La tecnologia, la comunicazione e la curiosità degli utenti

Il blog ventuno è arrivato al suo ventunesimo post, un traguardo significativo che sancisce, dopo essere partiti a gonfie vele poco più di due mesi fa, il momento di porsi domande esistenziali come “chi siamo”, “da dove veniamo”, ma sopratutto “che ci facciamo”. Il prof. Luca Mari, fisico, figura di riferimento internazionale di scienza della misurazione e appassionato di filosofia della scienza, prova a farci riflettere sul significato e l’importanza di porsi domande.

Lo stesso motivo che porta un bambino a toccare la fiamma di una candela o l’uomo a decidere di andare su Marte è quello che ha originato ventuno. La curiosità.

Non si trattava della curiosità di avviare un blog, ovviamente, ma la curiosità di iniziare un esperimento divulgativo: provare a offrire la tecnologia alle persone trattando temi “smart”, novitàapprofondimenti interessanti e, a seconda del momento, anche qualcosa di più commerciale, ma sempre a sfondo tecnologico. L’idea era (è) di non parlare di tecnologia fine a se stessa ma di temi socialmente rilevanti (come il dilemma delle password), o addirittura rivoluzionari (come il bioprinting e le stampanti 3D), in cui fosse possibile corteggiare la curiosità delle persone e invogliarli a leggere di più riguardo certe tematiche.
Con la consapevolezza che non si troverà, non subito perlomeno, la risposta al perché questo blog porti proprio il nome “ventuno”, buona lettura. – ventuno

di Luca Mari

Nonostante tutti gli strumenti tecnologici che ci circondano, alcune persone sono oggi tecnologicamente superficiali, nel senso specifico che costoro si fermano alla superficie, cioè, in questo caso, all’interfaccia (utente, grafica: la graphical user interface, GUI) degli strumenti. Sanno usare Facebook, Whatsapp e Youtube, e in modo non particolarmente sofisticato il motore di ricerca di google (tralascio di citare i videogiochi), ma non hanno la consapevolezza di come funziona il calcolatore, o lo smartphone, o il tablet, con cui stanno interagendo

Questa situazione è stata resa possibile dall’impiego diffuso di sistemi di interfacce “amichevoli con l’utente” (user friendly), che “nascondono” l’informazione supposta non necessaria, cioè quei dettagli tecnici che non riguardano ciò a cui l’utente è interessato (comunicare, non far funzionare un dispositivo elettronico) e lo intimorirebbero con strane complicazioni, o semplicemente renderebbero l’uso dei dispositivi assai meno efficiente. Un’ottima cosa, dunque, condivisa da più o meno tutti i dispositivi che ambiscono al successo sociale: come l’automobile si può usare senza conoscere il funzionamento del suo motore, così un tablet si può usare senza sapere cosa succede quando tocchiamo il suo schermo. L’impiego sempre più rilevante di software in molti sistemi ha poi accelerato questo processo, progressivamente “alzando” – come si dice – l’interfaccia, cioè allontanando sempre più gli utenti da “quello che c’è sotto”.
L’amichevolezza nell’uso era interpretata inizialmente con l’obiettivo di costruire interfacce in grado di riprodurre esperienze quotidiane (si pensi allo schermo del calcolatore rappresentato come scrivania) e perciò “naturali”. Con la disponibilità di strumenti tecnologici sempre più sofisticati, che consentono la costruzione di interfacce con sofisticati effetti tridimensionali di colori e ombre, è sempre meno sufficiente che l’interfaccia stessa sia naturale: deve essere anche gradevole, elegante, attraente (e non tutto ciò che naturale lo è…), tanto che c’è da supporre che molti considerino oggi queste caratteristiche determinanti della scelta di acquisto di un oggetto come uno smartphone o un tablet.

Per migliaia di anni, la specie umana si è evoluta con l’implicita ipotesi che in definitiva ciò che è rilevante nella comunicazione tra individui, diretta o mediata da strumenti, siano i contenuti che si intendono comunicare. Nel corso del XX secolo, e in particolare con la diffusione della televisione, i sociologi dei mass-media hanno cominciato a dubitare di ciò, intuendo che, anche a prescindere dai contenuti trasmessi, certi strumenti di comunicazione potessero essere talmente ricchi e coinvolgenti da risultare interessanti come tali. Questa interessante interpretazione, ben sintetizzata nell’espressione medium is message (Marshall McLuhan, 1964), è però sempre meno corretta. Con la diffusione di quel fantastico medium digitale e versatile che è Internet, dal punto di vista degli utenti le differenze tradizionali tra media (sistema postale, libri, quotidiani e riviste, telegrafo, telefono, fax, radio, televisione) si stanno progressivamente riducendo a eventuali differenze tra dispositivi di accesso all’unico medium, Internet stesso: la posta è un modo di usare Internet, e così via.

La tecnologia ci sta dunque consentendo di disintermediare i media, ciò “che sta in mezzo” tra le entità che comunicano. Stiamo allora tornando a un’epoca in cui il contenuto (di quello che comunichiamo) è il messaggio, content is message? Oppure stiamo entrando in una terza fase, in cui il messaggio è qualcos’altro? In una fase in cui, forse, device is message?

[continua con la seconda parte]

 

A voi interessa conoscere come funzionano gli strumenti che usate? Perché?
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Luca Mari

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