un  prodotto tv che finalmente diventa cinema. Certo non perfetto, anche a causa degli attori non sempre all’altezza, come Nicole Grimaudo “monoblocco” che sembra appena uscita da una puntata di Ris – Delitti Imperfetti in cui tutti gli attori recitano con lo stesso tono e la stessa faccia.

Il mostro di Firenze rimane comunque un buon prodotto, una serie tv che, almeno alle prime puntate, promette molto bene. Anche per il futuro della serie tv italiana. Fox aveva già dato dimostrazione di saperci fare con Romanzo Criminale, la serie. Ora il Mostro. Le tv generaliste o cambiano stile (recitazione, regia, ripresa, fotografia) oppure è meglio si mettano a produrre telenovelas, per utilizzare volutamente un termine anni ’80: soap opera o serial sarebbe già un complimento.

Una cintura rossa contro la violenza

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C’è sempre una via d’uscita. Una morale forse scontata, molto americana, molto “ce la possiamo fare, sempre”. Una morale che spesso il cinema statunitense, soprattutto negli anni ’80, ha trasformato in un’ideologia di destra, convinte di aver sempre ragione in un vortice dove la violenza la fa ancora da padrone oggi, con l’imposizione della democrazia.

Redbelt di quel genio di David Mamet utilizza proprio questa morale, in maniera esplicita, diretta, chiara. Ma soprattutto pura: rifiuta la violenza, scompone la necessarietà dell’utilizzo della forza al semplice concetto dello sfruttamento della forza dell’avversario. È il concetto del “ju jitsu” pratica sportiva a metà tra il pugilato e le arti marziali, basata su più tecniche la cui ideologia base è proprio la non aggressione, o meglio, lo sfruttamento della forza e della tecnica di un aggressore.

Il film racconta di un maestro di questa disciplina, integro, puro, che si vede costretto ad andare contro i propri principi dopo essere stato vittima di un raggiro. Redbelt è un film di altri tempi, con una cura dei personaggi e dell’intreccio che solo l’autore de La casa dei giochi e Americani è capace di tessere (se si cordiera che Mamet è anche stato lo sceneggiatore di Gli intoccabili, tutto torna).

I colpi di scena sembrano annunciati e ogni volta vengono ribaltati. Il tutto in un crescendo grandioso che culmina in un finale per niente cinetico come ci si aspetterebbe o come i film di azione di hanno abituato. È tutto così reale e poetico che Mamet riesce a mettere un altro tassello alla collezione di ottimi e sottovalutati film da lui scritti e diretti. Assolutamente da scoprire.

Il naso di Pinocchio non buca lo schermo tv

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Il nuovo Pinocchio televisivo era francamente brutto. Per carità anche fedele al libro di Collodi, ma non aveva niente a che vedere con un prodotto cinetelevisivo di buon livello. Dal regista del Montalbano televisivo ci si aspettava di più. Lo ha ammesso anche lui, Alberto Sironi, persona simpatica, intelligente e critica, comunque soddisfatto degli ottimi ascolti, ha dichiarato: “si poteva fare di meglio”.

La Rai, come Mediaset, continua a voler rimanere agganciata a un concetto vecchio di fiction: in altre parti del mondo è il luogo della sperimentazione, della scoperta dei talenti, delle storie innovative. Da noi, come dice Sironi ci si limita a banali storie d’amore oppure a rivisitare i grandi classici. Pinocchio non era certo semplice: ci aveva provato Roberto Benigni dopo il successo planetario de La vita è bella, ma la critica lo aveva letteralmente massacrato.

Ora, dopo il Pinocchio di Comencini con Nino Manfredi, questa nuova versione con un cast all star e girato in inglese. Senza verve, doppiaggio che sembra quasi fuori sincrono, personaggi che paiono finti, montaggio senza ritmo, lento.

Si salva soltanto la bontà di base della storia, ideale per i bambini. Meno per gli adulti. Ma il libro parla a tutti, grandi e piccoli. Difficile, è vero, trovare la lettura giusta. Ma come dice Sironi, con un po’ di impegno si poteva fare di meglio, soprattutto senza le vecchie, scomode, arrugginite catene della rigida fiction italiana.

L’Anticristo nella foresta nera dei sentimenti

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Ero da solo in casa. Ho avuto paura. Molta. Ma non era un film horror. Era Lars Von Trier. Definire un suo film con un genere è impresa decisamente ardua, è un regista capace di toccare corde dell’animo umano per cui dire che una sua opera è bella pare una bestemmia. Un pugno nello stomaco farebbe meno male. In questo Antichrist recitano solo due attori, un grande Willem Dafoe e una sorprendente e inquietante Charlotte Gainsburg (già vista recentemente in Nuovomondo di Crialese). È la storia di una coppia che, in seguito alla morte accidentale e tragica del figlio di tre anni, decide di affrontare il dolro di petto: lui psichiatra, apparentemente ha elaborato la perdita, costringe lei ad affrontare le proprie paure nel luogo che più le incute timore, la loro casa nella foresta.

Il sesso come sfogo del dolore, la paura come limite per la conoscenza di se stessi, le maschere che portiamo come riflessi del mondo che vorremmo. Von Trier ha dichiarato di aver scritto il film di getto, di non averlo fatto leggere al proprio analista per paura non volesse più ascoltarlo. Aveva ragione. Antichrist è un film “di pancia” con emozioni contrastanti che solo Le onde del destino era riuscito a rappresentare. Se con Dogville aveva estremizzato la rappresentazione scenica togliendo qualsiasi scenografia per enfatizzare le emozioni e con Dancer in the dark aveva usato la musica come strumento estraniante (ma allo stesso tempo coinvolgente), con Antichrst torna a quel modo di raccontare i mondi complessi dei protagonisti, tra ambiguità, verità e misteri.

Il senso di colpa gioca un ruolo fondamentale in tutta la storia. Per entrambi i personaggi. Non siamo capaci, come spettatori, di staccarci da loro: possiamo provare ribrezzo, disgusto, pietà, compassione. Ma il dolore è nostro, per tutto il film. In quei magistrali cinque minuti iniziali che crediamo terminare nel prologo. In quell’atteggiamento saccente, distaccato, antipatico, del marito. In quella follia di una madre che non è solo postraumatica.

Antichrist è l’essenza dei sentimenti. Lars Von Trier per molti è un genio, per altri un gran furbo che gioca con le emozioni. Rimane il fatto che è un grande provocatore. I suoi film o si amano o si odiano. Non ci sono vie di mezzo. Per le emozioni che generano dire di amarli è molto complicato. Ma rimangono nel cuore.

Il silenzio degli uomini che odiano le donne

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Deve molto al fenomeno editoriale del libro, ma Uomini che odiano le donne è decisamente un bel thriller: avvincente, non banale, che rispetta tutti i canoni del genere. Certo non reinventa nulla, come invece fece quasi vent’anni fa Il silenzio degli innocenti di Jonathan Demme, di cui riprende certe atmosfere, come il i ricordi di Lisbett da bambina, oppure il dialogo finale tra i protagonista e il serial killer. Il libro di Stieg Larsson non l’ho letto, non ancora. Non mi piace leggere i libri dopo aver visto il film. L’ultima volta che lo feci fu con proprio con Il silenzio degli innocenti tratto dal libro di Thomas Harris. In quel caso, poi, mi divorai anche il libro precedente, Il delitto della terza luna (da cui fu tratto un altro mirabile film dal titolo Munhunter, frammenti di un omicidio che mi fece scoprire e adorare il regista Micheal Mann).

Oggi, dopo aver visto il primo film tratto della trilogia di Larsson, mi convinco che romperò ancora la regola e leggerò il libro dopo la visione. Voglio capire le atmosfere, vedere come l’autore ha rappresentato la violenza, se la fascinazione del cinema ha aggiunto o, come spesso capita, tolto qualcosa al libro.

Resta comunque il fatto che quest’opera porta la singolare firma di una coproduzione tra Danimarca e Svezia (anno d’oro per quest’ultima che ha portato all’attenzione internazionale una meravigliosa storia di vampiri, Lasciami entrare, la risposta d’autore a Twilight).
Uomini che odiano le donne

ha quel giusto equilibrio tra storia, intreccio, narrazione, originalità ed emotività che il cinema hollywoodiano ha dimenticato da tempo, abbandonandosi a storie tutte uguali. Il racconto del giornalista incaricato di indagare su un omicidio di 40 anni fa e che grazie alla collaborazione di un hacker professionista, l’androgina Lisbett, scopre un pericoloso serial killer, è rappresentata con intelligenza senza dialoghi che spieghino tutti o immagini superflue e televisive. Fa paura a tratti, è inquietante in altri. Mai ridicolo. E la protagonista, non certo un esempio di classica bellezza, è il caso di dire che buca letteralmente lo schermo.

La politica distruttiva del “Barbarossa”

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Un’opera cinematografica non si giudica dal suo consenso al botteghino. È vero. Ma se a dirlo, come nel caso del Barbarossa, sono gli stessi leghisti che attaccavano, e attaccano, il cinema che prende finanziamenti pubblici e non incassa, le affermazioni sembrano quantomeno rivoltare la frittata a seconda di quale parte si vuole bruciare.

Molte le polemiche che hanno accompagnato l’uscita del film. Vi è sicuramente entrata troppa politica. Non certo per le critiche “di sinistra”, ma per la promozione che ne ha fatto il popolo padano, a partire dai suoi colonnelli.

Proviamo a dimenticare tutto. Renzo Martinelli, il regista, ha dichiarato che un film va giudicato dalle emozioni che è capace di suscitare, che deve avere una funzione maieutica, far pensare, che vada giudicato solo come un film. Bene. Quindi proviamo a utilizzare questi parametri.

Barbarossa non suscita emozioni. O meglio ne suscita molte in chi è predisposto ideologicamente a voler vedere una rivolta contro gli invasori, a chi li vuole vedere decapitati. Il film inizia bene, abbandona gli stilemi della fiction televisiva. Ma l’illusione dura poco. Ben presto entrano in gioco gli echi della “libertà” a tutti i costi. I personaggi diventano macchiette. Alberto Da Giussano non ha alcuna motivazione per combattere, non ha un conflitto interiore che lo porti ad essere alla guida della Compagnia della morte, non ha una ferita che lo spinga a fare quel che fa (se non a metà film quando muoiono i fratelli). Come se rappresentare i fatti di una storia bastasse a giustificare svolte narrative.

Barbarossa ha il grande difetto di essere stato realizzato pensando già a un pubblico di riferimento. Altroché Braveheart, grande film di Mel Gibson. Qui si raccontava una vera ribellione, di un eroe diventato tale suo malgrado, il cui scopo di vendetta è diventato motivo di libertà per molti, fin da subito gli viene ucciso il padre e, con estrema cattiveria, anche l’amata. Alberto da Giussano non è niente di tutto ciò: confonde la pazzia con la ribellione, riuscendo persino in un finale televisivo in cui l’amore trionfa a tutti i costi, anche a scapito di una narrazione. Se Mel Gibson venne accusato di megalomania, di voler diffondere un integralismo cristiano, almeno aveva realizzato un’opera che parlava al mondo intero, non a una nicchia.

La seconda parte del film inoltre (e qui si vede già l’impianto pronto per la suddivisione in due puntate da fiction) potrebbe esistere da sé, senza tutto il lungo preambolo della distruzione di Milano. Sebbene sia la parte più interessante è invece la parte più fredda, in cui le motivazioni dei personaggi vengono lasciate da parte dando eccessivo risalto alla battaglia di Legnano e al giuramento di Pontida che gli spettatori in sala attendono con ansia, a scapito di una storia che non emoziona.

Torniamo al contesto storico in cui è stato realizzato Barbarossa. Oggi. È stato detto che Martinelli non è un regista di regime. È vero. Leni Riefenstahl, la regista di Hitler prima della guerra, era una regista di regime. Conosceva l’obiettivo e lo dichiarava, non lo nascondeva dietro finte emozioni. Le sue immagini sono entrate nella storia del cinema. Nonostante l’ideologia che trasmettevano. Lo stesso non sarà per Barbarossa. Sarà proiettato per anni nei circoli della Lega, sarà oggetto di forte marketing, avrà vita lunga. Ma sarà solo uno strumento di propaganda ideologica.

La falsa redenzione di uno sporco distintivo

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Shakespeare in televisione, a Los Angeles, tra polizia e politici corrotti, gang giovanili, poveracci disadattati e amori impossibili, fatti di tradimenti e sesso. Tutto in The Shield, il distintivo, serie tv giunta quest’anno alla settima e ultima serie. Capitolo conclusivo di una saga iniziata sottotono, trasmessa a notte fonda in Italia, con uno stile che faceva sembrare il tutto un reality. Temi scottanti come quelli citati, tra denuncia e critica, che fanno degli episodi una vera cartina tornasole della società americana.

I protagonisti sono quattro poliziotti si una speciale squadra d’assalto che si ritrovano ad avere sulle spalle il peso di reprimere l’escalation di violenza che assale il quartiere losangelino di Farmington. Naturalmente per tenere sotto controllo la situazione, lo spaccio, gli assassini, non possono che diventarne una sorta di protettori, permettendo il tanto che basta che possa essere comodo a tutti, guadagnare soldi e non avere problemi con altri colleghi.

Ma quello che rende The shield inarrivabile per tutti, anche per altri autori americani di cinema, è la stessa qualità della serie carceraria Oz, in Italia troppo bistrattata. È la capacità di scandagliare la parte buia e più nascosta dell’animo umano, i desideri repressi, la gelosia, l’invidia, l’avarizia. Tutti sentimenti che in passato avevano trovato massima espressione nelle opere di Shakespeare. I puristi rideranno di questo paragone, ma questa serie tv, come i testi del Bardo, sono un vero trattato di sociologia. La serie non è ancora finita, ma gli autori hanno già dichiarato che queste saranno le ultime puntate. E finirà esattamente come tante altre tragedie del grande William, con una falsamente rassicurante redenzione.