Nella seconda e ultima puntata del ventunesimo post di ventuno, il prof. Luca Mari, fisico, figura di riferimento internazionale di scienza della misurazione e appassionato di filosofia della scienza, continua il suo ragionamento e mette a confronto conoscenza e magia. Buona lettura. – ventuno
di Luca Mari
[continua dalla prima parte] L’alternativa è cruciale. In una prospettiva sociale, tutto ciò è nuovo e ha straordinarie potenzialità, che riguardano in particolare i ragazzi di oggi, che sono nati quando web e i telefoni cellulari erano già una consuetudine, che con ogni probabilità non hanno mai visto funzionare un programma all’interno di un terminale alfanumerico, e che non cancellano file ma trascinano icone (di documenti) su un’icona (di un cestino). Per costoro l’interfaccia non è un’interfaccia ma è, appunto, il sistema.
“Sono su Facebook” perché riesco comunicare con il mio smartphone secondo schemi di interazione che ho acquisito, ma potrei non avere la minima idea di come ciò possa accadere. Lo sviluppo tecnologico è stato talmente di successo che l’uso di calcolatori (magari presentati come telefoni) connessi a una rete non è più riservato a esperti in camice bianco, ma è diventato possibile praticamente a chiunque. E in conseguenza si pone, correttamente, il problema del digital divide: l’accesso alla rete è sempre più un diritto di cittadinanza, perché Internet deve essere un’opportunità per tutti e non un modo per aumentare le differenze tra “chi può” e “chi non può”.
Ma queste potenzialità sono accompagnate anche da straordinari rischi. L’evoluzione della nostra specie è accompagnata dall’ignoto: per migliaia di anni esseri umani si sono sfamati e dissetati senza conoscere la differenza tra proteine e vitamine e senza sapere che l’acqua è H20, e anche oggi siamo ben consapevoli che più scopriamo più scopriamo di poter scoprire.
Accettare passivamente l’ignoto è invece un atteggiamento non così diverso da quello dei cosiddetti “primitivi” di fronte al mondo: impari a interagire con le cose per i tuoi scopi, ma le cause dei fenomeni che osservi ti rimangono nascoste. E allora le supponi magiche.
Come il funzionamento di quello che c’è dietro a Facebook: per qualcuno è talmente inspiegato e inspiegabile da diventare semplicemente una magia. Come se Facebook (che naturalmente continua a essere solo un esempio) fosse in effetti un’entità di genere naturale, analogamente all’acqua che scorre nei fiumi e che, sempre per magia, ci giunge attraverso gli acquedotti. Come se fosse un dato di fatto. Non si tratta qui, ovviamente, di rimpiangere i vecchi tempi delle schede perforate: è ben chiaro che se prima di cominciare a usare il programma di elaborazione di testi con cui scriviamo dovessimo conoscere la fisica quantistica che descrive il comportamento dei transistor sotto la tastiera, tutto si fermerebbe. Il problema è un altro, ed è più sottile e insidioso. Salvo forse per coloro che cercano di conoscere per il piacere della conoscenza, la specie umana ha combattuto l’ignoto perché, pur essendo naturale, è pericoloso: se non si conosce, si muore.
La novità di oggi è che l’ignoto di Facebook non appare minimamente minaccioso, e anzi, proprio grazie a interfacce gradevoli, eleganti e attraenti, è rassicurante: “stai pure tranquillo: non c’è alcun bisogno che tu sappia”. Questo è un potenziale pericolo radicale: interfacce amichevoli stanno uccidendo la curiosità e il gusto di “leggere dentro” (uno dei possibili etimi di “intelligenza”) nelle cose. E questo, se anche solo parzialmente si realizzasse, sarebbe catastrofico.
Il problema più radicale di un’eventuale regressione verso la magia è infatti che inverte la direzione di un percorso culturale che la nostra società ha intrapreso da secoli e che ha un fondamento epistemologico che si può leggere chiaramente in filigrana. Gli esseri umani hanno un bisogno psicologico profondo di rispondere a domande-perché, cioè di trovare spiegazioni (a partire dalle domande “papà, perché…?” iterate dei bambini), e ciò almeno perché, appunto, le spiegazioni sono efficaci strumenti di cui ci siamo dotati evolutivamente per aumentare le nostre probabilità di sopravvivenza.
Sono queste qualità che hanno generato la tecnologia, cioè la conoscenza generale, e quindi appunto basata su leggi, del saper fare, e del saper risolvere efficacemente problemi. “Perché c’è stato questo rumore nel cielo?” “Perché oggi Zeus è arrabbiato”. Questa spiegazione è forse suggestiva ma non è di alcuna utilità se vogliamo imparare dall’esperienza a prevedere qualche aspetto di quello che potrebbe succedere nel futuro, e trarne le opportune conseguenze.
La sfida è importante: possiamo imparare a usare gli strumenti che la tecnologia ci mette a disposizione senza perderci nella complessità di quello che “c’è dentro” ma nello stesso tempo essendone utenti critici e consapevoli? Possiamo rimanere noi a governare gli strumenti, invece che (rischiare di) diventare schiavi degli strumenti stessi, e quindi attraverso di essi di coloro che li hanno prodotti? Insieme con la tecnologia in quanto tale, sono in gioco le condizioni della diffusione sociale dei suoi strumenti, della psicologia dei loro utenti, e perfino dell’etica di coloro che, a vario titolo, cercano di controllare questa nuova-nascente cybersocietà (il prefisso cyber deriva dal greco — ancora una volta… — e richiama il timoniere della nave): l’auspicata società della conoscenza non diventerà una società del controllo solo se il piacere di conoscere rimarrà una qualità degli esseri umani.
Ma, per vincere questa sfida, cosa è necessario conoscere? e come è appropriato impararlo? e quindi come aiutare nel processo di apprendimento?
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